Questo articolo fa parte dello speciale Settimana Hideaki Anno.
Il nostro viaggio-tributo a Hideaki Anno, un grande dell’animazione contemporanea, è giunto quasi alla fine. Come ideale conclusione, mi sono rivolto a fumettisti e studiosi di animazione, in modo offrire una visione il più ampia possibile. Tutti hanno risposto con incredibile spirito critico, non limitandosi a celebrare l’artista ma piuttosto a riflettere su quali dinamiche intercorrono fra l’autore, la sua opera e il mercato.
La domanda rivolta è semplice: cosa ha rappresentato, per te, il lavoro di Hideaki Anno? La varietà degli interventi è, a mio parere, il fulcro su cui si fonda il senso di questo percorso.
Dario Moccia (Dario Moccia Channel; sceneggiatore di We are the Champions, con Tuono Pettinato, Rizzoli Lizard)
Non ho conosciuto Hideaki Anno fin da subito. La mia giovane età inizialmente non mi permise di collegare il suo linguaggio artistico a una serie apprezzata moltissimo dalla mia generazione come Nadia – Il mistero della Pietra Azzurra. Solo successivamente, con l’avanzare della mia passione per l’animazione, ho scoperto ogni lato della psicologia multisfaccettata di un colosso come Anno.
Con questo mio piccolo scritto non vorrei soffermarmi su Neon Genesis Evangelion, la sua creatura più famosa; lascerò che parlino di questa serie le innumerevoli tesi di laurea sull’argomento. Quello che mi premeva rimarcare è quanto Anno sia stato un volto importante e influente nella cultura giapponese. Sì, parlo di “cultura” e non di “cultura otaku”, poiché Anno non ha solo potenziato, rivoluzionato e infine contrastato il mondo pop nipponico che tanto voleva espandere, il Maestro si è fatto carico di talmente tanti aspetti controversi di quel suo amato universo da uscirne ammaccato e, ahimè, depresso.
Anno, come gli altri grandi maestri degli anime della sua generazione (e non), rappresenta un corto circuito. La sua grande forza di volontà nel perseguire i suoi ideali fu come una risposta a qualcosa che prima o poi doveva succedere. I mecha, grandi rappresentanti del fenomeno anime e manga nel mondo e simbolo di un Giappone che negli anni ’70 rialzava la testa, dovevano continuare a vivere. Anno lo sapeva.
Il suo approccio anticonvenzionale ai robottoni fu solo la punta dell’iceberg, dato che quello che aveva in mente era un mix di elementi mitologici abbastanza sconosciuti per il pubblico nipponico, un intreccio psicologico profondo e una rottura totale con la solita dicotomia bene/male dei personaggi di serie coi robot. Il regista scommetteva sul suo pubblico intrattenendolo con una qualità tecnica impeccabile ma educandolo con contenuti dalla multipla interpretazione.
Per Anno la cultura otaku doveva essere rivalutata dall’interno e dall’esterno, con la dimostrazione che quei fissati rinnegati dalla società intellettuale avevano da dire qualcosa dal forte impatto sociale e filosofico. La risposta degli otaku fu confusa e solo in parte riuscì a recepire quello che l’autore voleva dire. Molti di essi si attaccavano al design dei mecha o alle scene d’azione, rinunciando involontariamente a tutto quel ben di Dio che Anno aveva affiancato a quel tripudio di azione, colori e armature mai viste prima.
Hideaki Anno galleggiò in un limbo per anni, soddisfacendo e deludendo molti dei suoi fan a seconda delle sue brusche sterzate stilistiche e contenutistiche, a volte provocando a tavolino il suo stesso pubblico.
La sua mente è un turbinio di idee a volte scomposte, a volte indirizzate verso qualcosa di ben preciso; un fiume in piena di creatività che ama e odia tutto ciò che ha creato. Lo venera talmente tanto da abbeverare tutti i suoi “simili”, lo detesta a tal punto da travolgere quegli stessi fan che prima aveva accontentato. Commerciale e di nicchia allo stesso tempo. Venerato come un Dio, che spesso è un tiranno coi suoi discepoli.
A causa di questo suo inceppamento morale, il Maestro si trova spesso depresso, senza bussola e privo di scopi ben precisi. I suoi sensei di certo non lo aiutano ad avere le idee chiare, dato che lo stesso Miyazaki si è ritrovato e si ritrova spesso in questo tipo di situazioni.
Ma Hideaki Anno è bello così. Affascinante, dannato, decadente e sempre alla ricerca di se stesso. Lo fa attraverso le proprie opere e che non ha paura di mandare in vacca tutto per prendere una posizione totalmente contraria a quelle precedenti. Anno osa, sperimenta e sparisce per curarsi da qualcosa che sente di aver creato anche lui, nel bene e nel male.
Noi, invece di lamentarci, dovremmo metterci a studiare ogni sua scelta per scoprire il linguaggio di un autore illuminato fuso indissolubilmente a ciò che crea. Ha rivoluzionato, se ne è pentito, poi ci ha ripensato. O forse no.
Brian Ruh, (autore del saggio The Stray Dog of Anime: The Films of Mamoru Oshii, Palgrave Macmillan)
Quando è al suo meglio, Hideaki Anno è il filosofo otaku. Altre volte, è un otaku che filosofeggia. Sembra di essere nel bel mezzo di una battaglia tra due lati di Anno per assistere quale emergerà nelle sue opere – la furiosa lotta tra audacia, il disagio della crescita e i suoi piaceri rassicuranti. Può sembrare strano a dirsi, ma in Evangelion, Anno sceglie un approccio quasi nietzschiano alla sua materia, in particolare per quel che riguarda il personaggio di Shinji. Se c’è un personaggio nell’animazione giapponese impossibile da associare al concetto di Oltreuomo (Übermensch) questo è probabilmente Shinji, il quale viene sempre trascinato e a cui viene costantemente detto cosa fare. Tuttavia, è proprio questo il punto!
Il focus dell’Übermensch di Nietzsche dovrebbe essere sul superamento di sé, e Shinji ha sicuramente molti problemi da affrontare e superare. Non sarebbe una battaglia interessante se Shinji avesse una vita facile. Ma alla fine Shinji ha successo e alla fine riesce a intraprendere la propria strada, ovunque essa porti. È una follia, però, credere che un tale percorso debba necessariamente essere lineare. Dobbiamo essere preparati alla possibilità di ricadute, anche dopo le nostre scoperte. E anche dopo, è possibile continuare a continuare a essere un otaku, pur riconoscendo al tempo stesso l’attrattiva dei media?
Sarà interessante vedere come Anno concluderà la sua recente serie di reboot dedicati a Evangelion, dal momento che Shinji non è proprio lo stesso personaggio che era nella serie televisiva. Naturalmente, Anno non è lo stesso regista che era venti anni fa. Mentre scrivo questo, Shin Godzilla, che Anno ha co-diretto, è diventato il film con il più alto incasso in Giappone per la stagione in corso. Non ho ancora avuto modo di vederlo, ma da quello che ho sentito è sia un ritorno al cinema vecchio stampo in stile “Godzilla” (soprattutto l’originale), un’opera assolutamente contemporanea che affronta temi di forte attualità in Giappone.
In altre parole, nel suo stare a cavallo tra entusiasmo otaku e pensiero complesso, il film è profondamente un’opera di Hideaki Anno.
Matteo de Longis (disegnatore di Orfani per Sergio Bonelli Editore e autore di Prism per Bao Publishing)
È innegabile quanto l’influenza di Evangelion sia stata seminale per me. Nonostante ciò, mi esibirò nell’esercizio folle di scrivere su Hideaki Anno SENZA nominare direttamente Evangelion. Me l’hanno suggerito al centro d’ascolto che frequento.
C’è una cosa fondamentale che ho capito di questo animatore e regista: Anno è evoluzione continua, Anno cambia cambiando le cose. Permettetemi di andare all’origine: sotto la sua abilità come animatore puro, le sue visioni, la sua impronta registica riconoscibile e personale, c’è un otaku. Esattamente quel termine, spesso usato a sproposito, che definisce un appassionato di intrattenimento con un’accezione negativa.
Anno però è un Otaku evoluto. Invece di chiudersi in un mondo passivo, ha trasformato la sua passione in creatività e ci lancia un messaggio.
In principio c’è un ragazzo ossessionato dai Tokusatsu che imita le pose di Ultraman, adora gli eroi giganti in tutina che combattono contro i mostri e ama far esplodere modellini di città (non vi sembra che lo schema si ripeta in quella cosa che ho promesso di non nominare?). Ma non è solo questo. L’evoluzione e il mutamento non avvengono tra un’opera e l’altra, Anno è in continuo divenire esattamente durante la lavorazione di ogni singola opera. Praticamente ogni sua serie comincia in un modo e si trasforma con sviluppi inaspettati e sconvolgenti in un climax che termina con nuove idee potentissime ribaltando a volte le premesse.
Ho capito Anno abbastanza per pensare che egli stesso viene trascinato da questo flusso, rimettendo tutto in discussione. Lo descrive come una suite musicale, un concerto in cui si aggiungono gli strumenti, layer dopo layer, definendo inaspettatamente il suono finale.
Gunbuster è un esempio lampante: quello che comincia come una saga robotica con sfumature da anime scolastico divertente si evolve, in soli 6 episodi, con un climax sempre più drammatico, fino a sfociare in un finale epico e tragico in bianco e nero. Il miracolo si ripete in Nadia, e così via… Sì, anche in quella cosa fondamentale che non posso nominare.
Anno parte sempre da un amorevole tributo a un genere con citazioni e omaggi, per poi rivoluzionarlo in una parabola ascendente imprevedibile. E fa il capolavoro.
Quest’uomo è mosso da un fortissimo bisogno di esprimersi e spesso mette molto di sé nei suoi anime, al punto che momenti di reale depressione coincidono con periodi di crisi sulla lavorazione di qualche serie (o serie di film). Ecco, il modo in cui Hideaki Anno riesce a sbloccare la situazione e fare il salto evolutivo “in corso d’opera” è forse il momento in cui libera il massimo di energia. Ogni volta è un quantum leap.
Questo contiene e riverbera il suo messaggio fondamentale, che risuona sensatissimo in una società come quella giapponese: comunicate, uscite dagli schemi, non subite tutto (l’intrattenimento) senza esprimere un proprio pensiero critico.
Quello che sento di avere in comune con Hideaki Anno è proprio questo: all’inizio siamo tutti degli appassionati di qualcosa, ma per fare la differenza ci vuole quell’energia che ci spinge a creare, a esprimersi attraverso immagini ed evolvere cambiando inevitabilmente anche l’ambiente artistico in cui ci muoviamo.
Ha rivoluzionato l’animazione seriale, il genere “robotico”, lo shoujo e ora mette la sua zampa su Gojira, in un cerchio che si chiude perfettamente. Tutto avviene senza presunzione ma con sincero amore, tra rispetto e innovazione. Oggi con maggior consapevolezza si allinea a quell’appello allarmato del (suo) maestro Miyazaki sul degrado dell’animazione giapponese. Ovviamente il suo non è un mero lamento, Anno non sta a guardare. Il suo contributo concreto è l’Animator Expo, evento che produce innumerevoli corti animati con gli studi d’animazione giapponese più all’avanguardia, a testimonianza di quanto, in realtà, il futuro di questo mezzo sia ancora luminoso.
Ste Tirasso, (autore di Ricomincia da qui, Bao Publishing)
Fumettologica mi contatta e mi chiede se mi va di scrivere qualche riga su Hideki Anno e sull’eventuale influenza che ha avuto sul mio lavoro. Io sono un po’ in imbarazzo, perché significa che dovrò svelare un segreto custodito in silenzio per anni: non ho mai visto Neon Genesis Evangelion.
O meglio, non l’ho mai visto correttamente, dalla prima all’ultima puntata: da ragazzino mi è passato davanti agli occhi una miriade di volte, ma senza mai riuscire a catturarmi completamente, e questo ha comportato una decina di episodi visti in ordine probabilmente sbagliato e assolutamente casuale. Un bel casino, quindi.
Recentemente ho avuto modo di recuperarlo, ma pur apprezzandolo soprattutto per le caratterizzazioni dei personaggi, Evangelion non è mai riuscito a toccare quelle corde che ogni bella storia dovrebbe almeno solleticare.
Prima di NGE, però, Hideaki Anno ha lavorato su un’altra serie animata, solitamente ricordata come un bel cartone animato per bambini (complice la voce di Cristina D’Avena nella sigla), ma che per me ha sempre significato qualcosa di più.
Nadia – Il mistero della pietra azzurra, la prima serie diretta da Anno, è stata una delle opere che più ha cambiato il mio gusto e il mio modo di percepire l’animazione seriale, che fino ad allora oscillava tra le kamehameha di Son Goku e le svolazzate di Jet McQuack in Ducktales.
Mescolando al suo interno elementi dall’immaginario di Miyazaki, Julius Verne e racconti biblici e mitologici, Nadia mi portò a una fascinazione per opere che avrei scoperto e amato solamente anni dopo, incanalandole nel mio modo di scrivere e raccontare.
Con i suoi soli 39 episodi, che obbligano a una narrazione piuttosto serrata e con pochissimi filler, credo che Nadia fu la prima serie animata che da bambino seguii dall’inizio alla fine, rimanendo fortemente turbato dal fatto che un cartone animato potesse avere una conclusione così ineluttabile (anche se il modo in cui Gargoyle trova la morte – SPOILER, i cattivi alla fine perdono – mi lasciò a bocca aperta per un pomeriggio intero), ma al contempo lasciandomi trasportare da una trama dove le persone morivano senza che nessuna sfera magica le resuscitasse (che scoperta fu per me), dove l’amicizia/amore tra Jean e Nadia veniva trattata nei modi più diversi, a volte dedicandovi puntate intere e a volte solo suggerendola tra una scena e l’altra, e dove tutti i protagonisti seguivano un percorso comune che li avrebbe portati ad una crescita interiore e alla scoperta di se stessi e delle proprie insicurezze.
Nadia è pensato per un pubblico molto più giovane rispetto ad Evangelion, questo è vero. Io lo vidi per la prima volta a 8 anni, ad esempio, e l’ultima volta un paio di mesi fa. Ma se devo pensare a uno dei punti cruciali della mia formazione artistica, non posso lasciare da parte quei pomeriggi in compagnia di Jean, Nadia, Marie e tutta la ciurma del Nautilus.
Emanuele Tenderini (disegnatore di Lumina, Tatai Lab)
Hideaki Anno è uno di quegli autori da cui mi lascio totalmente travolgere. Non capita spesso, ad uno come me, molto “chiuso” in se stesso e nel suo lavoro. Ho sempre (a torto) diffidenza nei confronti del lavoro degli altri, seppur Maestri, seppur blasonati.
Anno, invece, riesce sempre a travolgermi e stravolgermi. Il suo lavoro mi estranea completamente dalla realtà del mio lavoro, dai pensieri sul “mio modo di fare”, da ciò che penso sia giusto per me, e mi trasporta a un successivo livello di consapevolezza dove, a poco a poco, la mia mente si apre alle nuove possibilità (che poi non raggiungo, ma almeno ho l’idea di quello che potrebbe essere).
L’ultimo vero flash potente l’ho avuto con Evangelion You Are (Not) Alone. È veramente difficile descrivere cosa abbia provato durante e dopo la proiezione del film. Prima lo so. Andavo a vedere un lungometraggio di un Anime che non mi aveva poi così tanto sconvolto la vita. L’ho amato e seguito fin dalla sua uscita, Evangelion (perché su questo ho deciso di porre l’attenzione), ma all’epoca uscivano talmente tanti manga e Anime che vivevo in una sorta di paradiso incantato. Niente riusciva a sconvolgermi perché tutto mi sconvolgeva.
Entrato in sala ho aperto gli occhi e non li ho più richiusi. Devo aver avuto un’espressione davvero beota, all’uscita, perché sorridevo di una nuova consapevolezza. Quel film mi aveva fatto capire che non c’è limite alla creatività. Lo sapevo già, continuo a saperlo e lo saprò per sempre, ma è veramente dura affrontare un lavoro con il coraggio di decidere di non avere limiti. Anno, con la sua produzione e, ripeto, specificamente con il suo You Are (Not) Alone, mi ha dimostrato cos’è l’arte e l’immaginazione, come questi due elementi si possano fondere, regolati dalla più sublime delle tecniche contemporanee e, da ciò, prenderne slancio per arrivare a un livello superiore.
Da quel momento in poi ho deciso che avrei spinto sempre al massimo il mio lavoro. Sono ben lontano dal riuscirci. Ma proprio tanto, lontano.
Walter Baiamonte (autore di L Tiers, Shockdom)
Anno 199x.
Un giovane futuro presidente della Lariato Corp, ancora privo del terzo occhio in quanto a conoscenza di anime, cultura pop e fumetto nipponico, comincia ad avvicinarsi al genere e decide di passare dal video al cartaceo tramite l’inevitabile DBZ, cominciando a collezionare Ranma ½ e scoprendo i primi echi di Katsura.
Torna poi alla visione di anime limitandosi a quello che passa occasionalmente MTV o alle vhs arraffate agli amici. Finché un giorno, proprio come quando un esperto di picchiaduro entra in un gruppo di giocatori facendone salire il livello generale, o come quando un monolite nero viene a contatto con delle scimmie alzandone il livello intellettivo, o quando il frutto della conoscenza viene raccolto: uno dei suoi amici introduce l’intero gruppo a quella che viene ritenuta l’opera più importante (o se non altro, per quanto sia ironico, la più popolare) di Hideaki Anno: Neon Genesis Evangelion.
Dopo numerose conversazioni con l’ormai compromesso amico sul simbolismo nascosto dentro Evangelion e dei suoi collegamenti con la cabala ebraica, il giovane presidente Lariato si è ormai rassegnato a un’immagine mentale colossale dell’opera e ne è intimorito, al punto da ritenerla una cosa troppo impegnativa per i suoi standard di intrattenimento mediatico. Visto il rifiuto di avvicinarcisi di propria sponte, l’impatto con Evangelion viene posticipato e, data la sua noncuranza di quelli che oggi vengono chiamati “spoilerz”, il giovane presidente si ritrova a casa dell’amico nel bel mezzo di una delle sue numerose re-visioni, assistendo al momento cruciale dell’episodio 24. Kaworu Nagisa si trova all’interno del pugno dello 01, pregando un confuso Shinji Ikari di ucciderlo per salvare il genere umano riflesso negli occhi puri di quest’ultimo (chi ha visto la scena dell’ospedale in The End of Evangelion ride).
I due si guardano tramite gli occhi dell’Eva colpendo al cuore dello spettatore in un freezeframe dalla durata allucinante per qualsiasi standard televisivo mentre la pausa, musicata da Beethoven, viene sfruttata dall’amico del giovane Lariato che azzarda un «tu che dici, lo uccide?», seguito da una smorfia di sadico piacere nascosta sotto i baffi, provocata dal «ma no, dai» dato in risposta dall’ingenuo Lariato Jr.
Questo breve racconto rappresenta al meglio il mio rapporto di odio/amore nei confronti della serie: un’opera diretta magistralmente per tutto quello che riguarda il simbolismo, avvolta in un guscio esteticamente incredibile ma con una scrittura dei personaggi che, a mio avviso, dovrebbe di regola generare un sentimento di fastidio o addirittura disgusto nei confronti dello spettatore, ma che tragicamente fallisce nel suo scopo: Con NGE, Anno mette in atto un’operazione di demolizione dell’anime come media e di quello che rappresentava in quel periodo; media che con il passare degli anni è andato degenerando sempre di più.
Un eyecandy a base di contenuti moralmente raccapriccianti e con la sola funzione di distrarre un popolo in depressione, un pretesto per creare gadget e dakimakura per gonzi occidentali.
È risaputo che nella sua opera, oltre al sottotesto collegato ai testi della cabala, Anno nasconde il suo disgusto verso la figura dell’otaku e, per sconfiggere l’immagine dell’anime come linfa di tale figura sociale, costruisce dei personaggi basandosi su archetipi classici di quel periodo, portandoli all’estremo massimo della sopportazione di un qualsiasi spettatore che non si definisca nerd/otaku (come se fosse un pregio), per poi distruggere sotto i suoi occhi annebbiati dall’ industria televisiva tutti i personaggi di una serie che, episodio dopo episodio, risucchiano lo spettatore nella loro spirale di paranoie.
Secondo me, questa è la parte più ironica di questa storia: Anno è guidato dal più puro dei sentimenti per portare a termine il suo sabotaggio, ma nel farlo viene concettualmente inglobato dalla macchina nera degli anime, e quello che dovrebbe essere visto come un raggio di giustizia senza pietà viene interpretato da una enorme parte del pubblico come l’ennesimo prodotto di belle gnocche succinte che pilotano robottoni e uccidono kaiju.
Generazione dopo generazione, anche i nostri figli potranno quindi permettersi di scegliere tra il dakimakura di Rei Ayanami o il mousepad palpabile di Asuka.
Per fortuna il mercato giapponese dimostra che esistono molti modi per distaccarsi dagli aspetti negativi di un media: ad esempio concentrandosi su quello che c’è di buono cercando di ristabilire un equilibrio intellettuale senza tirare in ballo tali aspetti, o persino accettando di raccontare qualcosa che non ci piace, senza incarnarne lo spirito e rischiando di sbagliare il colpo nel renderlo positivo agli occhi dello spettatore meno attento.
La vicenda di Anno, a mio avviso, si macchia proprio di questo e può quindi insegnarci molto sul senso della misura e sull’importanza del non dover perdere di vista ciò che si vuole raccontare, dando la giusta importanza al più puro degli scopi: quello di aprire gli occhi a un pubblico lobotomizzato dall’industria, ma senza perdere di vista il modo in cui lo si fa e cosa viene sacrificato agendo così drasticamente, finendo per subire la stessa sorte di ciò che voleva decostruire.