Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le coversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».
Questa domenica a parlare c’è Alessandro Tota, autore di Yeti, Palacinche, Fratelli, Il ladro di libri (con Pierre Van Hove), Charles, è tra i fondatori di Canicola, ha vinto numerosi premi ed è una delle eccellenze del fumetto italiano contemporaneo. Vive e lavora a Parigi.
Spesso si parla di Osamu Tezuka per i suoi exploits da superuomo: era capace di disegnare più di venti tavole al giorno e portare avanti contemporaneamente un numero folle di progetti.
Questi aspetti hanno contribuito a crearne il mito e può capitare che si parli fin troppo della sua prolificità, dimenticando di concentrarsi sulla qualità delle sue opere migliori. Spesso ci si dimentica di dire quanto siano semplicemente belle le sue storie, o anche semplicemente di quanto sia bello il suo disegno, inventiva la sua composizione. Di quanto i suoi libri colpiscano per la loro energia e la loro vitalità.
Al centro dell’opera di Tezuka c’è l’uomo, la domanda su cosa ci renda umani, il tentativo di definire dei valori universali. In diverse opere si interroga sul rapporto dell’uomo con la morte, ed è all’interno di questa riflessione che si sviluppa quello che è secondo alcuni il suo capolavoro: La Fenice.
La Fenice è una raccolta di quelli che oggi chiameremmo “romanzi a fumetti”. Sono storie auto conclusive, ognuna di qualche centinaio di pagine, con dei personaggi che ritornano in varie epoche della storia umana, dall’alba dell’umanità fino alla sua estinzione. Questi personaggi si confrontano con un problema molto semplice: non vogliono morire e cercano il modo di sopravvivere o addirittura di conquistare la vita eterna, simbolizzata dalla Fenice, l’uccello che risorge dalle sue ceneri.
Amo molto il quarto libro della serie, il Libro del Mito (vol. 5 e 6 dell’edizione italiana). Racconta le vicende di due uomini: il bandito Gao e lo scultore Akanemaru, mostrandoci il modo imprevedibile in cui gli individui sono cambiati dalle circostanze della vita. Il libro è pervaso dalla filosofia buddista, la religione è discussa dai personaggi in maniera esplicita, e così lo sono i rapporti della religione con il potere. La storia riflette anche su cosa sia l’arte e in quali rapporti sia l’artista con la società, su cosa siano il successo e l’ambizione e su come essi modifichino le persone. Ma questa lista di grandi temi non deve far pensare a un’opera tediosa. Tutt’altro. E’ una storia fatta di emozioni: Tezuka mira al cuore, fa ridere e fa piangere, i personaggi spesso sbagliano e pagano per i loro sbagli, e i lettori gli sono vicini col cuore.
Ti ricordi come e quando hai conosciuto Tezuka?
Sinceramente non ricordo. Proprio non saprei, forse me ne ha parlato Manuele Fior, ma non ne sono sicuro.
Cosa ti piace di lui?
Ho sempre trovato affascinante il suo disegno, la sua sintesi. Non è un disegnatore realistico. Questa mi appare una scelta necessaria per liberare la narrazione: per il fumetto, come lo intendo io, un eccessivo realismo è un impaccio. Per volare nella narrazione serve uno stile che evochi la maschera più che la realtà del volto umano.
La linea tende al cerchio: è vitale, dinamica. Il suo modo di inchiostrare è pulito, veloce, perfetto per assecondare la rapidità della produzione. Non rischia di essere rallentato da strumenti bizzarri che magari rischierebbero anche di essere stampati male (negli anni ’60 non c’era lo scanner). Opta per una bella linea di contorno pulita. Nessuna incertezza, in modo da potersi occupare dei personaggi e lasciare gli sfondi agli assistenti. Anche la scelta del grigio è una grande comodità, rende più chiari i piani prospettici, aiuta a leggere l’immagine senza essere invasivo.
Guarda gli sfondi. Tezuka opta per una sintesi creativa, reinventa il mondo. È una scelta precisa, diversa, per esempio, da quella di un altro grande del manga come Shigeru Mizuki. Tezuka sceglie di dare unità all’uomo e al mondo: sono fatti dello stesso elemento. È una differenza importante. Così come è dinamico il disegno, lo è anche l’impaginazione, sempre mutevole. Lo stesso per la sintassi della narrazione per immagini: la più libera che si possa immaginare. Usa qualunque cosa possa servirgli per coinvolgere il lettore, per trascinarlo nel vortice che per lui è una storia. Non ha altro rigore che la ricerca della massima efficacia, del massimo impatto. Si incontrano ripetizioni, immagini astratte, metafore visive, inquadrature di tutti i tipi, rallentamenti e improvvise accelerazioni nella narrazione.
Tempo fa, alla mostra Scorsese alla Cinematheque, mi sono reso conto che c’è un tipo di artisti che ricorre a qualsiasi tecnica sia utile a sostenere la scena che hanno voglia di raccontare, non scelgono il rigore di una ristretta grammatica di procedimenti, ma spaziano in lungo e in largo nella stessa opera. Naturalmente sono artisti che hanno una grande capacità tecnica. Tezuka e Scorsese sono lontanissimi, ma entrambi cercano il massimo impatto emotivo e attraverso qualunque possibilità la loro cultura/immaginazione gli metta a disposizione. Provate a guardare Casinò di Scorsese catalogando le tecniche che usa, c’è da perdere la testa. Mi sembra che lo stesso di possa dire di Tezuka.
E delle tavole che hai scelto cosa dici?
Vi si vede il protagonista Gao, un giovane senza un braccio, poverissimo, che ha vinto un po’ riso in un combattimento. Potrà finalmente sfamare la sua povera madre. Ma qualcuno getta del fango sul riso rendendolo immangiabile. Gao si vendicherà uccidendo l’autore del gesto.
Gao sembra avere un momento di raccoglimento prima di correre a vendicarsi. È il momento che determinerà tutta la sua esistenza. Si ferma fuori dalla sua capanna. Qui Tezuka allontana l’inquadratura salendo improvvisamente di chilometri nel cielo e Gao ci appare grande come una formica. Poi si torna al nostro livello: il viso di Gao mostra la sua determinazione: si mette a correre. Subito dopo, il riso caduto a terra viene ricoperto da formiche che se ne nutrono.
L’immagine equipara l’uomo e la formica: hanno la stessa taglia. Le loro sorti hanno la stessa importanza, è solo questione di prospettiva. La sventura di uno è stata la fortuna dell’altro. Chi può dire cosa sia più importante? Sarà reso esplicito dal monaco Rôben a Gao a pagina 78: «Hai ucciso molte volte. Ma dal punto di vista della vita, esseri umani e insetti sono uguali… E tu te ne sei accorto». Ma questo accade cinquanta pagine dopo. Il messaggio è già passato in queste pagine senza dialoghi.
Nella vita, e non intendo nella vita dell’individuo, ma nella vita come insieme dei viventi, tutto si trasforma, la morte di uno nutre la vita dell’altro. Siamo tutti formiche. È una visione terribile, verrebbe da dire che è una visione “al di là del bene e del male”, sopportabile soltanto se ne risulta un grande rispetto per tutte le forme di vita.
A un certo livello tutta la storia umana non è che un episodio. Questo punto di vista “cosmico”, influenzato dal buddismo (almeno a quanto posso comprendere leggendo La Fenice), è molto affascinante e destabilizzante. La cosa strana è che credo di poterlo comprendere razionalmente, attraverso uno sguardo scientifico, anziché con gli strumenti della mia cultura religiosa di provenienza, quella cattolica. Quest’ultima mai accetterebbe di mettere tutte le forme di vita allo stesso livello. Prima viene l’uomo, poi il resto. Invece Tezuka parla di altro. E non lo fa con pagine di spiegazioni e lunghi dialoghi. Lo fa con dei disegni. Sono pagine mute queste, e non mi pare poco.