di Chris Ware*
(traduzione di Francesco Pacifico)
Questo testo è apparso come introduzione al catalogo della mostra “Chris Ware” allestita alla Sheldon Memorial Art Gallery di Lincoln (Nebraska) nel 2007. È pubblicato per la prima volta in italiano nel volume Chris Ware – Il palazzo della memoria, curato dall’associazione culturale Hamelin e pubblicato da Coconino Press. Il volume verrà distribuito nelle librerie e fumetterie a partire dal 24 novembre, in occasione della prima mostra italiana di Chris Ware, che si terrà a Bologna dal 25 novembre al 7 gennaio e che sarà inaugurata alla presenza dell’artista durante il festival BilBolBul.
Sono nato a Omaha. Ho goduto di un’infanzia incantata, privilegiata e più o meno idilliaca, ho frequentato una scuola religiosa di buona reputazione, e passavo i fine settimana a giocare e disegnare nella sicurezza delle case di mia mamma e dei miei nonni, nei giorni declinanti dell’America pre-Watergate. Non ho mai conosciuto il bisogno né la fame né orribili tragedie, e ho avuto come unica preoccupazione quella di essere un secchione poco atletico, con dei capelli anni Settanta da checca che mi facevano sembrare un incrocio fra un fiammifero e una bambina: non proprio una ricetta per il successo nel mondo scimmiesco dei maschi preadolescenti. Ho dunque passato molto tempo a disegnare e inventare. E non avendo in sostanza altro problema che l’ansia assillante di scoprire come ottenere i superpoteri, sono riuscito a isolarmi in una frizzante nebbiolina di nonsense assoluto fatti salvi l’occasionale interruzione di un agguato nel corridoio della scuola o la palla avvelenata tirata in faccia dai miei compagni più integrati. (Tutte esperienze, tra l’altro, per cui oggi provo gratitudine, perché sono stati i soli momenti di vera chiarezza emotiva e morale della mia giovinezza).
Coltivando con cura questa flebile fiammella di autocommiserazione per tutta l’infanzia, l’ho vista divampare appena ho deciso di diventare un autore di fumetti, professione che non solo mi permetteva di proteggere e giustificare i miei interessi infantili, ma che mi forniva anche un completo, isolato e assoluto controllo sulla mia realtà parallela artistica. (Se non fosse patentemente ovvio, è facile cadere nel vortice dei fumetti, più difficile uscirne, il che va benissimo se sei un ragazzino o scrivi cose per ragazzini, ma può essere un problema se stai cercando di creare qualcosa di serio o empatico sulla vita vera). Sia mia madre che mio nonno lavoravano per l’Omaha World-Herald, e alcuni dei miei ricordi infantili più vividi quanto all’arte sono le visite alla redazione artistica e l’occasione di vedere photo editor e illustratori come Mike Drummy che creavano cose incredibili con una facilità e velocità che mi lasciava di stucco.
Ho anche avuto la fortuna di vivere a due passi da Hank Barrow, ex cartoonist del giornale, allora pensionato e tanto gentile da permettermi di andare a trovarlo per guardare il suo tavolo da disegno e sentirgli raccontare barzellette sconce mentre cercavo di convincerlo a disegnarmi una Wonder Woman o una Supergirl. (A suo illustre credito, non aveva idea di cosa parlassi). Al di là delle mie incursioni al Seven Eleven (e più avanti, quando la mia forma di demenza ha assunto un’apparenza più culturale, al negozio di fumetti) alcuni dei pomeriggi più piacevoli della mia infanzia li ho passati a leggere copie gratuite dei libri dei Peanuts che mio nonno aveva ricevuto dalla United Features Syndicate, e che sono state la mia prima esperienza di striscia in cui il personaggio principale è qualcuno di cui non ti limiti a ridere, ma a cui tieni sinceramente. Intuendo in me un qualche interesse artistico in boccio (senza contare il probabile bisogno di una guida) mia madre è stata tanto sensibile da iscrivermi a un corso di disegno del Joslyn Art Museum, le cui porte pesanti che sibilavano con il vento avrei attraversato coscienziosamente ogni sabato, per poi uscirne al trotto per tornare a casa ai miei fumetti e agli amati programmi tv. Se da un lato ero rispettosamente interessato all’arte appesa ai muri, non mi passava per la testa che si trattasse di qualcosa che la gente faceva ancora. Mi sembrava tutta di un’era diversa: per lo meno, non era niente di cui la gente parlasse davvero fuori dal museo. In effetti non mi sono reso conto che un libro potesse emozionarmi seriamente fino al giorno in cui la mia insegnante di seconda media, Jackie Byers, mi costrinse a portare a casa Uomini e topi per il fine settimana: tra l’inizio riluttante (non ci sono astronavi?!) e la fine, in una sola seduta di lettura, con le lacrime agli occhi (lacrime vere!), un interruttore dentro di me venne “schiacciato” e mi resi conto che arte e letteratura avevano un potere che mai prima avevo considerato.
A quindici anni mi sono trasferito in Texas con i miei genitori. Ora, quindici anni non è una buona et. per un trasloco, e la sicurezza, seppur immaginaria, che Omaha mi aveva offerto durante l’infanzia, sparì tutta insieme. Per la prima volta ho potuto davvero avere la sensazione di un luogo: non per la sua presenza, ma per l’assenza. In un certo senso era come se fosse morto un familiare. (In effetti, un familiare è morto qualche anno dopo, ma non corriamo troppo). Nell’arsura texana mi sono ritrovato a struggermi per gli inverni freddi e la neve, gli accenti piatti e qualcuno che non mi ridesse in faccia se ordinando una soda la chiamavo “pop”. Fra le vacanze di primavera e quelle estive aspettavo sempre il momento in cui sarei tornato a Omaha. Là, dormivo a casa di mia nonna e cercavo, con le visite quasi ossessive ai vecchi luoghi e amici, di non far morire le sensazioni dell’infanzia che andavano svanendo un poco ogni giorno. Ascoltavo i racconti di mia nonna, tanto ricchi e dettagliati, sulla vita sua e di mio nonno nel Nebraska: aveva un’intensità ai limiti del viaggio nel tempo. Andavo in macchina fuori città e rimanevo a fissare l’orizzonte. Raccoglievo scaglie di vernice e pigne e le riportavo a casa.
A metà degli anni Ottanta ho frequentato il college a Austin, alla University of Texas, e ho studiato disegno e scultura senza perdere l’ambizione di diventare chissà come un fumettista, vivendo una sorta di “doppia vita” disegnando una striscia un po’ troppo arguta per il giornale studentesco e frequentando lezioni sull’espressionismo astratto, l’arte performativa e le installazioni. Quel periodo mi aprì gli occhi. All’epoca magari mi lasciò frastornato, ma ancora oggi ringrazio il cielo di aver ricevuto un’istruzione completa, perché, a parte le basi di storia dell’arte che ricevetti, le mie innumerevoli buche mentali (o dovrei dire “voragini”?) sulla letteratura, storia americana, scienze e filosofia furono a loro volta riempite, e infine compresi che molte delle cose che mi avevano formato culturalmente prima del college erano infantili. Al tempo stesso, ero ancora in qualche modo scoraggiato dal tono ottuso e, mi pareva, didattico di tanta arte: mi sembrava che mi si incoraggiasse a tenermi alla larga da ogni possibile ricorso alle emozioni, per cui cercai di essere un bravo studente e continuai coscienziosamente le mie ricerche sullo “spazio pittorico”, evitai di macchiarmi del “sentimentalismo della rappresentazione” sia nella mia pittura che nei miei fumetti, cercando di imparare a parlarne e a difenderli anche se mi rendevo conto che non sarei sempre stato lì per farlo. Fu solo dopo i miei primi veri turbamenti di ventenne ipersensibile (fu una ragazza, certo) che decisi, un giorno, così, di buttare tutto e di cominciare a disegnare storie e immagini di cose a cui tenevo e che avevano un significato per me. Arrivai alla conclusione che, semplicemente, non aveva importanza cosa pensavano gli altri di quel che disegnavo, né, soprattutto, se fosse roba riuscita o no. E praticamente dal giorno alla notte, per la prima volta da quando ero piccolo, quel che facevo mi diede gioia (è incredibile pensare che prima non mi accorgessi che non mi dava piacere: la mente può portare il suo proprietario con l’inganno in lande tetre e disperate d’ogni sorta. E qui non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato nelle belle arti o che uno debba per forza trarre piacere da quello che fa, ma questo è perlomeno quello che successe a me).
Curiosamente, le case e i contesti della mia infanzia cominciarono a fare capolino sullo sfondo dei miei fumetti e dei miei dipinti, e vidi che ritrovarmeli davanti agli occhi mi procurava conforto. Per qualche motivo, mi dava il coraggio di cimentarmi, non senza nervosismo, con storie più personali, e di provare a ricreare sentimenti e situazioni che non avevo ancora affrontato né compreso.
Con il passare dei mesi e degli anni scrissi dei ricordi della mia infanzia, di mia madre e mia nonna, che a quel punto si era trasferita da Omaha in una casa di riposo in Texas. Per cui, invece di dover fare mille miglia per andarla a trovare, ora mi bastava un’ora e mezza di macchina, e invece di vedermi strappare dagli occhi il passato nel volo di ritorno come era stato quando avevo quindici anni, ora guardavo qualcuno che mi svaniva lentamente da davanti agli occhi.
Provavo e riprovavo a catturare lei e i miei ricordi di Omaha sulla carta, ma finivo subito ad affossare il racconto con dettagli tipo i vestiti che questo o quell’altro personaggio indossava quel dato giorno, o i dubbi su chi avesse detto cosa. E in più mi dava una sensazione sgradevolissima disegnare qualcuno in maniera così diretta. Sembrava un atto quasi maleducato, invasivo, e spesso in ogni caso nemmeno ricordavo l’aspetto delle persone, problema che sembra toccarci solamente riguardo a persone per cui proviamo grande affetto. Come se non bastasse, ero così vicino e perso nelle mie emozioni che comunicare qualsiasi cosa in modo accurato era quasi impossibile. Ironicamente, alla fine scoprii che incanalando questi sentimenti e situazioni in altri personaggi, diventavano finalmente più gestibili, li potevo capire. La distanza sapeva darmi in qualche modo la necessaria prospettiva per scrivere di certe cose e per capire se sulla pagina stessi dando senso a delle emozioni reali o fosse solo roba stucchevole, ossia quel che la scrittrice e artista Lynda Barry una volta mi disse che definiva “imparare come mentire”, che non corrisponde affatto al mentire comunemente detto. Dopo anni passati a disegnare fumetti, sono arrivato a capire che è questo il vero valore della finzione; la finzione permette di superare i dubbi e i dettagli concreti per “riportare in vita” l’essenza di una persona come ce la ricordiamo. In un certo senso, è un po’ come la differenza tra recitare e imitare: a un certo punto ci si deve consegnare al personaggio (che è in effetti solo l’inesplicabile somma dei nostri ricordi, convinzioni e presentimenti su qualcuno, reale o immaginario che sia) alla stessa maniera in cui un artista deve consegnarsi all’arte, non pre-pensarla o progettarla apertamente, perché arte è un modo di pensare unico e irriducibile.
Ancora oggi i luoghi della mia giovinezza mi forniscono uno strano sfondo teatrale che mi è necessario per sentirmi dentro e, allo stesso tempo, distante dalle storie su cui lavoro: non troppo diverso da come le case e le scuole della giovinezza riappaiono e risorgono ogni notte nei sogni di tutti. Nutro profondo affetto per tutti quei posti, che, peraltro, con il passare dei decenni, praticamente non esistono più, sebbene siano reali, nella mia mente, come qualunque stanza in cui mi possa trovare in questo momento. Chi di noi non può chiudere gli occhi e vagare con la mente nelle case dell’infanzia, aprendo porte e cassetti e scendendo scale in quella strana mancanza di peso che dà la memoria? Nonostante il tenero richiamo che Omaha esercita su di me, sono sicuro che se fossi cresciuto in Texas e mi fossi poi trasferito in Nebraska a quindici anni avrei avuto nostalgia dei lecci e delle rocce del deserto e delle sue chiacchiere pigre, e ora starei lavorando a una storia ambientata in un simulacro di scuola e quartiere texani. Non ho interesse a commentare né scrivere editoriali su Omaha più di quanto penso che Alexander Payne faccia nei suoi film o Sherwood Anderson abbia fatto su Clyde in Ohio, trasformata sulla pagina in Winesburg, perciò spero che nessuno prenda niente di tutto ciò in maniera personale. Omaha è semplicemente il posto che conosco e da cui vengo, e dove torno quotidianamente, che sia in sogno o al tavolo da disegno.
È anche un luogo che amo e che, di conseguenza, dimentico sempre un po’ di più ogni giorno.
*Chris Ware è nato a Omaha, Nebraska, e vive a Chicago. Nel corso della sua carriera ha vinto numerosi Eisner Awards, gli “Oscar” del fumetto americano, ed è stato il primo autore di fumetti invitato ad esporre le sue opere al Whitney Museum of American Art. Il suo graphic novel più noto, Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla Terra, pubblicato in Italia da Coconino Press, ha vinto il prestigioso First Book Award del quotidiano inglese The Guardian e il premio “Miglior Album” al festival francese di Angoulême. Oltre a quest’opera-fiume “di 3.072 disegni e 47.339 parole” ha pubblicato, tra l’altro, la serie Acme Novelty Library, il graphic novel Building Stories e il work in progress Rusty Brown.