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La normalità speciale di Richard Thompson

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La penna perfetta

In questi giorni arrivano da tutte le parti omaggi a Richard Thompson, l’autore della striscia Cul de Sac, recentemente scomparso. Tra questi, c’è quello di John Martz che ricorda del suo incontro con il fumettista e di quando, frustrato per non essere in grado di replicare la vitalità della sua linea, scrisse un tweet in cui diceva: «Ho trovato la penna perfetta ma poi è caduta in un vulcano». Richard Thompson gli rispose domandando: «Che penna era?».

Glielo aveva chiesto anche il regista Pete Docter quando lo invitò a lavorare al film Inside Out. «Come se usare le sue penne mi avrebbe fatto diventare bravo come lui», aveva raccontato al Washington Post. La conoscenza di Thompson della sfera infantile e la sua abilità nel disegno avevano attratto l’interesse del regista. «Non so come faccia, ma trova queste cose specifiche e strane della sua infanzia, anche solo una camminata buffa. E io penso “Come fa a ricordarselo?”, ma sono queste piccole cose specifiche di trent’anni fa che danno vita ai personaggi».

Cul de Sac

Bushismi in versi

Nato a Baltimora, Thompson ha passato gran parte della sua vita nella periferia di Washington D.C., producendo copertine, vignette e illustrazioni per molte testate, specialmente il Washington Post e la sua sezione domenicale. La capitale è oggetto della sua rubrica Richard’s Poor Almanac  una citazione del Poor Richard’s Almanack di Benjamin Franklin –e lì ambienterà le vicende di Cul de Sac.

Per lui, come i personaggi della striscia, Washington è una città come tante altre, solo più invasa dai turisti rispetto a Idiotville (Oregon); non la vede come la capitale del mondo libero ma come una città suburbana dove il Campidoglio è un luogo esistente ma non percepito, posto su un piano di realtà diverso da quello dei distretti periferici.

Su Richard’s Poor Almanac Thompson commentava i fatti della settimana o metteva su carta qualsiasi pensiero gli passasse per la testa. Fino al 2001, quando una vignetta intitolata Make the Pie Higher gli cambia la carriera. Era un sonetto che metteva insieme le frasi più stranianti dell’allora presidente Bush, mostrando la pochezza di pensiero e linguistica dell’uomo (e dei suoi collaboratori).

La vignetta nasce dal fatto che alla prima cerimonia d’insediamento di Bush non era presente un poeta che declamasse una poesia. Robert Frost lo aveva fatto per Kennedy e Clinton aveva rinnovato la tradizione prima con Maya Angelou e poi con Miller Williams. «All’epoca sembrava una cosa grossa, che mancasse un poeta» racconta Thompson al Comics Reporter. «Così presi un po’ di bushismi e ci feci un poema libero per colmare il vuoto».

Make the Pie Higher venne analizzata nel dettaglio, adattata come canzone, citata e diffusa. Divenne virale, quando ancora ‘virale’ era un termine associato soltanto alle infezioni provocate dai parassiti intracellulari, e attirò l’attenzione di Lee Salem, il boss della Universal Uclick che aveva messo sotto contratto Bill Watterson.

La striscia non era nei programmi di Thompson, tanto che quando gliela propongono tergiversa, non risponde agli inviti, sparisce per un anno. Ha paura che, con un fumetto quotidiano, le cose perdano energia in fretta. Ma i suoi personaggi, che comparivano sul Washington Post ogni settimana dal 2004, demandavano di essere raccontati anche nei giorni che separavano una domenica dall’altra.

E, quasi cinquantenne, dopo una passeggiata di due ore sulla spiaggia, si decide. Cul de Sac esce nel 2007 senza nemmeno un intervento editoriale. Seguono lodi e premi (il Reuben Award nel 2011, ottenuto dopo soli quattro anni dall’inizio della striscia, solo Bill Watterson aveva fatto meglio) e diventa un instant classic.

Cul de Sac

I bambini di Cul de Sac

Cul de Sac è tutto un commento sulla solitudine, sulla precarietà, sulla noia dell’infanzia. In Little Neuro, il fumetto preferito da Petey – un omaggio all’opera di Winsor McCay Little Nemo –, il bambino protagonista sta a letto ma non succede nulla; la madre dei due fratelli guida un camion dal colore talmente neutro da «non esistere in natura», secondo la figlia; Ernesto, uno degli amici di Petey, nemmeno esiste, perché è frutto della sua immaginazione. Ogni personaggio vive nel proprio mondo e Cul de Sac è la piccola, magica, intersezione di tutti questi mondi. Così la macchina del padre di Alice è talmente piccola che si confonde con i giocattoli della bambina.

Alice Otterloop, quattro anni, e suo fratello Petey, otto, sono i protagonisti della striscia insieme al resto della comunità urbana. Alice è la bambina più semplice del Creato, perché non ha sovrastrutture, è senza filtri. Petey invece è una sovrastruttura vivente. Lei è la forza inarrestabile, lui l’oggetto inamovibile. Nelle intenzione dell’autore, Petey è un anti-Bart Simpson, non è un monello, ha dei doni ma non li usa perché è talmente consapevole di sé da diventare nevrotico e chiudersi alle nuove esperienze.

Cerca la perfezione quando non è necessaria, è l’infanzia che cerca stabilità, ordine e controllo attraverso i fumetti e diorami fatti con le scatole da scarpe. Per questo le storie che lo vedono protagonista sono una scusa per metterlo in una situazione di imbarazzo e stress. E siccome è nel conflitto e nelle frizioni che sta l’interesse dei lettori, il miglior amico di Petey è André, un ragazzotto timido e fumettaro come lui, ma ben piazzato e meno complessato. Thompson descrisse la relazione tra i due con una brillante analogia: «Petey è un personaggio alla Chris Ware, André è Jack Kirby, il bello sta nel vederli interagire insieme».

I bambini di Cul de Sac sono peculiari nel loro quotidiano, si comportano esattamente come chiunque altro bambino. Sono estremamente estroversi e al tempo stesso estremamente introversi. Non pensano in modo lineare e seguono tangenti che gli adulti non colgono. In una delle prime strisce la maestra di Alice invita un cantante folk per fargli suonare una composizione dedicata a un cane.

Quando la maestra invita la classe a fargli delle domande, i bambini colgono l’opportunità di far sapere all’uomo che qualcuno di loro ha un cane, qualcuno due, qualcun altro un gatto, per poi partire con improvvisazioni sulla parola “cane” degne del miglior Thelonius Monk. Dirigerli verso un percorso educativo prestabilito è una sfida che la maestra ha già perso in partenza. Una scena del genere non è poi così irripetibile nella realtà, anzi.

Cul de Sac

In questo sta la speciale normalità di Cul de Sac: i personaggi non vivono in un loro universo, per quanto uniforme e consistente, come i bambini di Peanuts o il protagonista di Calvin and Hobbes, tutti con un loro lato bambinesco (anarchico, non sequenziale, unidirezionale) e uno intellettualoide. Calvin e Alice sono dotati di una fervida immaginazione, ma il Calvin che scrive Watterson è una trasposizione adulta di quello che farebbe l’autore se fosse un bambino.

Come scrive il Comics Journal, ad Alice non verrebbe mai in mente di gettare un rotolo di carta igienica nel water per vedere il nastro fare mulinello nello scarico, perché è uno scherzo da adulti. Le basta stare in piedi sul tombino del parco giochi, per attirare l’attenzione della madre. Calvin costruisce scene di epiche battaglie tra pupazzi di neve (o suicidi o incidenti automobilistici), a Petey bastano i diorami nelle scatole da scarpe per tenere sotto controllo il mondo ed a Alice disegnare facce allegre sui sassi sembra un passatempo più che sufficiente.

L’unico punto di incontro di Thompson con Schultz e Watterson sta nel non volere a tutti i costi imbambolare il lettore con la costruzione della gag. Delle volte la battuta finale esiste a sé, altre volte non c’è proprio.

E poi il suo tratto è nato per raccontare i bambini: piatto e rotondo allo stesso tempo, sul bilico di disegnare un volume o il nulla della bidimensionalità, in uno stato fluido che si accorda all’instabilità dei più piccoli. Le forme sono basilari, un cerchio per le teste, un rettangolo per i corpi, tubi per braccia e gambe. Le linee escono dai bordi, sembrano sbagliate e per nulla pronte ad andare in stampa. L’occhio di Thompson semplifica tutto e poi ci versa sopra strati di tratteggi, colori e imperfezioni, in un equilibrio che tanti fumettisti gli hanno invidiato, primo fra tutti Bill Watterson.

Cul de Sac

Disegnare una striscia dovrebbe essere divertente

La vita editoriale di Cul de Sac è stata breve perché, ad appena un anno dal suo debutto, Thompson scopre di avere il morbo di Parkinson. Di solito di malattie come il Parkinson non si ha granché voglia di parlarne, perché non sta bene, perché sappiamo già tutti cos’è e non è bello da vedere. Perché sennò sei una carogna, che usa il pietismo riservato ai malati per ottenere attenzione. Perché sennò sei un approfittatore, che non rispetta il silenzio e il riserbo della famiglia.

Eppure parlare di un argomento, rappresentarlo, è l’unica azione che vidima l’esistenza e lo porta a essere discusso fuori dalla sua zona di sicurezza. Non può essere qualcun altro a farlo, non lo si può fare con altri mezzi.

Thompson della sua malattia ha sempre parlato, al Washington Post, sul suo blog (chiedendo battute a tema), nelle interviste o ai panel a cui era invitato, attivandosi in prima persona con mostre e retrospettiva al fine di raccogliere fondi per la Michael J. Fox Foundation. Contribuì perfino Watterson, interrompendo il suo autoesilio dalla scene, con un dipinto e un’ospitata sulla striscia Pearl Before Swine.

Cul de Sac

«Mi diagnosticarono la malattia nell’estate del 2008» spiega Thompson nel 2012. «Iniziai a incespicare nel lettering nel 2009, ma era una cosa che si poteva sistemare. Ma quando le teste di Alice e Dill iniziarono a sembrare sgonfie, ho capito che stavo perdendo controllo del disegno.»

Ha lavorato fin quando gli è stato possibile, assumendo Stacy Curtis, fumettista e illustratore di libri per bambini, per inchiostrare le sue matite. Le cure però gli portano via troppo tempo e non riesce a stare dietro alle scadenze. «Il Parkinson è una malattia incredibilmente egoista ed esosa. Lo è anche una striscia a fumetti e io posso affrontarne solo una alla volta. È stata una decisione ponderata, graduale e improvvisa allo stesso tempo.»

Certo, come dice lui, avrebbe potuto «ingaggiare un disegnatore, fare solo le domenicali, provare Photoshop, lasciare le pagine bianche sul mio tavolo da disegno e sperare che gli elfi si presentino di notte e disegnino qualcosa», ma separare i testi dai disegni è una cosa che gli riesce difficile perché le due cose si nutrono a vicenda. Alle volte, l’idea giusta per una striscia gli viene quando la sta inchiostrando ed essere privato di una componente del lavoro lo priva del divertimento. «E se devo fare un lavoro così intenso come disegnare una striscia è meglio che sia divertente».

Le due lettere di Thompson inviati a due alunni delle elementari (immagini per gentile concessione di Rama Hughes).

Qualche anno fa Rama Hughes, illustratore e insegnante d’arte in una scuola elementare, aveva convinto alcuni artisti (tra cui Stuart Immonen, Aaron Renier e Susie Ghahremani) a diventare amici di penna dei suoi alunni. Hughes, in un post su Facebook, ha spiegato che Thompson, nonostante la malattia, non solo aveva risposto ma aveva anche fornito un minimo di nozioni e suggerimenti ai bambini.

La striscia incompiuta

Cul de Sac sarebbe dovuto finire il 23 settembre 2012 con una striscia in cui la mamma di Alice le sta leggendo una fiaba che termina con il classico “E vissero felici e contenti”. Alice reagisce male a questa ovvietà: lo trova un modo noioso, vago e insoddisfacente di finire una storia. Perché gli scrittori fanno così? Non hanno più idee? Così la bambina va in camera del fratello, come suo solito. E poi, nell’ultima vignetta, sarebbe dovuto succedere qualcosa di divertente. Però qualcosa non ha funzionato. Sul suo blog, Thompson spiega che «i disegni non si comportavano a dovere e le parole si perdevano».

Così il fumettista ha dovuto chiamare il suo editor, comunicandogli la sconfitta e dirgli che avrebbe preferito usare come ultima striscia una domenicale del novembre 2007, in cui Alice e Petey discutono di fumetti. È una striscia che mostra i pregi di Thompson: il lavoro sulle linee, la modulazione dei colori (lo sfondo che prende fuoco durante la tirata di Alice), come fa recitare i personaggi (Petey che sposta il peso sul tavolo a ogni stacco).

Sotto al disegno c’è la critica all’imbarbarimento di questa forma d’arte, spesso inintelligibile da un pubblico che ha perso gli strumenti per decodificarla, a volte bistrattata dagli autori che non sanno comunicare a dovere le loro idee.

Cul de Sac finisce con una replica, come a suggerirci che Thompson è ancora lì, a lavorare sulla striscia che non ne voleva sapere di coagularsi in un pezzo finito di arte fumettistica, da tipico perfezionista che cerca ancora la penna giusta con cui disegnare.

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