Atsushi Kaneko è stato uno degli ospiti stranieri principali durante l’ultima edizione del festival Napoli Comicon. Tra i mangaka contemporanei è considerato un autore relativamente atipico, un po’ per lo stile visivo più “occidentale” della media, ma anche – e forse soprattutto – per l’immaginario originale (la serie che lo ha fatto conoscere in Italia, Bambi, era uno strano patchwork tra action vampiresca, commedia e toni punk) e la grande abilità nel raccontare storie ricche di tensione e paradossi (rileggetevi la nostra recensione di Wet Moon, per esempio). Il suo Soil è tra i manga recenti più apprezzati qui a Fumettologica, al punto da essere finito tra le 10 migliori serie pubblicate in Italia nel 2015. E gli editori nostrani continuano a puntare su di lui, con la traduzione del recente Deathco e la riedizione del ‘cult’ Bambi remodeled (entrambe Star Comics).
Approfittando della sua presenza a Napoli, abbiamo voluto intervistarlo. Per la verità io e il sensei ci eravamo già “incontrati” su Twitter, e sapeva che la sottoscritta è la traduttrice di Soil. Quando ci siamo presentati dal vivo mi ha stretto la mano felicissimo e si è detto onorato di conoscermi, dopo avermi ringraziato per il lavoro che faccio con il suo fumetto. Devo ammettere che ci sono rimasta abbastanza di sasso: è davvero difficile che un giapponese sia così estroverso e si comporti in maniera così affabile. Il risultato è stata una piacevole chiacchierata [che compare su Fumettologica un po’ in ritardo, ehm, a causa della sottoscritta – NdMemedesima] in cui racconta il suo percorso, il suo stretto rapporto con il cinema e dice come la pensa sulla percezione del suo lavoro come mangaka ‘alternativo’.
Il festival Napoli Comicon quest’anno ha dedicato un’attenzione particolare alle relazioni tra fumetti e audiovisivi. Mi pare particolarmente calzante per lei, visto che il cinema ha sempre avuto un rapporto molto stretto con il suo lavoro.
Prima di diventare mangaka volevo fare il regista ma poi ho pensato che sarebbe stato troppo lungo e complicato, così ho optato per i fumetti, perché disegnare mi piaceva. Solo che non ne leggevo e non sapevo come si facesse. Il punto è che in Giappone tutti i bambini leggono manga e provare a disegnarli è una cosa spontanea e naturale. Io invece mi sono ispirato ai film, dato che non sono mai stato un gran lettore di fumetti. In seguito ho avuto anche l’occasione di dirigere un film (uno degli episodi del film collettivo Rampo Noir, del 2005 – NdR) e ho messo in pratica quello che avevo imparato facendo fumetti. Alla fine ho mescolato i due media tra loro, influenzandoli a vicenda.
L’esperienza come regista è andata bene? Lo rifarebbe?
Innanzitutto va detto che fare fumetti è un lavoro solitario, ma puoi avere il controllo su tutti gli elementi dell’opera. Fare un film, invece, ti permette di stare a contatto con tante persone, che è molto bello, ma tutti apportano un contributo all’opera e forniscono le loro idee. In questo modo il regista non ha il controllo su tutto, ed è facile che la sua idea iniziale venga cambiata in corso d’opera. Credo di preferire una situazione in cui ho il controllo totale, perché così mi sembra che sia più facile restare soddisfatti del prodotto finale.
Se non facesse manga… cosa farebbe?
Questa è una domanda molto difficile! Non ne ho idea… Da quando sono diventato mangaka ho potuto fare cose che normalmente in pochi fanno: tipo essere invitato in Italia, rilasciare interviste… Però di fatto faccio una vita piuttosto solitaria e vedo solo la mia famiglia. Forse mi sarebbe piaciuto fare un lavoro che mi desse la possibilità di incontrare tante persone. Un lavoro più tranquillo, a contatto con la gente.
Com’è avvenuto il suo esordio nel mondo dei fumetti?
Non so se si possa chiamare esordio, ma ho disegnato il mio primo fumetto mentre mi stavo laureando. In Giappone funziona così, prima della laurea ti rilasciano un certificato con cui garantiscono la tua laurea entro l’anno e tu con quello puoi già cominciare a cercare lavoro. È una sorta di garanzia per l’eventuale futuro datore di lavoro. Ecco, io questo certificato non l’ho avuto e non ho potuto mettermi a cercare lavoro come i miei amici! (ride) Dunque, che fare? Dopo averci pensato un po’, ho deciso di disegnare un manga. L’ho realizzato per i fatti miei e l’ho spedito a un concorso per esordienti, vincendo. La rivista era Big Comic Spirits (settimanale della Shogakukan indirizzato a un pubblico maschile tra i 20 e i 25 anni – NdR). Dopodiché mi affiancarono un editor per correggere quello che non andava, e imparai tante cose. La prima serializzazione è iniziata quando avevo 25 anni, su un’altra rivista. La storia si chiamava Rock’n roll igai wa zenbu uso (letteralmente: “Tutto è una bugia all’infuori del rock’n roll”) e oggi è introvabile. Diciamo che posso considerare quello come il mio debutto. Solo che all’epoca volevo davvero fare il regista e non capivo se il manga era la mia strada o no. Quindi ho smesso e mi sono iscritto a una scuola di cinema. Avevo 27 anni. Mentre frequentavo i corsi, però, mi resi conto che disegnare mi mancava molto, e mi tornò la voglia di fare manga. Così ricominciai, sviluppando un mio stile personale, e pubblicai l’episodio pilota di Bambi, che in seguito è diventata una serie.
Ho letto che non ha assistenti: è vero? Come procede nel lavoro? Giornata tipo?
È vero, non ho assistenti. Ma la mia giornata di lavoro non è un argomento interessante … mi alzo insieme a mio figlio e mi metto al lavoro fino all’ora di cena. Tutti i giorni. Abbastanza noioso! (ride). La mia routine lavorativa con i manga è la seguente: prima scrivo tutta la sceneggiatura, e per farlo ho bisogno di un posto silenzioso, perciò vado spesso in biblioteca con il computer. Una volta finito di scrivere faccio il layout, studiando la divisione della tavola in vignette. Nella fase iniziale faccio le pagine più piccole, e ne disegno 24 in 3 fogli. Fino a qui lavoro in biblioteca. Poi a casa ripasso la matita con la fude-pen (un pennarello con la punta flessibile, tipo quella del pennello – NdR), uso solo quella. Infine scansiono tutto per gli ultimi ritocchi con il computer. E poi esco a farmi un bicchiere!
Musica, film, libri, serie tv, fumetti…: qual è il suo rapporto con i diversi media?
Quando ho disegnato Wet Moon, che è basato sui film giapponesi degli anni Sessanta, vedevo film di quel tipo e ascoltavo il mambo. Adesso ho cambiato e ascolto solo cumbia. Mi piace la musica latinoamericana. Conosco gruppi giapponesi che fanno ottima samba.
Per quanto riguarda il cinema, mi piace Nicolas Winding Refn, il regista di Drive. Era tanto che un film non mi colpiva così. Fumetti praticamente non ne leggo, mentre i libri sì, anche se da quando sono diventato mangaka non ho molto tempo. A parte gli autori giapponesi c’è un libro di un giornalista americano che mi è piaciuto molto, The Psychopath Test (di Jon Ronson, tradotto anche in Italia con il titolo Psicopatici al potere – NdR). La sua tesi è che nella società esiste un 4% di persone psicopatiche ma, se consideriamo soltanto i politici, o in generale la gente che ricopre ruoli di potere, la percentuale all’interno di quella cerchia limitata è più alta. È molto interessante!
Viene spesso considerato autore alternativo, se non “underground”, per lo stile e i temi. È così anche in Giappone?
In America, nel fumetto americano, c’è una linea precisa che separa il mainstream, come Marvel o DC, dall’underground, come ad esempio Daniel Clowes. In Giappone la divisione non è così netta, perché esistono fumetti di qualunque genere e per qualunque target, e i confini sono piuttosto labili.
Quindi un fumetto underground da cosa lo si riconosce?
Beh, l’industria del manga è un po’ tutta uguale, i disegni e le storie si assomigliano tutte, per essere fruite dal maggior numero possibile di lettori. Quindi basta avere uno stile un po’ diverso dalla media per essere definiti underground. Direi che basta guardare i disegni per classificare un’opera come “underground”.
Ritiene di essersi posto al di fuori dell’establishment del manga, oppure si è adeguato alle rigide regole delle consegne e dell’editoria in generale?
Per come sono fatto, penso che non riuscirei a lavorare per una rivista settimanale dall’enorme tiratura. Sono molto felice di pubblicare su Comic Beam (rivista mensile edita dalla casa editrice Enterbrain – NdR) perché posso gestirmi il lavoro con serenità, senza troppe pressioni. Adesso riesco a lavorare con lo stesso approccio che avevo quando ho iniziato, l’unica cosa importante, anche per gli editor, è che produca delle buone opere.
Al suo nome è facile accostare la musica punk, lo stile di fumettisti americani come Charles Burns o di registi come David Lynch. Si riconosce in queste somiglianze o ha avuto altri maestri e ispirazioni?
Conosco bene i nomi che mi fai. Da Lynch ho preso sicuramente molte suggestioni e credo che mi abbia influenzato profondamente. Charles Burns invece l’ho conosciuto molto dopo essere diventato mangaka e quindi no, non posso dire che mi abbia ispirato in alcun modo. Se il nostro stile di disegno è simile è solo una coincidenza. Fra le mie influenze più forti metto senz’altro Kubrick, Buñuel e Seijun Suzuki (regista giapponese nato nel 1923 – NdR) per quanto riguarda la regia.
E Takeshi Kitano?
Ah, lui mi piace molto! Ma sai, in Giappone è più famoso come comico, tutti ridono solo a sentirlo nominare… In Europa ha una fama ben diversa.
Quanto andrà avanti Deathco?
Saranno 8 volumi. Preferisco non fare serie molto lunghe, anche perché adesso sono tradotte anche in Europa e mi hanno detto che serie lunghe potrebbero non conquistare facilmente il mercato (ride). Finora la mia opera più lunga è stata SOIL.
***
Dopo l’intervista, mentre mi faceva un disegno, mi ha chiesto se avevo visto il serial televisivo tratto da SOIL. Ho risposto di no e in effetti ho rosicato, perché vorrei proprio vederlo. Sono solo 8 episodi e peraltro non coprono tutta la storia, perché sono stati realizzati prima della fine del manga.
Mi ha poi chiesto dove vivo e gli ho risposto a Roma. Dopo Napoli Comicon sarebbe andato in vacanza a Roma una settimana con la moglie e il figlio undicenne e, alquanto entusiasta, mi ha invitato a cenare con loro. In effetti, una settimana dopo ci siamo realmente visti in una trattoria del Rione Monti e abbiamo passato circa cinque ore chiacchierando di qualsiasi argomento: dalla forma dei balloon (differente tra manga e fumetti occidentali, data la scrittura in verticale) al dramma di Fukushima e alla politica estera. Lui e la moglie mi sono parsi dei giapponesi veramente ‘atipici’, molto informali e soprattutto molto informati. È raro che un giapponese intraprenda conversazioni sulle elezioni presidenziali americane o sul malgoverno dell’attuale primo ministro in Giappone. A pensarci bene, è già abbastanza folle che un qualsiasi giapponese si conceda una settimana di vacanza a Roma – figuriamoci un fumettista… Peraltro, un giapponese che cerca da solo un appartamento su Airbnb. Vi pare possibile?