In questa terza e ultima parte dell’intervista (qua la prima, qui la seconda) Filippo Scòzzari parla delle vendite dei suoi libri, di quel che legge e di come si può realizzare una storia in una settimana. In aggiunta fa una lista delle sue storie migliori e traccia un bilancio della sua partecipazione alla defunta rivista “ANIMAls”. A modo suo.
Filippo Scòzzari, in alcune interviste, a proposito del passaggio dal fumetto alla letteratura avvenuto a metà degli anni Novanta, lei ha dichiarato che fumetto e letteratura sono due armi differenti per raggiungere lo stesso bersaglio.
Intanto abbandonai la matita perché supponevo di fare molta meno fatica a scrivere che a disegnare, visto che il tavolo da disegno è uno strumento di tortura che spacca schiena, culo e occhi. Non sapevo però che scrivere è uguale (ride, n. d. r.). Avevo molte illusioni, all’epoca…
In più, speravo che lo scrivere mi allontanasse da quella gehenna d’idiozia che è il fumetto, specie quello italiano, e mi proiettasse in un ambito un pochino più elevato, anche qui sbagliandomi in maniera clamorosa. Ulteriore ghetto. Nell’uno e nell’altro operano piccoli poveri eroi che sfornano ogni tanto capolavori, in Italia molto raramente, ma nel complesso sempre ghetto e gehenna sono.
Per cui sbagliai le mie analisi: il pigro non venne soddisfatto, e il vanaglorioso in caccia di dindi e applausi non venne soddisfatto.
Speravo di avere tribù più ampie; speravo che un libro fosse un megafono più potente dei fumetti, un trampolino per arrivare a cerchie e gironi che non si sarebbero mai sporcati col fumetto… Speravo di allontanarmi dalla ghettizzazione che qui da noi ha sempre marchiato il fumetto – anche per propria colpa, va detto. Autori dementi ed editori “al metro” l’hanno ridotto a un’arte inferiore, la figlia di un asciugamano, nemmeno di un dio minore, e nonostante gli interventi di Oreste Del Buono e altri “intellettuali” sul primo numero di “Linus”, è ancora considerato un sotto-sotto-sotto-prodotto della cultura, e lo è tuttora.
La colpa è degli autori, che non sono riusciti a evolversi più in là di KriminalTex, la colpa è degli editori che hanno imposto agli autori di fare solo KriminalTex, perché vendeva, e la colpa è dei lettori, che volevano solo KriminalTex; ancora adesso, negli anni Tremila, KriminalTex vende cifre da fantascienza, quindi c’è qualcosa che non funziona. Sinceramente non so che cosa NON sia scattato.
A proposito di cifre, qual è stato il venduto di Prima pagare, poi ricordare, visto che è il suo libro più famoso?
Non lo so dire con certezza, perché sono state tirate varie edizioni pirata. Le edizioni ufficiali della Coniglio, e quelle di Castelvecchi, non sono mai andate oltre le 3.000 copie di tiratura. Diciamo così, forfettariamente, sulle 6.000 copie, che è tra l’altro è quel che vendetti con La dalia azzurra, edizione Primo Carnera. È sempre lo stesso numero che mi insegue. La Primo Carnera, la Mondadori, Coniglio…
Vuol dire che il più venduto dei suoi fumetti è La dalia azzurra?
Sì. Ha avuto anche un’edizione francese e una brasiliana. Quindi devo chiedere scusa e ringraziare Chandler. Non so quanto abbia inciso la bravura di Scòzzari e quanto quella di Chandler. Sospetto la seconda, ahimè.
Come dicevo, non ho mai oltrepassato quota 6.000, ma mi ha spiegato Coniglio che questa, grosso modo, è la media del venduto in Italia; era, anzi, perché le cose in Italia sono talmente peggiorate che adesso questa cifra, miserrima, sarebbe da baciare come miracolosa.
“Frigidaire” nei momenti migliori vendeva tra le 20.000 e le 30.000 copie, numeri oggi assolutamente impensabili, eppure non ce l’ha fatta.
Intanto era costosissima da fare. Poi il direttore Sparagna ha volutamente abdicato alla propria funzione istituzionale, quella di fare il direttore. Oltre a salvare Pazienza incollassato all’Hotel Delta di Roma, avrebbe dovuto operare per la futura salvezza della rivista frequentando salotti, coltivando circoli, facendosi amici, cose che ha regolarmente rifiutato: per lui l’informazione italiana è un mondo assolutamente mafioso, opinione che non ho la minima intenzione di confutare, e se chiedi un favore molto presto lo devi restituire quadruplicato. La realtà, o l’idea che s’era fatto della realtà l’ha paralizzato, e il risultato finale è che la rivista ha chiuso: quando si è trattato di difenderla, si sono trovati solo i nemici, gli amici non c’erano o quei pochi che c’erano erano spariti. Zeitgeist.
Visto che secondo lei il fumetto puzza e quello italiano è morto, che cosa legge?
Cose tipo questo (mostra un tomo ponderoso, n.d.r.): La storia della matematica, regalatomi dalla Libreria Irnerio di Bologna durante una presentazione sulla Traumfabrik e il ’77. Ho visto questo librone, 600 pagine, capisco una riga su quattro, però l’ho voluto ad ogni costo. Sono un ferreo tifoso della saggistica. Quello scemo di Foster Wallace si è impiccato, porca puttana. Se finalmente arriva uno bravo che però si toglie presto di mezzo, cosa ti rimane? La saggistica.
Non c’è qualche italiano, magari giovane, che la incuriosisce e la fa sperare?
No. Mi viene suggerito ogni tre per due Michele Mari, ma non lo sopporto perché l’ho inquadrato come un altro Landolfi, anche lui innamoratissimo dell’aggettivo più riposto ed elegante, della frase più ricercata; ho letto qualche racconto suo ed è molto bravo, ma il colpo in testa che mi inferse Landolfi con Il mar delle Blatte, Mari non me l’ha inferto.
Comunque anche qui sono assai ignorante e può darsi benissimo che nelle librerie, nelle scansie alle quali devo ancora arrivare, esistano dei capolavori, ma ho il sospetto che se ci fossero come minimo lo saprei.
In molti suoi fumetti ci sono accenni autobiografici deliranti, in cui non si capisce dove inizi la realtà e termini la finzione.
È tutto vero. Tutto vero.
Anche Nei?
No, quella no. E la genesi di Nei è utile per spiegarti come mi nasce una storia.
Allora, Sparagna mi telefona una sera spiegandomi che nel timone di “Frigidaire” gli si è aperto un buco di una decina di pagine, e che avevo tempo una settimana: «Dai Fili’, fammi il miracolo, qui è un disastro, non esce il numero. Allora dimmelo che non vuoi che esca il numero!». Sapevo che se mi fossi messo a disegnare non ce l’avrei mai fatta, nemmeno disegnando col piede sinistro; ma avevo una scatola da scarpe zeppa di fotografie fatte da me. Mi sono scritto una sceneggiatura, poi ho vuotato la scatola e cercato le foto che potessero illustrare la storia che avevo ideato. Be’, non ce n’era mezza. Capii che dovevo procedere al contrario: abdicare al mio ruolo d’“autore” onnipotente, e farmi dettare la storia dalla sequenza casuale con cui le foto erano piovute sul tavolo, scartare quelle che proprio non c’entravano nemmeno a martellate, e pregare le stelle. Entrò. Altri lo chiamerebbero “avere culo”.
C’erano foto di mia moglie, che guarnii con didascalie completamente flippate. C’era anche una lunga teoria di ragazze, fotografate durante una fiera del fumetto a Lucca: nel bailamme di collezionisti maniaci e ragazzini avevo cercato le ragazze più carine, e le avevo fotografate sempre nello stesso angolo di stand; un esperimento su di me fotografo alle prime armi ma anche collezione di facce, vestiti e atteggiamenti di ragazze di fronte a un povero matto: avevo un completino di pelle marrone, e Andrea diceva che sembravo uno stronzo (ride, n. d. r.). Composi didascalie efferate che individuavano le poverette come miei amori, ne descrivevano le singole specialità, i nomi, le età; tutte corna che avevo messo a mia moglie, la quale aveva scoperto la cosa perché sulla schiena avevano cominciato a spuntarle nei, un neo ad ogni corno. Una flippata, che molto saggiamente titolai Nei.
Scoprii così che l’urgenza aguzza l’ingegno: riuscii nel miracolo, nei termini ristrettissimi di Sparagna, ed è una delle storie che preferisco, perché è scritta bene.
In molte sue opere c’è un’autoreferenzialità anche ferocemente ironica.
Hai presente Achille Guglielmo Cavellini, e la sua “autostoricizzazione”? Era un pittore (?) pazzo che negli Stati Uniti fece fortuna con questa sua “genialata”.
Parto dallo stesso concetto: che, per quanto io abbia avuto una vita abbastanza insulsa, sono sempre un bell’argomento, se illustrato da me: mi conosco talmente bene… E poi, scusa, se non parlo io di me, chi lo fa? (ride, n. d. r.) A volte mi è utile perché parto da episodietti di pochissimo conto per deviare e sbarellare in altri ambiti. Per esempio, nelle quattro tavole di Memòries, descrivo episodi veri della mia vita di bimbo: io che faccio a boxe con mio fratello gemello, con mio babbo che fa da secondo ai due contendenti. Cose così. Per costruire una storia a volte bastano molecole.
Mio padre mi insegnò che non va buttato nulla di ciò che incameriamo negli anni, perché arriva sempre il momento in cui ti verrà utile; anche ciò che hai odiato, spregiato, tenuto in nessuno conto. Nel fumetto questo meccanismo mi è servito abbastanza.
Lei ha realizzato due storie che riguardano lo sport nazional-popolare per eccellenza, almeno in Italia: il calcio. Parlo di Ferencvaros, bella squadra e Che cos’ha, Raul Malossi?, che per esplicita ammissione lei considera tra le sue più belle. Il pallone però è solo un pretesto, il fulcro ancora una volta è la vendetta.
Sì, Ferencvaros, bella squadra è la storia di una vendetta arzigogolatissima, studiata nell’arco di un intero campionato; Raul Malossi è una vendetta consumata nell’arco del secondo tempo di una partita. Tra parentesi, a ogni modo, sono due dei pochissimi fumetti in Italia a parlare di calcio (o di sport, in generale). In Italia nessuno ha mai usato il calcio, e lo spogliatoio, come sfondodi una storia.
Mentre scrivevo la sceneggiatura, i primi scarabocchi di queste due storie, provavo una sensazione di onnipotenza, mi pareva di essere un Nembo Kid del fumetto. Ho ancora i brividi, perché purtroppo sono flash che non ho più: SAPEVO che stavo mettendo al mondo dei capolavori, qualsiasi fosse l’opinione che ne avrebbero ricavato gli altri. E mi vennero di getto, in trenta secondi, chiavi in mano; come se il mio cervello dicesse: «La vuoi pubblicare questa? Guarda cosa ti regalo». M’è capitato pochissime altre volte. Ricordo anche il divertimento bestiale nel farle; sapevo che divertendomi a quel modo stavo siringando nelle storie una qualità che i professionisti del fumetto pagati a metro non sono capaci di immettere. Al diavolo loro ed evviva me.
Una particolarità di Raul Malossi è la presenza di un testo strabordante, che occupa gran parte delle tavole. È dovuta solo al fatto che la storia è stata realizzata in pochissimo tempo?
Un po’ sì, ma l’ho fatto anche apposta. È stata fatta sull’onda della fretta e della furia, infatti è disegnata male. Pensa che la andai a consegnare direttamente in tipografia! Era il mondo pre-computer; al giorno d’oggi queste cavalcate a rotta di collo in macchina attraverso mezza Italia, per consegnare in tempo una storia, quando mai? Adesso fino all’ultimo secondo è possibile migliorare, aggiustare, incasinare, puoi spedire i file in un battibaleno… è tutto un altro pianeta. L’avessi avuto allora…
Comunque, avevo a disposizione otto tavole, ma avevo talmente tante cose da dire che dovevo sfruttare la parola per rendere quello che il fumetto non mi consentiva. Per rifarmi a una tua domanda precedente, sapevo e so che la parola ti consente di arrivare dove la matita non permette. Certo, la matita è anche sintesi: disegni un castello per descrivere il quale in un romanzo hai bisogno di tre pagine, oppure un volto per il quale un poeta deve abbandonarsi alle pippe più bestiali, e anche lì pagine e pagine che se ne vanno. Però con la parola arrivi su pianeti insondabili dalla matita.
Solo il cinema, forse (forse!), si avvicina alla parola, e in questo consiste la superiorità del cinema sul fumetto: quando assieme a Muñoz ad Alcatraz vidi Blade Runner (Jacopo Fo aveva a disposizione la pellicola), assistemmo stupefatti e ammirati all’ultimo quarto d’ora, con quel famoso monologo. Alla fine mi rivolsi a Muñoz e dissi: «Siamo fregati! Chi riesce a disegnare un finale del genere?». Lui ancora sotto choc rispose: «Es verdad…». Tutto il resto del film lo potresti disegnare, volendo, ma l’odore, il profumo, il pathos di quell’ultimo quarto d’ora il fumetto se lo sogna: va da altre parti, è un altro strumento rispetto al cinema e alla letteratura. Per cui mi predisposi a scrivere anche con questa certezza.
Per fare un altro esempio, in Insonnia occidentale, il racconto Il libro magico…
…che è la recensione di un fantomatico e voluminoso libro fotografico di un ancor più fantomatico fotografo Isaac Bendorff…
…chiaramente sono io che flippo di solitudine. Per descrivere col fumetto quelle foto immaginarie, quella mia insonnia sognante, ci vorrebbero un sacco di pagine, con la difficoltà mostruosa di rendere quella tensione, di riuscire con la matita ad entrare in un eroico delirio e subito dopo ripiombare in una mesta realtà, soprattutto di non appallare il lettore con una follia troppo insistita. E’ un racconto di una ventina di pagine in cui ti diverti: in venti pagine di fumetto non fai niente di quel livello, è impossibile. Il disegno ha la sintesi, ma un gioco di parole può essere più esplosivo.
Ma dipende da che cosa si vuol fare. Raul Malossi è un gioiello proprio per il suo alternare con sapienza parti fittamente scritte e sequenze puramente visive, come quella esemplare in cui si ha la compresenza di due linee temporali nello stesso spazio: è una cosa che a scriverla non ci si riesce, non con quella efficacia.
Secondo me Raul Malossi, Ferencvaros, Scandali, Appunti per un racconto che non farò ti piacciono (e mi piacciono) perché sono storie scritte alla stragrande. Perché c’è questa commistione di regia del disegno, per quanto quest’ultimo a volte sia tirato via, e di ottima scrittura, lo dico senza arrossire. Una macedonia felice, che consente a queste invenzioni di essere targate come fumetti di ordine superiore. Chi scrive fumetti a questo modo?
Ho ripubblicato tempo fa sul “Male” una vecchissima storia apparsa sul “Mattino” di Napoli, O’ sole… Me l’aveva chiesta Vincino, ma prima di spedirgli il file me la sono riletta: è scritta con un italiano assolutamente desueto, quasi landolfiano. C’è la luce del sole che entra dalle tapparelle, «…a fiotti laminari, raggelandomi». Questo “laminari” colpì moltissimo Andrea: «Laminari! Mado’, Fili’!». Adesso mi direbbero: «Laminari? Scòzzari, sei impazzito? Machevvordì?».
Lei ha lavorato anche nella pubblicità. Per quanto tempo?
Pochissimo, meno di due anni, mi sono stufato subito. L’agenzia fondata con mio fratello, la A. G. O. (Alcuni Giovani Occidentali, n.d.r.), è durata molto di più, ma io me ne sono andato appena fatti i soldi per la macchina.
E a quel punto ha ripreso a fare fumetti.
Sì. Nel 1986, con Macchine a molla, ricomincio col fumetto, basta marchette. Ma ero stato troppo tempo lontano da “Frigidaire” e Sparagna mi spiegò che la faccenda ormai era andata. Da quel momento in poi non ho più visto una lira, Macchine a molla compresa.
Sta dicendo che da Macchine a molla, cioè più di trenta tavole a colori di grande formato, ha ricavato uno zero al quoto?
Sì, e Sparagna ancora adesso mi chiede di lavorare per lui gratis!
L’esperienza pubblicitaria è stata in parte vendicata sfruttando i cataloghi realizzati per alcune case di abbigliamento per fare Figate ed È caduta la terra.
Un altro modo per costruire una storia, quando sei colpito da episodi gravi di accidia, è cannibalizzare i tuoi materiali precedenti: ho scelto alcune delle mie tavole-marchetta, ne ho cambiato alcuni infinitesimali particolari, per esempio aggiungendo occhi alle mani dei guardiani di un campo di cotone, ho inventato didascalie che in agenzia non mi sarebbero mai state permesse et voilà: È caduta la terra. Quando sei a corto di idee, ti guardi indietro e ribadisci il tuo genio una seconda volta, operando sui più distratti: «La prima ve la siete persa, provate a perdervi anche questa!» (ride, n. d. r.).
Lei ha partecipato attivamente anche ad “ANIMAls”, ideando il nome della testata, suggerendone il logo, illustrando la rubrica della posta con un po’ di vignette, ridando alle stampe qualche suo vecchio fumetto introvabile, eccetera. Qual è il suo bilancio della rivista?
Disastroso. Il problema è che Laura Scarpa ha voluto fare una sua rivista di fumetto. Lei è abbastanza stupida (sorride, n.d.r.) ma io, stupido al cubo, m’ero dimenticato in che cosa si trasforma una donna quando mette su il nido. Cercai di suggerirle di prendere in qualche modo le mosse dalla lunga lezione di “Frigidaire”, «o non combinerai niente». E infatti è andata così. L’unica cosa che fece, per darsi una patina di internazionalità cronachistico-politica, fu di affogare nelle ultime tre o quattro pagine pezzulli composti da amiche sue che collaboravano a “Internazionale”. Ma se fai una rivista di fumetti noiosissimi, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro, spesso francesi, e poi in sessantunesima pagina te ne esci di botto con un commentino-ino-ino sulla situazione in Iran, ecco che l’intera faccenda diventa ridicola. Con una ricetta del genere è difficile raggiungere l’autorevolezza, e infatti non la raggiunse.
Siccome è un’amica, ho collaborato e ho dato il nome alla rivista, ma le dissi: «Se proponi solo i fumetti e gli autori che vanno a te, e non parli del mondo, questa rivista non serve. Se ha chiuso “Frigidaire”, che queste cose le faceva alla grande, come pensi di cavartela tu?». Nulla, non c’è stato verso, aveva la sua idea e basta.
Inoltre come mi accorsi che specialmente Coniglio interpretava i miei consigli come indebite interferenze e addirittura come gelosia verso chi aveva avuto l’idea, il coraggio e lo stomaco di fare una rivista, la chiusi lì, mi limitai a fare le stronzatine nella pagina della posta, e chi se ne frega.
Quali sono oggi gli spazi per i fumetti à la Scòzzari?
Non ce ne sono, sparite le riviste che possano ospitarli.
Ultima domanda: conosce i due fumetti realizzati per “Blue” da Mauro Masi, tratti da due dei suoi Racconti porni?
Sì, venne a casa mia, li studiammo assieme e gli imposi di fare questo e quest’altro, di non fare quello, di disegnare così e cosà, eccetera. È di Rimini, lo conosco benissimo, e anche lui ha la moglie medico. Gli ho imposto la parcella di un chilo di gelato ogni volta che viene a trovarmi.