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La confusa epica rurale di “Grass Kings123”

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Grass Kings vuole essere al contempo una serie HBO, una metafora della storia degli Stati Uniti e una narrazione della cultura dell’assedio che da sempre li contraddistingue, una celebrazione della vita rurale e una storia di formazione sentimentale. Oltre che un fumetto d’autore. Solo che non ha né la durezza, né la precisione, né la sensibilità necessarie per essere almeno una di queste cose.

grass kings fumetto

Ci se ne accorge analizzando la quantità di roba che i due autori hanno infilato nelle oltre 400 pagine che compongono questa epopea. Ci sono i disegni nervosi e quasi abbozzati di Tyler Jenkins, i colori smorti e acquerellati di Hilary Jenkins, un sacco di linee narrative che cercano di tratteggiare in maniera realistica e convincente tutti i protagonisti, digressioni storiche e continui cambi di genere.

Aggiungiamoci poi le strane variant cover di Matt Kindt, una specie di crudele teatrino di marionette messo a raccontare la violenza alla base della cultura Statunitense, che tutto a un tratto lasciano il posto all’ennesima simulazione grafica di romanzetti pulp d’altri tempi. Sembrerebbe una cosa da nulla, ma di punto in bianco quella che sembrava una chiave di lettura per tutta la metafora dietro la serie si trasforma nell’ennesimo giochino post-moderno, finendo completamente depotenziata.

Senza contare che di numero in numero incontreremo una serie di luoghi comuni davvero difficili da mandare giù, come lo sceriffo di Contea violento e coercitivo opposto alla pacifica comunità del Regno della Prateria. Un posto dove si vive al di sopra della legge, ci si vuole tutti bene e si tira avanti secondo un codice basato sul rispetto reciproco. Anche se questo significa detenere un arsenale da guerra, spacciarsi per rappresentanti delle forze dell’ordine nonostante si sia stati allontanati dalle organizzazioni statali, disporre di un cecchino per tenere sotto tiro chiunque risulti sgradito e avere una strana coppia di sorelle in grado di tenere tutti sotto una sorveglianza degna del 1984 di Orwell.

Su questa impalcatura già di per sé traballante viene innestata una trama da thriller, con tanto di morte misteriosa e demoni del passato pronti a venire a galla nel momento meno opportuno. Sarà l’occasione per dimostrare come anche nel regno incantato dei fratelli Robert e Bruce le cose non vanno proprio nella direzione sperata dai loro genitori, fondatori della comunità, e di come la violenza sia la costante di un territorio che ne è spettatore da sempre. E infatti ecco fare capolino anche la storyline alla True Detective, con tanto di serial-killer bucolico.

A questo crollo degli ideali fa da contraltare la parabola ascendente dei due protagonisti, che arriveranno alla fine della storia trasformati e pronti a lasciarsi alle spalle un passato così ingombrante. Il più giovane abbracciando il mondo fuori dalla prateria, il secondo trovando la pace attraverso una catarsi fatta di amore e ferocia.

Grass Kings affastella senza sosta un sacco di idee e suggestioni, cercando di puntare a una sorta di grande romanzo americano in versione redneck. Per riuscirci si affida alla comprovata combinazione di disegni sospesi tra il pittorico e il tremolante e a un’enfasi esagerata sull’interiorità di personaggi imprigionati in un mondo bidimensionale.

Come abbiamo già visto l’assedio è una costante della storia degli Stati Uniti, dal western cinematografico impersonato da John Wayne (ma che arriva fino a tutta la filmografia di John Carpenter) fino ai tremendi fatti cronaca come quelli di Wako (Texas) o Ruby Ridge. Anche il volersi ritirare dal mondo moderno per rifugiarsi in una sorta di bolla autoregolata è una tendenza presente da sempre nella terra delle libertà, come se la spinta a vivere al di sopra di una società regolata da leggi statali sia l’ultimo legame con il mito selvaggio della frontiera.

Jenkins e Kindt sembrano essere partiti proprio da questo spunto e hanno finito per costruirci sopra un ginepraio di plot line e digressioni temporali, svilito da una narrazione a fumetti senza guizzi se non per alcune soluzioni ad d’effetto. In maniera occasionale la pagina si svuota o le vignette si fondono tra loro puntando tutto sull’enfasi dei colori, ma si tratta di soluzioni estemporanee e che finiscono per morire subito.

Tra queste pagine c’è talmente tanta roba che ogni spunto narrativo viene soffocato dal continuo fluire degli eventi e finisce ben presto incasellato in una progressione televisiva dove ci si limita a prendere atto di quello che succede all’interno dei singoli riquadri. Il parallelo più facile da fare è quello con Scalped – anche lì si parlava di provincia profonda, di comunità chiuse al mondo e di crimini del passato – ma quella era una serie progettata con una tale precisione che ogni elemento girava a meraviglia, rafforzando il risultato finale.

In Scalped i plot si incastravano tra di loro spingendosi avanti a vicenda e facendo sempre più luce sui veri temi a cuore degli autori, mentre ogni elemento della narrazione – dialoghi, disegni, colore – era duro e spigoloso come una roccia del deserto. Grass Kings è lontano da quei risultati e, aldilà di un intreccio giallo tutto sommato appassionante e godibile, non lascia davvero nulla al lettore.

Grass Kings
di Matt Kindt e Tyler Jenkins
traduzione di Leonardo Rizzi
brossura, 440 pp., colore
30,00 €

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