Travis Charest sta disegnando una commission di Red Sonja. Viene interrotto spesso per le firme, ma anche se non ci fossero i lettori a chiedergli l’autografo, il disegno farebbe fatica a prendere forma. Charest errabonda con la matita sul foglio un numero infinito di volte, arruffando linee attorno al bassoventre del personaggio, e il disegno non sembra progredire mai. È, proverbialmente, molto lento.
Nato nel 1969, Travis Charest debutta con una manciata di albi per Marvel e DC. Poi passa a Wildstorm – l’etichetta Image di Jim Lee che passa alla DC Comics nel 1998 – disegnando numeri di Wildcats, Gen¹³ e Union.
Partito come un emulo di Jim Lee, ha sviluppato il proprio stile inglobando influenze europee, cercando il realismo dei volti e la sinuosità del design. All’inizio degli anni Duemila firma quella che sarebbe rimasta la sua ultima grande opera, Le armi del Meta-Barone, spin-off dell’epopea creata da Alejandro Jodorowsky e Juan Giménez La casta dei Meta-Baroni. Ha poi creato Spacegirl, un fumetto fantascientifico in formato striscia che porta avanti come progetto personale.
Per il resto, qualche sporadicissima storia breve per la Marvel (l’ultima risale al 2011, ed era una-pagina-una di Captain America #616), Charest si è dedicato alle copertine per i grossi editori e ai disegni su commissione.
Perché l’uomo che Jodorowsky definì «un artista incredibile, una specie di mostro» ha praticamente smesso di disegnare fumetti? Ho provato a chiederglielo durante la sua presenza allo scorso Lake Como Comic Art Festival. Dopo l’ultima domanda, il gonnellino di Red Sonja era quasi finito.
È difficile trovare informazioni su di te.
[ride] Forse è perché sono lento e non produco tanto. Sì, comunque su internet non c’è molto a proposito di me.
Però so che sei nato in Canada.
Sì, in una piccolissima città che si chiama Leduc. Ma sono cresciuto in vari posti nell’area di Alberta. Quando ero piccolo mi trasferivo spesso.
I tuoi genitori cosa facevano?
Sai che non lo ricordo? [ride] Facevano tanti lavori diversi, in posti diversi.
Che bambino eri?
Lo stesso che sono adesso, non sono maturato granché. Ho avuto un’infanzia felice.
Quando è nata la passione per i fumetti?
Mio zio collezionava Metal Hurlant, e sono cresciuto con quelli. I fumetti americani non facevano parte delle mie letture, mi piaceva disegnare e basta. Sia mia madre che mia sorella erano abili disegnatrici. Il desiderio e l’abilità di disegnare credo fossero innati, nella mia famiglia. Disegnavo tigri, leoni e cose così. I fumetti di supereroi li ho scoperti da adulto, a diciotto, diciannove anni, quando già vivevo da solo.
Non hai frequentato scuole d’arte?
No, dove vivevo non c’erano scuole del genere. Non avevo un piano. Non vedevo un futuro. Odiavo il lavoro che facevo, mi piaceva disegnare ma non pensavo che sarebbe mai diventato la mia professione. Poi ho cominciato a capire che non sapevo fare altro e così ho provato a cercare degli ingaggi che avessero a che fare con il disegno. Sono stato fortunato perché ha funzionato.
Ho sempre saputo che sapevo disegnare, ma non sapevo come trasformare quell’abilità in qualcos’altro, fosse lavorare per un’agenzia pubblicitaria o fare il pittore. È stato solo quando ho fatto amicizia con persone che leggevano fumetti che li ho scoperti e ho pensato «Oh, forse potrei fare questo». È cominciato così.
Che fumetto ha acceso la scintilla?
Gli X-Men di Jim Lee. Era il 1991. Li collezionava un mio amico. Erano disegni interessanti, unici, e mi ispirarono a diventare un fumettista.
Il tuo primo lavoro pubblicato risale a poco tempo dopo.
Sì, una storia di Flash, nel 1993. Fu il mio primo incarico da professionista, la prima volta che qualcuno mi pagava per disegnare. Avevo mandato le mie prove a vari editori. Dopo sei mesi, nessuna risposta. Non so nemmeno se l’avessero ricevuta. Riprovai, disegnai, disegnai, disegnai. Mandai il plico con le nuove prove ad altri editori, tra cui Marvel e DC. E dopo una settimana DC Comics mi chiamò offrendo quel piccolo lavoro su Flash. A quel piccolo lavoro fece seguito un altro piccolo lavoro e così via.
Immagino che non conoscessi bene il settore…
Non sapevo assolutamente nulla del mondo dei fumetti!
Qual è stata la tua reazione quando hai visto la tua prima sceneggiatura?
Sono stato fortunato perché era una sceneggiatura completa, in cui erano annotate perfino le inquadrature. Essendo un principiante non dovetti metterci molto del mio, bastò disegnare ciò che c’era scritto e ciò che voleva lo sceneggiatore. Fui in grado di prendere una trama e trasformarla in qualcosa di interessante solo anni dopo.
Negli anni Novanta lavorasti grossomodo solo per Wildstorm, l’etichetta Image (e poi DC) di Jim Lee. Poi ti trasferisti in Francia.
In quel periodo feci molti lavori che nessuno ha mai visto, qualche copertina, molte commission. Mi trasferii in Francia nel 2000 e ci restai per due anni. Ho sempre amato L’Incal di Moebius e volevo lavorare per lo stesso suo editore. Incredibilmente, durante una convention a San Diego, credo fosse il 1999, il presidente di Les Humanoïdes Associés mi invitò a pranzo. Mi offrì di lavorare su I Meta-Baroni e ne fui entusiasta. Ero molto giovane, ambizioso e mi dissero che avrei potuto realizzare pagine complete, dipinte, non soltanto disegnate a matita. Avrei vissuto a Parigi con la mia ragazza, dipingendo tutto il giorno. «Sarà fantastico!» mi dissi.
E lo fu?
No, fu durissima. Era tantissimo lavoro, io ero sempre indietro con le scadenze. Parigi però era bella come la immaginavo.
Come fu lavorare con Jodorowsky?
Incredibile. Mi fece i tarocchi, cenammo insieme, era una persona amabile. Molto paziente. Il mio editor mi spronava a essere più veloce, mentre Jodorowsky diceva sempre «Non starli a sentire, li distraggo io, tu fai quello che vuoi».
Come mai non riuscivi a rispettare le consegne?
Non avevo mai dipinto prima. Sentivo la pressione dei grandi artisti che mi avevano preceduto, Moebius e Giménez, e volevo fare del mio meglio. Ci mettevo un mese per realizzare due, massimo tre, pagine. Accumulai tanti ritardi, e dovevamo comunque vivere a Parigi e pagarci le bollette. Fu impossibile rimanere, e così tornammo in California, dove la mia ragazza poteva lavorare, e io riuscii quasi a finire la storia, perché alla fine il volume fu completato da Zoran Janjetov.
C’era un piano grandioso, il volume si sarebbe dovuto inserire in un grosso progetto che prevedeva l’uscita del film tratto dalla serie, a cui il mio fumetto avrebbe dovuto fare da prequel. Ma i piani per il film non si concretizzarono e quindi dovemmo cambiare la sceneggiatura. Poi tutti i miei ritardi complicarono la cosa. Mi dispiacque molto perché non fui d’aiuto a Jodorowsky e all’editore. Erano personaggi importanti e sarebbe potuto essere un fumetto importante, ma non fui all’altezza del compito perché quell’incarico era troppo per me, in quel momento della mia carriera. Avrei potuto realizzarlo, ma non nei tempi che mi ero dato.
Ora lo potresti fare?
No, farei solo matite e chine e lo farei colorare a qualcun altro. Non voglio più dipingere. Non posso. Mi ci vorrebbe una settimana per dipingere una pagina interna, non sono abbastanza veloce.
A cosa imputi questa lentezza produttiva?
Penso che molto sia dovuto al fatto che, all’epoca, cercavo di disegnare cose che non avevo mai disegnato prima. C’erano molte tecniche e idee che avevo ma che non sapevo come eseguire: come rendere bene i colori, come preparare una tela. Pensavo che mi sarebbero venute bene al primo colpo. Non è così che funziona. Facevo molti errori e imparavo facendo. Ma per imparare facendo occorre il doppio del tempo.
Avevi un piano per la tua carriera?
No, accettavo i lavori che mi arrivavano senza un piano specifico. Scelsi Image Comics perché così potevo vivere in California. Non volevo più vivere in Canada, per l’inverno. E quando mi offrirono di spostarmi a San Diego dissi di sì. E poi adoravo Jim Lee, ed essendo lui uno dei capi di Image volevo lavorarci insieme. Quando mi offrirono I Meta-Baroni non dico che fossi stanco dei fumetti americani ma lo ero dei supereroi. Volevo fare cose diverse, e vivere a Parigi.
Spacegirl come nacque?
Stavo lavorando su I Meta-Baroni ed ero stanco di metterci giorni interi per disegnare una sola vignetta. Pensavo che sarei impazzito. Volevo disegnare qualcosa velocemente. Spacegirl nasce dal desiderio di lavorare in fretta, non essere perfetto e preciso.
Non so quanto buona sia la storia, visto che la inventavo man mano che disegnavo. Ma fu un modo per sperimentare tecniche nuove, modi diversi di inchiostrare che poi avrei usato in futuro. Fu il mio laboratorio personale, anche perché nessun editore lo stava aspettando.
Dopo tutti questi anni di lavoro, disegnare non è diventata una mansione più facile e quindi più veloce?
Alcune cose sono più facili, altre no. Sono più vecchio, non ci vedo bene come quando ero giovane, non posso più lavorare tutta la notte come facevo quando avevo vent’anni. Ora so fare le cose più velocemente, ma posso farlo per meno tempo. Se potessi tornare indietro e dire al me stesso venticinquenne le cose che so ora sarebbe meglio, ma sono bloccato nel mio corpo da cinquantenne.
Non avresti voglia di realizzare un’opera lunga?
Sì, vorrei avere un’opera da catalogo, che viene continuamente ristampata e letta. Vorrei avere un mio Watchmen, una cosa iconica, anche come forma di pensionamento. Mi piacerebbe. È che so che non sarei in grado di finirla. Tutti gli editori sanno che sono lento e non vogliono correre il rischio di iniziare qualcosa che prenderà due anni di lavoro. Hanno delle scadenze, dei programmi, e sanno che io li deluderò. Non voglio più avere un’opera incompiuta nel mio curriculum. Voglio sempre poter finire ogni cosa che faccio, adesso.
La realtà economica del fumetto mi obbliga a continuare a produrre. Mi pagano solo se consegno le pagine. Certo, se facessi un graphic novel alla fine vedrei i risultati, ma non posso permettermi di stare fermo due anni per realizzare un fumetto.
Con questi limiti, come sei riuscito a costruirti una carriera?
Ho rapporti con Marvel e DC e se ho bisogno di lavorare posso chiamare un editor e chiedergli se ha bisogno di qualche copertina o cose così. Più che altro ricevo richieste per i vari progetti. A volte le cose nascono alle convention come questa. Ho fatto alcune cose per il cinema tre o quattro anni fa che non si sono concretizzate – il progetto era grande ma la mia porzione di lavoro era piccola.
È complicato lavorare per il cinema, cambia tutto costantemente. Ti chiedono di essere veloce, produrre molte variazioni sul tema, idee diverse. Devi essere veloce e non avere a cuore nessuna delle idee che proponi perché potrebbero venire stravolte. Devi mettere da parte il tuo ego artistico, sei solo uno strumento, non il produttore del risultato finale.
Non ho un agente, per cui non c’è un canale unico da cui mi arrivano le offerte. Adesso faccio solo copertine. Posso farle in due giorni, una settimana. E poi vendo gli originali. Riesco a mantenermi facendo solo questo. È un lavoro come un altro, ti svegli la mattina, vedi cosa c’è da fare, che scadenze ci sono.
Riguardi mai i tuoi lavori del passato?
Guardo cose del passato, alcune le trovo mediocri, altre discrete. Per la maggior parte, penso sia una cosa comune, vediamo solo i nostri errori, ci concentriamo su quelli piuttosto che sulle cose venute bene.
Direi che il mio punto debole è la narrazione, non sono un grande narratore. Sono bravo con le macchine e le cose d’atmosfera. Non so, un artista è il peggior critico di sé stesso, mi riesce difficile avere una prospettiva sul mio lavoro. Le cose di cui sono più orgoglioso sono alcune parti de Le armi del Meta-Barone.
Solo alcune parti?
Sì, perché riesco a distinguere le pagine a cui ho dedicato tempo e attenzione e quelle che ho disegnato di fretta.
Cosa ti ha spinto a evolvere il tuo stile in maniera così radicale?
All’inizio seguivo il modello Image, con un sacco di tratteggio incrociato. Dopo un po’ che lavoravo per Wildstorm quello stile cominciò a non interessarmi più. Cominciai a cercare altri stimoli e a guardare ad altri disegnatori. Non volevo per forza migliorare – non ritengo quello Image un brutto stile – ma volevo diventare qualcosa di diverso, rimanere interessato e interessante. Se fossi rimasto a quel tipo di disegno mi sarei annoiato.
Sei annoiato ora?
C’è la realtà del lavoro quotidiano, lo faccio da venticinque anni, ci sono aspetti di questo lavoro che ho preso per buoni. Scommetto che i cardiochirurghi si ricordano del loro primo intervento al cuore come del migliore di sempre, ma dopo cinquecento operazioni penseranno «Okay, ecco che arriva un altro cuore». C’è quell’aspetto, sicuramente, ma ogni tanto ho ancora quella sensazione di novità, di non aver mai fatto un lavoro simile. Anche piccole cose, come vedere le pagine di un disegnatore e pensare a cose nuove.
Ti è successo di recente?
Ricordo di aver visto un videogioco poco tempo fa, e i personaggi avevano un’armatura molto complicata e interessante che mi ha fornito delle idee. Però poi ho subito pensato «gli ci sarà voluta un’eternità per disegnarla».
Torniamo sempre all’aspetto più pratico del disegno.
Sì, sono sempre in bilico tra «che bello» e «oh, no, mi ci vorranno due settimane per finirlo».
In che momento ti senti della tua carriera?
Be’, vorrei avere un appartamento a Parigi, una casa a Malibu e vorrei che producessero film dai miei fumetti. [ride] Però allo stesso tempo non ho un lavoro d’ufficio. Non ho un capo – cioè, ho una specie di capo, mia moglie – e posso disegnare. A volte dico a mia figlia che non posso giocare con lei perché devo andare a lavorare e lei mi dice sempre «ma tu non lavori, stai di sotto a disegnare».
Tua figlia ha ereditato l’amore per il disegno?
No, le piacciono i film di supereroi e i draghi. Ha dieci anni. I draghi sono una grossa fetta dei suoi interessi. Le piace scrivere. Sparge pagine piene di storie per tutta la casa.
Quindi potreste collaborare in futuro?
Sì, me l’ha già proposto. Mi ha proposto diverse storie. In realtà, è stata lei a darmi l’idea per il prossimo volume di Spacegirl. È un’idea grandiosa, parte come un’idea sciocca ma poi l’abbiamo sviluppata in un’ottima idea, secondo me.
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