Se chiamano un volume con il nome del suo autore, anche se poi a realizzare le storie all’interno non c’è solo lui, significa che dietro c’è una visione forte a reggere tutto il carrozzone. Il tomo Star Wars di Jason Aaron rispetta questa indicazione.
Tra il 2015 e il 2017 Aaron è stato infatti chiamato a scrivere i primi fumetti di Star Wars pubblicati da Marvel Comics. Non solo, quelli erano anche i primi prodotti che andavano a costruire il nuovo canone della saga, il cui Universo Espanso era stato decretato ufficialmente fuori continuity in seguito all’acquisizione della Lucasfilm da parte di Disney. Il volumone contiene i trenta e rotti albi di Star Wars scritti da Jason Aaron, più alcuni provenienti da altre testate e sceneggiati insieme a Kieron Gillen in occasione di due cross-over.
La missione editoriale era tenere il tutto più compatto possibile, cercando di introdurre in ogni storia almeno uno o due frammenti conosciuti, a mo’ di un continuo greatest hit rinnovabile. Con i pro e i contro della situazione, perché se viene meno il senso di scoperta, ne guadagna il piacere di vedere Luke che si batte con Boba Fett, disegnati bene come mai prima, colorati bene come mai prima, messi su carta nel modo più vicino possibile al film. Non è forse l’ultimo piccolo sfizio da fanboy? Più di così, ci sono solo le storie che uno si crea nella testa con le action figure e i rumori dei laser prodotti con la bocca.
Raccontando le vicende di Luke Skywalker, Leia Organa e Han Solo ambientate dopo i fatti del primo Guerre stellari, Aaron è riuscito a essere comunque personale. Anche lavorando all’interno di un’operazione strutturata, ci ha messo dentro quel tanto che basta di religione, spiritualismo, circolarità visiva – che con Star Wars ci stanno sempre bene – molta fisicità, il rapporto tra i personaggi e i propri luoghi d’origini, il dover fare i conti con il passato.
In questo senso, forse la più personale e meglio riuscita delle storie è la saga Dai diari del vecchio Ben Kenobi, un racconto cornice in cui Luke Skywalker legge i diari del vecchio Jedi e scopre episodi del passato in cui Obi-Wan in cui si era autoesiliato nel deserto di Tatooine per vegliare sul figlio di Anakin. Queste storie restituiscono un personaggio altro che, pur rimanendo coerente con il carattere, non avevamo mai visto prima. In particolare, Aaron spinge sulla lettura religiosa, un tema a lui caro fin dalla sua prima storia pubblicata, un raccontino oggetto di un concorso Marvel per aspiranti sceneggiatori – era il 2002 – sull’incontro tra Wolverine e una timorata di Dio.
Dai diari del vecchio Ben Kenobi vede Obi-Wan come un Gesù Cristo errabondo nel deserto che ha il compito di proteggere Luke e passare sotto i radar dell’Impero, resistendo alla tentazione di intervenire troppo nella vita del giovane. La prima tentazione di Cristo, quella in cui Satana gli dice di trasformare dei sassi in pane, è trasposta nel primo episodio in cui, in un periodo di forte siccità, Obi-Wan porta al mercato dei meloni neri, contenenti latte, che il contrabbandiere scambia per sassi.
Come i vangeli, gli episodi autoconclusivi tracciano una storia orale che Obi-Wan non ha fatto in tempo a raccontare e che trova soddisfazione nella parola scritta. Il senso è acuito dallo stile michelangiolesco di Simone Bianchi e dai cammei di Mike Mayhew. Qui lo stile da quadro, retrò, fisso, anche fotoriferito, torna utile per far emergere la natura sacrale e religiosa della storia.
Si sente che in quel filone di storie in particolare Aaron ha messo i suoi temi, provando a mettere un po’ di Southern Bastards dentro Tatooine; e infatti con quella cornice ha voluto chiudere la propria gestione, con la storia breve La sabbia provvederà, scritta insieme al figlio Dash e disegnata da Andrea Sorrentino, che sembra fare il punto sull’esperienza starwarsiana di Aaron.
Il problema più grande del franchise fumettistico resta quello di essere un prequel di cui, almeno a spanne, possiamo prevederne i non-sviluppi. Per definizione, i prequel sono una marcia verso l’inevitabile e i fumetti di Guerre stellari devono fare a pugni con questa nozione a ogni vignetta.
Su cosa hanno deciso di giocare allora? Sulla possibilità di costruire dalle fondamenta la mitologia della serie, lasciata in larga parte in balia di tutto ciò che sta attorno ai film. Il finale del primo arco narrativo, Skywalker colpisce, è emblematico: quando Vader scopre che Luke è suo figlio, quel momento è in canone. È così che Vader lo scopre, e ogni film, romanzo, videogioco dovrà tenerne conto quando vi farà riferimento. A un lettore casuale non dirà molto, ma per un fan di Guerre stellari è un fatto degno di nota.
Si vive una certa leggerezza perché Aaron è libero di tornare al grado zero della natura seriale: invece del gattopardesco motto Marvel «Tutto deve cambiare affinché nulla cambi», un tautologico «Nulla deve cambiare affinché nulla cambi». Una considerazione minima ma che lo libera dall’angoscia del cambiamento tipica dei supereroi. Dato che nulla di rilevante potrà mai accadere a Luke, Han, Leia o Darth, non c’è bisogno di alzare l’asticella ogni volta, a ogni giropagina non ci deve essere necessariamente un colpo di scena. Resta quindi, più del “cosa”, il “come” a invogliare la lettura.
Inoltre, elemento speculare, le avventure dei beniamini vanno bilanciate con quelle di eroi nuovi, per ampliare l’universo e speziare un po’ il piatto. Ecco che nel volume compaiono Aphra, archeologa criminale, e Triplo-Zero e BT-1, i sadici spicciafaccende che Darth Vader usa come strumenti di tortura (lo sberleffo massimo all’ossequiosità di C3-PO e R2D2), tre personaggi riuscitissimi che, ironicamente, sono stati creati da Kieron Gillen sulla testata gemella Darth Vader. Aaron tira fuori comunque dei profili interessanti come Sana Starros, che debutta in qualità di moglie di Han Solo.
Il parterre di disegnatori presenti nel tomo è invidiabile e quasi tutti – anche chi ha un monte pagine minore come Leinil Francis Yu, Simone Bianchi e Marco Checchetto – fanno un lavoro egregio. John Cassaday e Stuart Immonen sono senza dubbio le punte di diamante del volume, capaci di giocare con Star Wars mantenendo intatta la loro cifra stilistica ma adeguandosi a certi codici visivi dell’universo di George Lucas. Penso soprattutto all’aderenza rispetto ai volti dei personaggi, modellati su quegli degli attori ma mai troppo pedissequi.
Discorso diverso per Mike Deodato, che spinge in quella direzione per ragioni di abitudine, mentre Salvador Larroca è completamente schiavo tanto dell’impostazione cinematica della tavola (sempre divisa in rettangoli e vedute orizzontali) quanto del riferimento fotografico e finisce per ricalcare maluccio fotografie ed espressioni di Mark Hamill o Carrie Fisher, le cui facce sono poi rimpolpate dai colori di Edgar Delgado, che cerca di salvare le tavole dando dimensione, luce e volume. Lo spagnolo è, purtroppo, l’unica grave caduta di stile della gestione Aaron.
Star Wars di Jason Aaron è un volume utile per approcciarsi alla lettura della saga, che al tempo stesso fa conoscere alcuni dei tratti caratteristici del suo sceneggiatore, oltre a essere anche abbastanza compiuto perché chiude un periodo in cui i fumetti di Star Wars gravitavano più attorno alla solarità de Una nuova speranza. Con il passaggio di consegne a Kieron Gillen, la testata si sarebbe avvicinata alle atmosfere de L’Impero colpisce ancora, in cui la Ribellione vede tracollare la propria situazione.
La buona riuscita di questi fumetti sta nell’aver concesso quel minimo di giogo agli autori, di modo che le storie non sembrino prodotti senz’anima calati dall’alto, come era stata invece in precedenza la tendenza di quasi tutti i titoli di Guerre stellari.
Star Wars di Jason Aaron
di Jason Aaron e autori vari
traduzione di Luigi Mutti
Panini Comics, novembre 2019
cartonato, 1192 pp., colore
89,00 €
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