Per riduzione (o per essere leggermente più precisi ‘traduzione intersemiotica’, come esplicitato da Romàn Jakobsón in un breve ma seminale saggio pubblicato nel 1959, dal titolo Aspetti linguistici della traduzione) intendiamo l’adattamento di un’opera letteraria, teatrale e musicale, a un diverso uso o tipo e mezzo di realizzazione e di esecuzione. In sé la definizione sembra avere una valenza “negativa” e spesso in ambito fumettistico i suoi meriti si esauriscono alla componente pedagogica di cui si fa promotrice.
Le riduzioni a fumetti dei grandi classici sono state interpretate come un viatico alla lettura degli originali. Molti grandi autori si sono confrontati con i grandi classici o con opere di narrativa famose (pensiamo ai racconti di Edgar Alla Poe) spesso per scopi alimentari a volte mossi dalla sana voglia di rendere un sincero omaggio ai loro eroi letterari o di confrontarsi con l’originale, forzando i limiti della prospettiva meramente didattica e sondando – è il caso di cui mi appresto a parlarvi – i limiti (o le estreme potenzialità) del mezzo fumetto.
Gianni De Luca aveva una concezione altissima del mezzo, diffidava da chi si professava un umile artigiano, un operaio, un manovale del disegno: riteneva che fossero degli inqualificabili ipocriti. A suo avviso l’origine del fumetto affondava nella notte dei tempi, nell’oscurità delle caverne di Lascaux o di Altamira, prima che il disegno incrociasse la strada della parola e questo lo “riducesse” in schiavitù (torna ancora una volta la parola riduzione).
Eppure, la pruderia della parola è fondamentale per il fumetto, fatto per l’appunto di immagini e parole (non necessariamente, ma nella maggior parte dei casi). Tuttavia, il fumetto non è binario, ma è qualcosa che si muove nel transito dello spazio bianco, in quelle strutture che per l’appunto mettono in relazione l’illusione dell’immagine e l’ineffabilità della parola.
Chiamato a confrontarsi con i testi drammaturgici di Shakespeare – la cui classicità, forse, è seconda solo ai testi biblici – De Luca, insieme allo sceneggiatore Raoul Traverso, si trovò a ragionare sulla struttura del fumetto in profondità. Se Traverso operò una vera e propria riduzione per rendere il testo del drammaturgo inglese comprensibile e leggibile dai lettori molto giovani quali erano quelli de Il Giornalino pubblicato da Edizioni Paoline, De Luca fece saltare in aria una serie di convenzioni “drammaturgiche”, attingendo dalla storia dell’arte (si pensi ad esempio alla Scene della Passione di Cristo di Hans Memling) e dal teatro.
La rivoluzione era comunque già stata messa in atto nel noir Il Commissario Spada, anch’esso pubblicato sulle pagine de Il Giornalino, dove però veniva tenuta a freno per rispondere alla sceneggiatura di Gonano. Tuttavia, è in quelle pagine pensate e prodotte per una rivista cattolica, che prendono piede le prime sperimentazioni di De Luca. La Trilogia shakespeariana fu poi il campo d’elezione per introdurre innovazioni.
Dagli anni Settanta, la Trilogia shakespeariana (La Tempesta, Amleto e Romeo e Giulietta) vengono ciclicamente ristampati. Amleto e Romeo e Giulietta erano stati ristampati dall’editore Black Velvet in un formato che non rendeva giustizia alle raffinate tavole del maestro. L’edizione NPE inaugura la collana dedicata ai fumetti di Gianni De Luca partendo proprio da quest’opera, proponendo un formato che riprendere l’originale degli anni Settanta, corredando il tutto di note editoriali che permettono di inquadrare storicamente la produzione di De Luca e ne approfondisce alcuni aspetti grazie al saggio analitico di Gianni Brunoro (quest’ultimo già disponibile on line sulle pagine di Conversazione sul Fumetto).
Infatti, questa ennesima edizione pubblicata in bianco e nero (restituendo la piena pagina a Giulietta e Romeo così come nell’originale) permette di evidenziare uno dei caratteri particolari dell’arte di De Luca. Mi riferisco alla costruzione architettonica della tavola, in cui il protagonista è appunto lo spazio come prospettiva. A proposito De Luca ricorda così il suo arrivo a Roma in tenera età:
«un’invasione di linee tutte nuove che cominciano a chiudermi l’orizzonte visivo. […] l’occhio era obbligato in percorsi prefissati, ma in compenso… adesso potevo contemplare miliardi di cose. I palazzoni umbertini, i cornicioni coi fregi, le piazze barocche, i campanili, le cupole di Piazza Navona… potevo vedere, imparare… non so, ma è come se la città con le sue linee prefissate, contenesse a beneficio dei miei occhi verginelli un’indicazione anticipatoria di vignetta: la delimitazione dello spazio a servizio di un evento, di un fatto ancora da raccontare, che teoricamente avrebbe potuto dilatare all’infinito quello stesso spazio».
L’incontro con lo spazio antropizzato e urbanizzato della metropoli romana ne forgia lo sguardo. La linea spezzata delle architetture cittadine immersa nella prospettiva di uno spazio bianco, pressoché infinito, diventa uno degli elementi fondamentali del «pensiero disegnato». La trilogia in questo esorbita: le architetture non sono mai accennate; mai lasciate alla fantasia del lettore, ma sono, invece, sapientemente tratteggiate in ogni particolare, diventando, così, di fatto, il centro del racconto. Questa resa plastica e illusionistica dello spazio bidimensionale della tavola viene esacerbato sino al gusto barocco nel Romeo e Giulietta, dove De Luca rappresenta a piena pagina uno spazio dettagliatissimo che permette al flusso della narrazione di muoversi su più livelli: le soluzioni della grande pittura tardo medievale e rinascimentale vengono recuperate e riattualizzate.
L’uso è al contempo rivoluzionario (tanto da rendere De Luca uno degli autori italiani più citati insieme a Sergio Toppi da fumettisti come Frank Miller, Bill Sienkiewicz e Dave McKean) e conservatore: non c’è mai una concessione al gesto, tutto è calibrato, pensato, eseguito con una tecnica impeccabile e maniacale, che pone il disegno e la prospettiva (con le sue deformazioni neo-medievali) al centro.
De Luca temeva la confortevole «demotivazione totale nei confronti del disegno» (giustificata dalle cosiddette scuole di fumetto), palesando in alcune sue affermazioni una devozione nei confronti della Forma, che platonicamente si traduce nel rispetto per la Bellezza. Una concezione che a primo acchito potrebbe sembrare classicista, ma che in realtà nascondeva una preoccupazione strutturalista, in cui ogni parte doveva cooperare alla riuscita della drammaturgia.
Ma se tutto questo nell’edizione NPE trova una sua piena realizzazione, contemporaneamente viene meno un elemento di fondamentale importanza: il colore. Comprendiamo le difficoltà e la scelta sicuramente sofferta di optare per un’edizione in bianco e nero, ma lo stesso autore riteneva il colore fondamentale, nonostante i limiti tipografici che spesso hanno compromesso alcune sue precise scelte cromatiche.
Si è detto che l’ossessione per la linea affonda nell’esperienza disarmante della metropoli, ma ricordando la sua infanzia in Calabria con la figlia Laura, De Luca legava il suo smisurato amore per il colore alle origini meridionali:
«il colore è un concetto. Chi fa fumetto deve saperlo più degli altri. Non puoi disseminare le vignette di tinte così come capita…il colore completa la grafica e ci sono colori evocabili perfino dalla sola grafica».
Non è un caso che De Luca avesse quasi sempre curato autonomamente i colori della sue opere, facendosi aiutare solo da gente di fiducia. Se nel Commissario Spada il colore era di fondamentale importanza, diventando un elemento imprescindibile, nella trilogia coopera con la prospettiva all’identità dell’opera.
La fonte iconografica della Trilogia shakespeariana è la grande pittura tardo-medievale, in cui la tempera rappresentava la tecnica principe perché permetteva «la resa maggiore, dal punto di vista della purezza delle forme, della pulizia dei contorni», una duttilità «che poi è anche, contemporaneamente, possibilità di scavo, di evidenziazione». Insieme alle grandi vetrate bustrofediche (citate anche nell’Amleto) le grandi opere a tempera di Simone Martini, di Duccio di Buoninsegna, di Masaccio, di Piero della Francesca rappresentano i riferimenti formali a cui il cromatismo netto e preciso della Trilogia si rifà schiettamente, senza alcune palesi citazioni.
Pertanto, la mancanza del colore diventa sicuramente castrante per apprezzare a pieno la grandezza di De Luca. Una mancanza impensabile per altri suoi lavori come il Paulus, in cui la tecnica mista e il colore sono il fulcro su cui ruota l’opera, così come in una storia crepuscolare e quasi apocalittica come I Giorni dell’Impero, in cui le scelte cromatiche devono molto a soluzioni sperimentate da Toppi e rimandano ad alcune delle cose migliori del Commissario (si veda ad esempio Il Mondo di Sgrinfia).
L’edizione NPE rappresenta comunque un’ottima occasione per recuperare la Trilogia shakespeariana in un’unica soluzione e meditare sulla lezione di De Luca, sull’intrinseca capacità del Disegno di demitizzare la parola, di rompere il moralismo linguistico tutto europeo che da sempre assedia l’immagine, di ripensare la capacità dell’infanzia di forgiare il carattere e l’arte di un artista, che si riteneva vedovo della sua Calabria, che ostinatamente disegnò sino agli ultimi giorni della sua vita per mettere a tacere quella rassegnazione, quel «distacco che marchia per sempre».
Trilogia shakespeariana
di Raoul Traverso e Gianni De Luca
NPE, ottobre 2019
cartonato, 167 pp., b/n
22,90 €
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