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C’era davvero bisogno di Samuel Stern?

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Premessa: se c’è una cosa di cui non c’è mai ‘bisogno’ sono le opere d’arte (fumetti, romanzi, film, dipinti, canzoni…). «All art is quite useless», scrisse Oscar Wilde a proposito del Ritratto di Dorian Gray. L’arte non serve a niente per definizione e, allo stesso tempo, è sempre essenziale: quando l’arte è arte, ciò a cui serve va ben oltre i meri ‘bisogni’ materiali o emotivi.

E ora possiamo parafrasare un po’ – un bel po’ – il nostro titolo: Samuel Stern, la nuova serie horror portata in edicola a fine novembre da Bugs Comics e giunta ora al terzo numero, aggiunge qualcosa di significativo al panorama del fumetto italiano? E alla nostra esperienza di lettori?

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La copertina del primo numero di Samuel Stern, disegnata da Maurizio di Vincenzo

La prima domanda è forse la più semplice. L’operazione compiuta dalla piccola casa editrice romana è coraggiosa, perché in un momento di crisi costante del fumetto da edicola – parallelo e conseguente alla riduzione del numero delle edicole stesse – va in netta controtendenza. Samuel Stern non è acquistabile in fumetteria, libreria, Amazon, nemmeno sul sito del suo produttore. Bisogna alzare il sedere dal divano e andare al chiosco dei giornali. Non è un fumetto per pigri digitali, potremmo dire.

All’uscita del primo episodio molte voci si erano levate nel mondo del fumetto per congratularsi di questa scelta. Un lodevole atteggiamento bipartisan – autori, giornalisti, operatori di vario ordine e grado – che raramente si vede in questo pepato recinto dell’editoria. Decine di fumettisti e persino qualche editore ‘concorrente’, insieme a critici e lettori, hanno fatto campagna per invitare i propri follower ad acquistarlo – anche noi abbiamo fatto la nostra parte, eh – con un volume di passaparola che da tempo non si vedeva nel fumetto nazionale.

Questo clima diffuso, democratico e partecipativo, è stato, fino ad oggi, il merito principale dell’operazione: compattare soggetti spesso più litigiosi degli abitanti del villaggio di Asterix. Peccato, però, che quasi nessuno di coloro che hanno postato foto-endorsement di Samuel Stern – con in bella vista una copia fresca di acquisto – sia entrato nel dettaglio del prodotto che aveva in mano. Il gesto dell’acquisto sì, l’argomentazione sul contenuto no.

Un simpatico video promozionale Gianmarco Fumasoli, co-creatore di Samuel Stern, e Roberto Recchioni, curatore di Dylan Dog, sulla carta diretti concorrenti.

Mi piacerebbe a questo punto stupirvi con una stroncatura nettissima oppure, viceversa, raccontando che Samuel Stern è il miglior fumetto del 2020. Mi limiterò invece a citare l’Apocalisse, testo perfetto per un fumetto che parla di esorcisti. Capitolo 3, versetti 15-16: «Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca».

Intendiamoci, non siamo di fronte a un capolavoro, non siamo dalle parti del gioiellino, siamo lontani dai fantomatici inarrivabili Primi-Cento-Numeri-di-Dylan-Dog. Al massimo Samuel Stern può aspirare a intrattenere per una mezz’ora, magari in viaggio sui mezzi pubblici, o per il tempo necessario su altri luoghi deputati alla lettura “senza pensieri” di certi fumetti/riviste/libri/siti. Il suo destino, che ne pensiate bene o male, è segnato: Samuel Stern è qui per essere dimenticato pochi minuti dopo essere stato riposto in libreria.

Creato dagli sceneggiatori Gianmarco Fumasoli e Massimiliano Filadoro, Samuel Stern è un horror molto canonico, con atmosfere che derivano un po’ da Dylan Dog un po’ dall’Outcast di Kirkman, e si inserisce nel filone del fumetto popolare italiano da edicola già dal titolo: un nome-cognome del protagonista, con allitterazione, che fa anche da nome della testata. 

Ricordate la lunga stagione dei “bonellidi”? Tra gli anni Novanta e gli anni Zero, nelle edicole fecero capolino serie come Lazarus Ledd e John Doe, piuttosto importanti nella storia del successo di Bonelli come ‘modello’ editoriale, fino a titoli dimenticabili come The Secret o Dr. Morgue. Samuel Stern è uno di questi. E non è né il migliore né il peggiore. 

Nelle sue pagine ‘funziona’ più o meno tutto, da un punto di vista di sceneggiatura e disegni. È un prodotto professionale, buono come Trigger o Khor non sono mai stati, che mostra una seria cura editoriale, sceneggiature solide nonostante qualche sbavatura e disegni entro una gamma che va dal “buono” al “dignitoso”. Bene, ma non basta a farne un prodotto interessante.

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Una tavola dal primo numero di Samuel Stern, disegnato da Luigi Formisano

Il difetto principale di Samuel Stern è proprio l’obiettivo che sembrerebbero essersi posti i creatori: raccogliere i lettori di Dylan Dog che non si ritrovano nella gestione recente della serie, e offrire loro un’alternativa. La struttura degli episodi, l’eroismo imperfetto del protagonista, le tematiche trattate, ma anche, dal punto di vista extradiegetico, formato, stile di disegno, parole chiave della comunicazione sembrano occhieggiare proprio in quella direzione.

Per questo il fumetto sembra così tanto un calco al negativo dell’Indagatore dell’Incubo, che ne ricorda la formula generale ma inverte tutti i dettagli. Dylan vive a Londra, Samuel a Edimburgo. Dylan è un romantico che si ritrova a menare le mani, Samuel una testa calda che si sforza di fare il bravo ragazzo. Dylan ha come spalla un comico ebreo, Samuel un prete cattolico. Dylan è un rubacuori, Samuel sembra non avere relazioni ma ha una figlia in orfanotrofio che ignora la sua esistenza. Dylan non crede nel soprannaturale ma ogni volta si deve ricredere, Samuel lo conosce bene ma poi risolve i casi grazie alla sua empatia con gli esseri umani…

Sotto tutti questi dettagli batte un cuore molto simile. Le tre storie pubblicate finora si sforzano di riprendere temi e stilemi del personaggio di Sclavi nella vulgata degli altri autori – o di Sclavi stesso quando sonnecchiava. L’esorcista scozzese è un’anima tormentata che si schiera dalla parte dei deboli e che si trova a fraternizzare con i colpevoli, posseduti dagli spiriti infernali perché spinti tra le braccia del demonio dall’ambiente in cui vivono e dalla crudeltà del mondo. Ci si aspetta da un momento all’altro che qualcuno sentenzi: «I veri demoni siamo noi».

Ogni pagina di Samuel Stern sembra promettere ai vecchi lettori dell’Old Boy le emozioni che provavano ai tempi dei “Primi Cento”, in una forma semplificata. Non aspettatevi nessun guizzo geniale alla Sclavi (compensato da nessun tonfo clamoroso alla Sclavi, a dirla tutta): la serie Bugs Comics lavora su un livello molto più piatto, con personaggi bidimensionali che interpretano ruoli stereotipati, blandi tentativi di approfondimento dell’animo umano tramite frasi fatte e un trattamento della materia soprannaturale con un taglio più da manuale di Il gioco di Cthulhu che da racconto di Lovecraft. 

Una tavola dal secondo numero di Samuel Stern, disegnato da Luca Lamberti

Se quello che chiedete a un fumetto è intrattenervi, senza infastidirvi o spiazzarvi, per una mezz’ora, ci siamo. Se cercate invece qualcosa che non ricordi, nell’impianto e nella forma, idee, concept e toni narrativi ormai (iper)rodati, allora no, non ci siamo. A me e, come spero, a molti ‘lettori forti’ di fumetto popolare italiano, sarebbe piaciuto qualcosa di più.

Senza arrivare ai livelli di Mercurio Loi, troppo cerebrale per acchiappare il vasto pubblico di cui aveva bisogno per sopravvivere, Samuel Stern avrebbe potuto provare a rinnovare il linguaggio e i temi del suo genere di riferimento, anche a dosi omeopatiche, invece di adagiarsi nel solco sclavian-chiaverottiano della fanciulla in difficoltà e del mostro di turno.

Magari sarebbe potuto essere un nuovo anello di congiunzione tra ‘popolare’ e ‘d’autore’ (definizioni che odio, ma che mi perdonerete per amore di semplificazione), come fu Dylan Dog 35 anni fa, e come forse il ‘lettore da edicola’ avrebbe di nuovo bisogno. Perché il futuro del fumetto popolare italiano non può basarsi su un Elton Cop fatto meglio. 
In effetti, forse non c’era davvero bisogno di Samuel Stern.

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