Se dovessimo riassumere Outer Darkness limitandoci a fare riferimenti ad altre opere si potrebbe pensare a un Moby Dick imbastardito con Star Trek, Norton Juster, una deriva chibi di Moebius e un poco di John Carpenter. Oppure, per far prima, basterebbe tirare in ballo Punto di non ritorno, cult movie minore del 1997 diretto da Paul W. S. Anderson.
Abbiamo una missione folle, una nave spaziale battezzata con un nome che contiene tutto il senso della vicenda e un viaggio di oltre nove mesi fino alla tenebra profonda. A dettare la rotta del vascello troviamo l’imperturbabile capitano Joshua Riggs, dai metodi discutibili e spinto da troppi segreti, accompagnato dal fido Agwe, esorcista enorme e coperto di tatuaggi tribali. A suoi comandi una ciurma composta da navigatori, soldati, ufficiali ma anche matemaghi, esorcisti e oracoli. Il tutto mentre un motore-dio alimentato a sacrifici umani spinge la Caronte ai limiti dell’universo conosciuto. Direi che le premesse per una serie quantomeno interessante ci sono tutte.
In Outer Darkness ognuno sembra avere un segreto e, soprattutto, un piano per manipolare a suo piacimento gli altri membri dell’equipaggio. Qualcuno vuole recuperare il suo precedente status privilegiato, altri finire a letto con la fiamma del momento, invocare demoni o chissà che altro.
Se la scansione degli eventi ricorda quella di una qualsiasi vecchia serie di fantascienza – dove a ogni puntata il viaggio procede e si scopre qualcosa di più dell’affascinante universo dove viene ambientata – in realtà il vero motore della narrazione è rappresentato dalle motivazioni personali di ogni personaggio.
Nonostante uno stile grafico quasi stilizzato, l’attenzione alla recitazione dei personaggi è sempre altissima. Sia che si parli di linguaggio del corpo o della fisionomia dei volti. Basti come esempio il sorriso appena accennato del capitano Riggs nella vignetta muta in chiusura del secondo albo. Il baloon di testo arriverà solo in fondo alla pagina, ma in realtà possiamo intuire benissimo cosa leggeremo da lì a poco. Aspettarsi finezze simili da una serie mainstream statunitense, dove spesso e volentieri a disegni così asciutti e caricaturali corrisponde una gestione emotiva dei personaggi piuttosto esasperata, non è cosa da tutti i giorni.
Espandendo il concetto a tutto il resto dell’operazione di Layman e Chan è chiaro come in questa serie tutto sembra giocare a essere altro rispetto a quello per cui ci viene venduto. Proprio come i personaggi che la popolano. Le astronavi e le tecnologie paiono essere rappresentate con geometrie basiche e poco ispirate rispetto a quello che ci aspetterebbe da un fumetto di fantascienza, ma ben presto si capisce essere ispirate ai classici fregi esoterici – quelli luminescenti a forma circolare, per intenderci – che vediamo scaturire dalle mani di ogni mago e/o stregone di estrazione fantasy da diverse decadi a questa parte. Penso al Dottor Strange o a qualsiasi mago protagonista di un jrpg a caso. Si tratta di una soluzione stilistica che non porta nulla di davvero innovativo, ma che sintetizza in modo fresco e puntuale i vari punti di partenza del concept dietro a tutta la serie.
La linea con cui viene tratteggiato il mondo in cui è ambientata sarà anche accattivante e ruffiana, ma la violenza che lo puntella è invece piuttosto cruda. Il lavoro di world building da parte degli autori è forse la cosa più notevole di tutta Outer Darkness, invitando il lettore con premesse di fumetto d’avventura scanzonato e post-moderno (basti il logo, tremolante e dal taglio obliquo come in poster vintage) e proiettandolo in un cupo mondo di creature a La Cosa di John Carpenter. Dove tutto va per il peggio e la morte è una possibilità talmente palpabile da aver sviluppato tecniche per renderla controvertibile.
L’umorismo è presente solo a sprazzi, in maniera molto discreta, mentre la narrazione procede di crudeltà in crudeltà. Se l’idea che un astronave sia alimentata da una divinità minore può strappare un sorriso per la sua bizzarria, vedere ai margini di una vignetta il corpo di un prigioniero dato in pasto all’entità metafisica sviscerato e in sospensione in un liquido di contenimento ha un effetto tutt’altro che frivolo. Tra queste pagine si muore male e spesso, mentre le proprie azioni hanno conseguenze impossibili da ignorare. Siamo ben lontani dall’innocenza della fantascienza classica, dove ci si lascia le penne solo se si indossa una maglietta rossa o dove i terribili soldati dell’esercito malvagio non riescono a mettere a segno un colpo che sia uno.
Parlando di John Layman spesso ci si riferisce a lui solo come l’autore di Chew, serie fuori da ogni canone che per sessanta numeri è sempre riuscita a muoversi per una traiettoria tutta sua, e spesso ci si dimentica di come la carriera dell’autore sia lunga ed eterogenea. Da Gen13 passando per Gambit, senza dimenticare Godzilla, Batman e Xena. Lo scrittore ha lavorato per praticamente ogni editore del mercato nord-americano, attraversando ogni genere e adattandosi a qualsiasi tipo di personaggio. Da un’esperienza simile poteva uscirne o un mediocre esecutore, uno di quelli da piazzare a gestire qualche filler prima che alla stella di turno torni l’ispirazione, o uno sceneggiatore eclettico e in grado di gestire i vari registri con una facilità disarmante.
La sinergia con il quasi esordiente Afu Chan – un fuoriclasse assoluto che frequenta il mondo del fumetto fin dal 2012, ma senza mai raggiungere la visibilità che merita – è perfetta e Outer Darkness raggiunge già dal primo volume una maturità e un’identità invidiabili. Non la potete confondere con nulla che avete già letto e le prospettive per una run lunga e gustosa ci sono tutte.
Outer Darkness 1
di John Layman e Afu Chan
traduzione di Andrea Toscani
saldaPress, dicembre 2019
cartonato, 160 pp., colore
19,90 €
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