di Mario A. Rumor*
Jintarō Dokugusuri ci tiene a far sapere il suo nome. Ci tiene a tal punto da sgolarsi in un carosello di note in un locale notturno. Quel che accade poi è il saliscendi di uno psicopatico: afferra un malcapitato e lo stende con un cazzotto, si avventa su una signorina con intenzioni da uomo terribile, per poi uscirsene di scena annoiato.
Basta osservare l’oblungo testone di questo tizio, che si definisce “il capo di Shinjuku”, per semplificare ogni giudizio su di lui. Il resto lo riservano le circa 200 pagine del fumetto Sunzuku no Teio – Ori wa Dokugusuri di George Akiyama, da almeno 8 anni disponibile in francese con il titolo Jintarō le caïd de Shinjuku per Le Lézard Noir: editore che del mangaka ha portato oltralpe anche Anjin-san nel 2012.
Mescolare la tracotanza dello yakuza Jintarō, che a sentire lo stesso Akiyama tanto yakuza non è, all’esigenza di imporre con foga se stesso sulla vignetta è paradigmatico. Fa pensare per l’appunto alla carriera di questo veterano dei manga, nato Yūji Akiyama nel 1943 ad Ashikaga nella prefettura di Tochigi, e della sua stravagante vanità d’artista che un momento c’è, e il momento dopo non più.
Fa tutto da solo, George Akiyama, e lo fa per bene. Disegna con stile da gekiga, ma poi ti spiega che non realizza capolavori, in quanto arranca “volontariamente nella serie B” del fumetto. Inizia la carriera da disegnatore nel 1966 sforzandosi di far ridere i lettori con manga comici dopo essere stato l’assistente di Kenji Morita, ma poi si trastulla con temi e opere difficili da immaginare sulle pagine di uno Shōnen Jump presso cui aveva allegramente bivaccato per lungo tempo. Peggio ancora, per i puristi del fumetto a una sola trazione, dilaga verso l’hard con nudità, atti osceni nella maniera che vediamo fare a Jintarō Dokugusuri. E la scusa è sempre pronta: volevo disegnare un personaggio senza la minima umanità. Salvo poi accorgersi che non esistono personaggi privi di umanità.
E se è vero che i redattori delle case editrici guardano Akiyama con timore poiché le idee dei fumetti sono quasi sempre sue e a loro tocca restare in un angolo a guardare (si chiama: istinto di sopravvivenza del salario), è altrettanto vero vederlo battere in ritirata quando gli si chiede conto del gruppo terroristico Aum Shinrikyo (responsabile nel 1995 di un micidiale attacco alla metropolitana di Tokyo con il gas sarin) che ha raccontato verso la fine degli anni Ottanta nel fumetto Shaka no musuko (“Il figlio di Buddha”). Lì la colpa è ovviamente del redattore.
D’altronde, con Akiyama è così: ti promette divertimento insano e paludati personaggi che neanche l’inferno accoglierebbe ma poi, con inedito senso della ritrattazione, sembra dirti che è un gran bugiardo. Tali almeno le premesse che il lettore può desumere sfogliando Kokuhaku (“Confessioni”), il manga del 1971 che vive di una contraddizione dietro l’altra. Ma soprattutto di bugie rifilate con faccia tosta ogni settimana sulle pagine di Shōnen Sunday.
Insomma, non per essere scortesi ma… Akiyama e Jintarō un po’ si somigliano: ci tiene il mangaka a urlare il suo nome, ci tiene a fare un gran baccano anche se poi svicola indisturbato. Jintarō tra l’altro non è un personaggio come tanti altri: prima di vedersi dedicare un intero volume, era già apparso in storie brevi su alcuni numeri speciali di Shōnen Jump. In particolare, l’esordio era avvenuto con gran successo in Kudokiya Jō, fumetto in cui al protagonista serviva una degna nemesi.
Possibilissimo che Akiyama non sia così sconosciuto come potrebbe sembrare. In Italia, per esempio, il solo ricordo decente che abbiamo di lui è scaturito grazie al blog Una stanza piena di manga, grazie al quale nel 2013 un breve assaggio del disegnatore ha illuminato la noiosa routine del nostrano mondo manga. Poi esiste la versione giapponese di tale premura conoscitiva e pertanto alla natura prolifica di Akiyama e al suo stile di disegno indiscutibilmente preciso e moderno, spiazzante e indecoroso si affianca una percezione molto più ampia. Non basata – ahinoi – su due soli fumetti, per di più di recente produzione. Una percezione che, grazie agli scritti critici di Takeo Udagawa, prova a inquadrarne le opere in un’ottica eliocentrica dove l’efficienza grafica si confonde alla surreale estetica fatta più di traumi che di sospirati lieto fine.
Akiyama è un riferimento che ha influenzato, in punta di piedi, diverse generazioni di mangaka e autori di animazione. Un ambito quest’ultimo in cui le sue opere non passano inosservate: c’è Haguregumo (1980) da uno dei suoi lavori più longevi creato nel 1973, e c’è Asura, pellicola realizzata con gran coraggio nel 2012 da Toei Animation (Asura fumetto viene pubblicato nel 1970 dopo il buffo Horafuki Don-Don e parla di cannibalismo). Idem il cinema dal vero, che ne ha raccolto l’eredità con Sutegataki Hitobito di Hideo Sakaki realizzato assieme al figlio del disegnatore, Inichi Akiyama, dove prende vita un punto di vista onnisciente, dove tutti sono protagonisti. Esattamente come sarebbe piaciuto al fumetto del padre.
*Questo articolo è tratto dal mensile Fumo di China n. 294, ora in edicola, fumetteria e online.
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