Erano i tempi della cultura punk e della diffusione delle pratiche del do-it-yourself quando, in età tra il liceo e l’università, diversi ragazzi dotati di intraprendenza e creatività producevano le loro prime opere artistiche utilizzando il linguaggio della stampa e dell’editoria, nella forma della fanzine.
Raymond Pettibon (nato Raymond Ginn, 1957) era parte della scena punk nell’area della California del Sud, e con gli amici si muoveva soprattutto intorno alla musica. Più che suonare, però, amava disegnare, leggere romanzi e, paradossalmente, ascoltava tanto jazz quanto punk. Mentre ancora studiava economia e suonava in qualche gruppo messo in piedi dal fratello, progettava qualche fanzine personale.
«Il motivo per il quale facevo le fanzine, in primo luogo, era per tenere traccia del mio lavoro, e poi perché i miei disegni erano riproducibili. Non si perdeva molto in riproduzione».
Fanzine in banale bianco e nero, stampate in poche centinaia di copie, riempite solo con disegni (molti) e parole (poche). Fanzine di fumetti, in primis.
L’invenzione dello stile (grafico) punk
Per buona parte del tempo che dedicava al disegno, nei tardi anni Settanta, Raymond contribuiva alle band di amici realizzando immagini per i volantini o per le locandine dei concerti. Da quel gruppo di amici sarebbe nata una delle band più influenti della scena alternativa statunitense, i Black Flag, co-fondata nel 1976 dal fratello maggiore Greg Ginn. Pettibon si sarebbe affermato insieme ad essa, grazie all’abilità e alla potenza del suo disegno, al servizio di progetti divenuti iconici come la copertina del primo disco, Nervous Breakdown (1979).
La copertina di quel disco parve esplosiva, in grado com’era di definire l’intero tono di una band innovativa. Raffigurava un uomo proiettato verso un altro nell’angolo, con una sedia in mano, minaccioso, come pronto a lanciarla contro di lui. L’uomo con la sedia era forse un insegnante? L’altra persona era uno studente? E poi il logo, una bandiera nera stilizzata in quattro barre verticali (il nome stesso fu un’idea di Pettibon, per dare nuova identità alla band, nata come Panic), figlia di suggestioni visive che andavano dall’anarchismo al marchio di un comune insetticida. Quel logo diventerà uno dei più iconici dell’intera storia della musica e della grafica. E l’atmosfera violenta e satirica della scena comunicò lo spirito hardcore punk dei Black Flag, orientato a rappresentare situazioni drammatiche ma anche stranianti, spesso prendendosi gioco della polizia o di altre figure autoritarie.
La cultura punk aveva già trovato una propria estetica nell’abbigliamento e nella musica. Ma la rappresentazione visiva delle band precedenti non aveva sviluppato quella crudezza low-fi che invece arriva, grazie ai Black Flag, con lo stile di Raymond Pettibon.
«Se guardi i vecchi album punk, le copertine erano più che altro tutte cose da costruttivismo russo o da collages alla Heartsfield. Non c’erano uno stile o un aspetto punk ancora ben definiti. O almeno non nella parte visiva.»
La sua è già una calligrafia brutale nell’anatomia, precisa nelle figure e icone riconoscibili, suggestiva nelle parole talvolta poetiche, grezza nelle finiture. Una visione nutrita da un originale impulso critico e iconoclasta. Le forme sono figure per lo più umane, spesso parte dell’iconografia del consumo e dell’intrattenimento, ma il tono non è – e non diventerà – enfatico: niente estetizzazione della merce, come nella Pop Art alla Lichtenstein o Warhol, ma nemmeno il détournement situazionista. Al cuore c’è insomma un sottile senso di straniamento, quasi una meditazione esistenziale. I suoi disegni, accompagnati quasi sempre da parole che non li “illustrano”, fluttuano in equilibrio fra commento sociale e riflessione filosofica.
La progressiva ascesa di Raymond Pettibon nel mondo dell’arte contemporanea statunitense, del quale è diventato una star poco dopo un’altra copertina memorabile (Goo dei Sonic Youth, 1990), seguita da alcune importanti mostre collettive (Helter Skelter: L.A. Art in the 1990s, nel 1992) e dall’inclusione alla Whitney Biennial del 1993, non cambierà questo approccio.
Il tratto si farà via via più elegante; la materia pittorica (gli inchiostri) si arricchirà di toni, spessori e colori; la meta-narrazione delle parole prenderà vie sia da haiku che da sermone; e il campo di simboli spazierà dal surf al baseball, dalla politica alla Bibbia, dalla guerra in Iraq alla scrittura o all’alfabeto stesso. Ma la tremolante visione della grande e coerente America, riletta attraverso frammenti oscuri e disordinati, rimarrà al centro del suo lavoro, lontano dalle utopie e dalle risposte: «un’originale versione mitica di un’America infernale che ha un inquietante fondo di verità», secondo Robert Storr.
Raymond Pettibon, fumettista
Da ragazzo, in quegli anni di editoria punk DYI, Raymond Pettibon pubblica dunque la sua prima fanzine. Era ancora studente quando aveva pubblicato vignette di satira politica sul Daily Bruin, il quotidiano dell’Università della California, ma nel 1977 si mette al lavoro su un progetto di cartooning più ampio. Mentre decide di interrompere gli studi universitari, il progetto prosegue, fino all’uscita nel 1978. La fanzine si intitola Captive Chains, ha una tiratura insolitamente ampia di 5.000 copie e contiene molti elementi della poetica dura, antiretorica e frontale dei Black Flag. Il contenuto sono due fumetti, di 30 e di 5 pagine rispettivamente, e una trentina di pagine di illustrazioni singole.
Il primo fumetto, City Kids, è anche il primo contenuto della pubblicazione, ed è una specie di noir picaresco. È un racconto corale, e mette in scena le vicende vagamente connesse tra loro di alcuni personaggi che vivono in un contesto urbano decadente, dominato da gang giovanili alle prese con delinquenza, droga, promiscuità sessuale, religione. «La legge della giungla d’asfalto era la sola che conosceva» recitano le battute che introducono il primo personaggio.
Incontriamo così un padre che accoglie un figlio sparandogli, scambiandolo per un ladro; una “ragazza orizzontale” che si scopa tanto il padre quanto il figlio; un conflitto tra bande di cui non sappiamo il motivo; una donna che sul petto ha tatuato «I am a teenage prostitute and proud of it»; un padre neo-licenziato da una fabbrica che ascolta con passione il programma radiofonico di un predicatore conservatore, populista e razzista; due operai che commentano un fumetto di Spider-Man chiedendosi «ma non ci sono tipi giusti come noi, in quelle storie?»; una folle corsa in auto finita in tragedia; qualche omicidio; qualche dose di eroina.
L’atmosfera è insomma quella che si ritroverà ne I guerrieri della notte di Walter Hill. Ma più che un racconto City Kids è una galleria di situazioni e caratteri, accompagnati da una scrittura straniante. Le parole oscillano fra il vernacolo di strada dei dialoghi e le suggestioni letterarie delle didascalie, che volgono spesso l’attenzione altrove rispetto alle scene rappresentate. La vita di strada e le esistenze disfunzionali, insomma, sono materia grafica ma non l’obiettivo, in quei fumetti.
Nel secondo fumetto, Designated Hitter, in primo piano c’è invece il mondo del baseball. Il protagonista è un giovane fan sfigato che stipula una sorta di patto col diavolo, grazie al quale arriva a prevedere vittorie e colpi determinanti. Il ragazzo diventa così una sorta di padrino per un noto atleta, con il quale stringe una specie di alleanza che porta l’atleta alla ricchezza, e i due ad incontrare Dio (“the greatest manager of them all”) e Satana…
Le altre pagine di Captive Chains non contengono fumetti né articoli, bensì disegni singoli. Senza alcun legame narrativo tra loro. I soggetti sono molto differenti, dall’aborto alla polizia, da statue di cera di celebrità colpite da proiettili a un dialogo tra gente di quartiere di fronte alla casa di un giovane killer: «he wouldn’t hurt a fly – what makes a good boy go wrong?». Le questioni politiche emergono in maniera più evidente, sebbene la logica non sia nemmeno quella della vignetta satirica: sono disegni-commento in sé, per lo più muti.
Molte di queste immagini hanno avuto vite successive, e sono state riproposte e distribuite in diverse forme. La copertina di Nervous Breakdown dei Black Flag ne è solo l’esempio più noto: quel disegno non è che una versione differente della sedicesima tra queste immagini. Un altro di questi disegni, basato su un iconico frame del film di Tobe Hooper Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1974), venne utilizzato per il programma del tour dei Black Flag del marzo 1981.
E ancora, un disegno di Captive Chains è stato riutilizzato per uno dei volantini numerati dei Black Flag realizzati da Raymond Pettibon nel 1979: è il flyer n. 13, che usa l’illustrazione in cui un suonatore di organetto tiene in catene una piccola donna, che a sua volta si attacca alla gamba dei pantaloni di un uomo d’affari, tendendo in mano una tazza per chiedere l’elemosina.
Fumetto, senza dare e senza chiedere
Nella seminale Captive Chains, prima delle quarantaquattro fanzines che realizzerà soprattutto lungo gli anni Ottanta, ci sono dunque molte delle coordinate fondamentali dell’opera di Raymond Pettibon. E una di queste è il fumetto. Nonostante la superficiale attenzione per questo aspetto, uno degli artisti statunitensi più importanti dell’ultimo mezzo secolo – Bucksbaum Award nel 2004, Kokoschka Prize nel 2010 – è anche uno dei tanti figli dispersi della Nona arte.
Il lavoro con il fumetto, per Raymond Pettibon, non è solo paradigmatico nei temi, nell’iconografia e nella strategia artistica giovanile. È anche un gesto di transfert espressivo tanto elementare quanto trasparente: il tributo di un lettore di comics ordinari (Mad Magazine) che in essi trova alcune delle proprie buone ragioni creative. Al punto da inserirli come riferimenti – la sequenza su Spider-Man in City Kids – e riprodurne a tutti gli effetti le tecniche grafiche, formali e compositive.
«Penso di avere avuto una visione del fumetto opposta a quella di gran parte degli artisti della Pop art. Lichtenstein potrà anche avere trattato i fumetti come una specie di detrito tipico della cultura americana, e avrà visto l’arte come una specie di arcinemico dei comic books. Io penso che il mezzo in sé sia legittimo quanto qualsiasi altro».
La direzione fumettistica in cui si pone con quei primi lavori, è davvero bizzarra, idiosincratica. Da un lato c’è l’idea di tuffarsi nei fumetti per dare voce al lato oscuro della società del tempo, che tuttavia prende forma insieme al disinteresse per il clima grottesco dei vari Robert Crumb, Spain Rodriguez o S. Clay Wilson.
«Crumb is not my line, ma non penso che il fumetto underground debba essere giustificato dalla sua prossimità con l’arte».
Dall’altro c’è un impianto editoriale tradizionale, quasi retrò, tanto nel formato della fanzine prossimo ai ciclostili e ai samidzat più che alle strips o ai magazine (alla Zap!), quanto nella costruzione di una griglia ordinaria di tavole divise in vignette squadrate e regolari – tre massimo quattro strisce – e di una linea nitida e comunicativa, sebbene sporcata dalle deformazioni dei corpi. L’apparenza è quasi equidistante fra i didascalici Chick Tracts degli anni Sessanta e i rutilanti comix underground dei Settanta.
Ma c’è anche altro. Ovvero la consapevolezza di chi pratica con passione un linguaggio al di là di elaborare un posizionamento al suo interno:
«Non avevo rapporti con nessuna scena. In quei tempi, se vai a cercare il mio nome nel mondo del fumetto non si trova niente – sono piuttosto sicuro che non salterebbe fuori da nessuna parte. Non avevo relazioni perché non andavo in giro a mostrare i miei lavori o miei portfolio. Come spesso succede, gli altri artisti sono i primi ad apprezzare il tuo lavoro. Nel mio caso fu Mike Kelley, su tutti».
Tuttavia Raymond Pettibon non può essere letto come un entusiasta o un attivista dei comics:
«Pensavo fossero infantili, anche se non lo sono, ma questa era la mia impressione. Ci sono persone che vengono inghiottite dal fandom del fumetto e spariscono per il resto della loro vita».
«Se il mio lavoro fosse valutato in base a come si pone rispetto ai fumetti, sarebbe ben poca cosa. Le mie capacità di videoartista o di disegnatore non sono cose di cui mi devo vantare. Che il mio lavoro venga discusso in questi termini, beh, è un po’ ridicolo. E nemmeno in termini di letteratura, il punto non è la qualità della lingua che uso. Il mio lavoro non è letteratura. Potrebbe essere una combinazione, ma è qualcosa di completamente diverso dal fumetto o dalla letteratura».
Attivista no, ma seme influente sì. Gli anni del debutto dei Black Flag sono anche gli anni di Slash magazine (1977/1980), rivista che più di altre fu un riferimento per la scena punk americana, e che con le incursioni fumettistiche di Gary Panter diede un ulteriore contributo alla penetrazione del linguaggio del fumetto nei territori tanto della cultura hardcore quanto dell’arte contemporanea.
Slash si infiammò in particolar modo intorno al suono dei Black Flag e delle altre band della SST Records (Minutemen, Hüsker Dü, Meat Puppets, Overkill; nei tardi Ottanta arriveranno Soundgarden, Sonic Youth, Dinosaur Jr., Screaming Trees) che gridavano la propria incazzatura usando spesso proprio Pettibon come ariete grafico, protagonista invisibile di una gran quantità di copertine dei loro dischi.
Ecco. In una fase in cui la Nona arte, fuori dal ventre molle dell’intrattenimento, non sembrava quasi più risuonare con il resto dell’innovazione espressiva e intellettuale, le sole energie disponibili per superare il diffuso velo percettivo – comics = massmedia = midcult – erano quelle ipertrofiche del vitalistico détournement antagonista (i comix underground), oppure quelle intellettualistiche della distante iconologia della massificazione (la Pop Art). Pettibon, invece, ha fatto scuola a sé, giocando in questo campo di forze un ruolo perlopiù inintenzionale, ma davvero cardinale.
Raymond Pettibon ha infatti unito un segno e un immaginario a un linguaggio – il fumetto – facendone una tappa legittima del proprio percorso in quanto artista: faceva fumetto in quanto fumetto, o arte in quanto arte, senza facili teoremi. Pettibon non stava insomma da nessuna di quelle parti – niente appropriazione tattica, niente ribellismo grottesco, niente intellettualismo distaccato – e il suo fare fumetto era, al contempo, una scelta di politica espressiva ed una grammatica ‘naturale’. Era la voglia punk di fare quel cazzo che gli pareva, certo, ma anche il ragionevole bisogno di non cancellare le proprie letture adolescenziali in ossequio a una loro supposta inferiorità rispetto ad altre forme. Era la voglia di fare, senza sproloquiare: disegnare può essere raccontare, o anche solo disegnare, o anche solo suggerire, o commentare. Quindi anche fumetto. Problemi?
«La forma fumetto come forma di storytelling, come il cinema. Penso sia una formula grandiosa. Mi piacerebbe fare di più con questa forma, se non fosse che è così time-consuming. È come in quei dannati collages. Nei miei grandi collages ci sono cinquanta o settanta disegni, ed è proprio come fare cinquanta o settanta disegni. Ma poi devi metterli insieme in qualche ordine, posto che abbia davvero un senso…».
Dopo gli anni Ottanta Raymond Raymond non praticherà più il fumetto in quella forma, canonica e diretta. Ci girerà intorno, diciamo, rivolgendosi ad alcune sue proprietà formali (è celebre la sua serie di opere sull’onomatopea ‘Vavoom’, o sul personaggio da-cartoni-animati Gumby) o ad alcune icone pop (Superman e Batman, of course), peraltro evolvendo il proprio segno in una direzione che a noi fumettòfili richiama curiosamente Milton Caniff (penso al suo portfolio Lana, dedicato a femmes fatales e bad girls).
Né rivendicato né rinnegato, semplicemente praticato. Senza il fumetto, Lichtenstein quasi non esisterebbe, mentre Pettibon sì. Solo, sarebbe un artista diverso. E immaginare la storia dell’arte senza questo Pettibon, sarebbe una ben squallida distopia.
*Questo articolo è stato pubblicato su Frankenstein Magazine #2, rivista indipendente di fumetti. Il nuovo numerò sarà presentato il 28 febbraio presso Spazio Maiocchi, dalle 18 alle 21, in via Maiocchi 5 a Milano.
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