Se si volesse premere a tavoletta sull’acceleratore dell’enfasi retorica si potrebbe dire che in Joe Galaxy e, meno nel dettaglio, nell’opera di Massimo Mattioli, si può trovare tutto quello che di meglio il fumetto può offrire. E, pur cadendo nell’errore che ogni analisi troppo entusiastica comporta, non si sarebbe poi così lontani dal vero.
Sulla figura del suo autore si è già detto molto su queste pagine (qui, qui e qui) e le affermazioni di stima che gli sono state rivolte non sono certo esagerate. Joe Galaxy non è forse la più nota delle sue creature, anche a causa della non facilissima reperibilità delle sue avventure fino alla recente ristampa di Coconino Press. Pur essendo parente di Pinky, realizzato per il periodico cattolico Il Giornalino, e di Squeak the Mouse, ospitato invece sulle pagine di Frigidaire, trascende entrambi in una direzione che sarebbe riduttivo chiamare citazionista.
Joe, avventuriero spaziale dalla dubbia origine, pronto a qualsiasi missione o nefandezza per intascare un po’ di crediti, si situa zoologicamente a metà strada fra un’aquila e un papero. A bordo della sua navicella spaziale e armato delle sue pistole a raggi imperversa su pianeti sconosciuti, incontrandosi (o più spesso…scontrandosi) con decine di razze aliene il cui unico comune denominatore sembra essere l’improbabilità. Nell’enorme e al tempo stesso minuscolo universo di Mattioli, sopraffazione, violenza, cinismo, furti e abusi sono l’unica regola di vita e Joe Galaxy è il maestro incontrastato in tutte queste arti.
L’imprinting parodico derivato dalla fantascienza anni Cinquanta e Sessanta – fumettistica, cinematografica e letteraria – è palese e dichiarato, ma al tempo stesso si offre soltanto come spunto iniziale. Mattioli ruba, ruba ovunque, con tutta la libertà che il suo estro, davvero incontenibile, gli permette: dalla fantascienza, certo, ma anche dall’underground, da Tex Avery, fino a Magritte e a Moebius. Eppure anche il citazionismo, così come la ricontestualizzazione tipica della Pop Art o la parodia, sono chiavi di lettura che possono sembrare validi strumenti di analisi finché è lo stesso autore a metterne in crisi presupposti e metodi.
Se si volesse tentare una definizione del metodo di lavoro di Mattioli si potrebbe dire che gioca. Gioca con le idee ma soprattutto con le immagini, confondendo continuamente i confini tra visivo e concettuale, alla ricerca di un continuo spiazzamento. Gioca bambinescamente, concentrando tutta la propria attenzione sul meccanismo, per quanto momentaneo, oggetto della sua attenzione, ma gioca anche con gli strumenti dell’adulto consapevole, ben conscio degli strumenti a sua disposizione.
Nelle prima avventura di Joe Galaxy – Joe Galassia e le perfide lucertole di Callisto IV – undici tavole orizzontali pubblicate sulle pagine de Il Male, Mattioli sta ancora prendendo le misure. Le sue sperimentazioni riguardano soprattutto il layout (come pagine centripete o a forma di astronave) e il segno è ancora fin troppo debitore degli autori di fumetto underground d’oltreoceano. Eppure il suo modo di raccontare anarchico e disinteressato alla narrazione di impostazione lineare è evidente già dal titolo. L’incontro con le perfide lucertole viene infatti, episodio dopo episodio, continuamente rimandato, come quello con il Tristram Shandy nel romanzo omonimo di Sterne.
Nella successiva avventura, Joe Galassia e quelli del III° universo, pubblicata su Cannibale, le cose sono già diverse. L’autore imposta una trama più o meno lineare, ma si diverte a giocare non tanto con i meccanismi narrativi, ma con il suo processo produttivo, quello di stampa, coinvolgendo direttamente i protagonisti della storia. Così, visto che i colori feriscono gli occhi di un minuscolo alieno interdimensionale, le tavole diventano in bianco e nero. Sarà una coppia di poliziotti a riportare tutto alla normalità, ma all’inizio si dimenticheranno di aggiungere inchiostratura e retinature.
Naturalmente Joe Galaxy non è solo una, per quanto divertente, riflessione metafumettistica. Mattioli usa, qui come altrove, tutti gli strumenti che può mettere su carta: collage, inserti fotografici, cambi di layout, palette acide, monocromatismi, citazionismo visivo e non, mostrando inoltre doti da “regista” che vanno ben oltre l’etichetta di autore irriverente.
Ogni tavola è un mondo a sé in cui l’unica regola è il non averne. Questo non significa mancanza di rigore ma, piuttosto, un rigore che è fedele solo al proprio scopo. Condite tutto ciò con pornografia interspecie, enormi dosi di granguignolesca violenza, animali parlanti e viaggi ai limiti del cosmo e avrete come risultato un libro davvero imperdibile.
Si potrebbe pensare che Joe Galaxy, così come altri fumetti di Mattioli, siano figli del periodo in cui sono stati creati, quell’irripetibile ventennio che vide nascere in Italia una quantità incredibile di talenti. Eppure l’arte di Mattioli trascende gli anni e le mode – come dimostra il successo di Pinky, fumetto sempreverde per lettori di tutte le età.
Tuttavia una figura paragonabile a Joe Galaxy non esiste nel nostro panorama editoriale, un po’ impantanato da un lato in narrazioni eccessivamente lineari (escludendo volumi che flirtano con il libro d’arte e che restano un po’ al margine di questo discorso), dall’altro in storie eccessivamente ombelicali se non dichiaratamente autobiografiche.
La domanda che la lettura di un volume del genere pone è la seguente: Mattioli era realmente un unicum e quel ventennio rischia di restare davvero irripetibile, per mancanza di autori o per altri fattori, oppure è l’odierna editoria che non riesce a dare spazio a sperimentatori capaci di conquistare comunque un grande pubblico? Una cosa è certa, personaggi come Joe Galaxy non se vedono più.
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