Black Science pareva uno dei figli prediletti del boom di Image Comics di qualche anno fa. Arrivava in coda a Saga, quando si era in cerca della nuova-serie-imperdibile, aveva uno scrittore di grido e un disegnatore al top. Su queste pagine arrivammo a dedicargli tre articoli nel giro dei primi tre volumi (qui, qui e qui). Poi, come succede quasi sempre, l’hype cominciò a calare, le novità high concept a cui dedicare attenzione si moltiplicarono (nel caso di Image, a dire il vero, a moltiplicarsi fu un po’ di tutto), e la serie fantascientifica di Rick Remender e Matteo Scalera finì in secondo piano rispetto alla roboante partenza.
Si tratta di una storia già scritta, quasi inevitabile in fasi di iperproduzione come quelli che stiamo vivendo da un po’ di anni a questa parte. L’attenzione del pubblico è sempre più polarizzata, e i continui lanci & rilanci delle major servono proprio a capitalizzare questo andamento. A volte, però, accade che i creatori delle nostre serie preferite abbiano in testa storie che richiedono ben più di un pugno di uscite, per sbocciare completamente. Il fatto che Jason Aaron sia riuscito a scrivere più di ottanta albi di Thor, passando indenne attraverso tutti cambi di direzione di Marvel Comics, e consegnandoci una delle migliori run del personaggio di sempre, fa capire come la forza delle storie spesso vada al di là delle richieste del mercato.
Per ogni Mark Millar che strilla a più non posso a ogni numero #1 pubblicato, c’è sempre qualche sceneggiatore che, in sordina, continua a comporre un mosaico che non potrebbe mai esaurirsi in uno strillo promozionale. E forse è anche questo, Black Science. Arrivati alla sua conclusione è quindi il caso di prenderci un momento, tornare sui nostri passi e capire perché – dopotutto – all’inizio di questa folle epopea transdimensionale non ci avevo capito nulla.
Il fattore che ha sempre reso Black Science una lettura interessante è la costante tensione tra i suoi tre ingredienti principali: i disegni ultradinamici di Scalera, la colorazione quasi pittorica di White (prima) e Moreno (poi) e la sceneggiatura di Remender. Se nei primi archi narrativi non era completamente sbagliato considerare il lavoro dello sceneggiatore come una versione incattivita di Lost in Space, con l’evolversi della trama le cose si sono fatte meno fini a se stesse. Perché vanno bene i viaggi interdimensionali, le versioni pazzesche della nostra realtà, le ucronie e i mostri mutanti, i morti e le scene da blockbuster d’azione, ma alla fine l’unica cosa che conta davvero in Black Science sono i legami tra i personaggi e le conseguenze a cui possono portare. Che, detto per inciso, non sempre rappresentano il migliore degli orizzonti possibili.
Passata la botta di adrenalina dei primi volumi, è evidente come al centro di ogni singola scelta – anche disastrosamente sbagliata – di ogni personaggio ci sia l’amore. Per chi ci sta accanto, per se stessi, per il sogno che stiamo inseguendo. Mai davvero per tutti. Si tratta di un aspetto falsamente banale, capace di elevare l’intera serie a qualcosa di più di mero gioco autoreferenziale a base di fantascienza anni Sessanta.
Più si avanza nella lettura, più tutto l’aspetto legato alla scoperta e all’apparato sci-fi passa in secondo piano. Nei primi episodi è un susseguirsi folle di esplosioni, lotte, disastri e salti catastrofici da una realtà parallela all’altra. Tutta l’attenzione è sul radiofaro, sulla scienza che c’è dietro, sulla tecnica e sull’infodump di supercazzole parascientifiche. Viene dato qualche dato sulla storia del protagonista, sulla sua tendenza a lasciarsi alle spalle moglie e figli per perseguire i suoi scopi, ma tutto rientra ampiamente nei limiti della costruzione del personaggio problematico standard. Un minimo di conflitto ci deve essere. Ma non troppo da intralciare lo svolgere ipercinetico della storia.
Poi le cose cominciano a complicarsi. Grant McKay si rivela per quello che è davvero: un visionario, un egocentrico smisurato, un aspirante messia, un folle, un idealista, un manipolatore, un uomo di una generosità infinita, un pessimo padre, un innamorato capace di mettere a repentaglio l’intero universo pur di fare ammenda. Non ho memoria di un altro protagonista di un racconto di fantascienza in grado di affastellare così tanti errori e decisioni sbagliate nell’arco di una storia. Remender e Scalera tratteggiano un personaggio così complesso da non richiedere una risoluzione tradizionale, facendoci solo credere che abbia preso coscienza di se stesso.
Arrivati all’ultima pagina di Black Science ci si rende conto di come McKay sia una di quelle persone odiose che non cambiano mai, non importa quanto geniali possano essere. E questo lo pone al di fuori di ogni possibile lettura dell’eroe, quale non è in nessuna misura. Chi cambia davvero è il cast che gli fa da contorno, praticamente una diramazione della sua ombra nei primi volumi e, via via, sempre più protagonisti. Uomini e donne destinati a passare l’inferno per seguire le visioni del loro leader che, col tempo, diventeranno guerrieri, principesse, salvatori. Eppure questi co-protagonisti non fanno che dare seconde possibilità a McKay. Come se fossero rinchiusi in un eterno loop di incertezza e paura.
In equilibrio tra psicologia e adrenalina
A conti fatti Black Science è una serie dove è il realismo psicologico a farla da padrone. Ci sono salti dimensionali, creature di ogni tipo e assurdità a getto continuo, ma è la severità dell’approccio all’umanità dei personaggi a essere predominante. Ogni giorno si pongono davanti a noi miriadi di scelte. Alcune potrebbero cambiarci la vita, altre non hanno il minimo peso. E non è detto che la nostra capacità di valutare le une e le altre sia così attendibile come ci aspettiamo. Continuiamo a ripetere gli stessi errori mentre annaspiamo con insicurezza verso quello che pensiamo di volere. Black Science parla di scelte sbagliate, e delle scelte ancora più sbagliate che si fanno per mettere una pezza agli errori appena commessi.
Della paura di prendere determinate strade, della forza che ci viene richiesta per scendere a compromessi, dei trionfi che non riusciremo mai a raggiungere accettandoli. Del passato che ci forma ma da cui dovremmo prendere le distanze, del presente su cui non ci concentriamo fino a quando non è troppo tardi e del futuro che pensiamo di volere. Messa così, il rischio poteva diventare un altro: avvitarsi nello psicologismo. Ma ecco quindi l’idea brillante che rende la tensione interna a Black Science qualcosa di unico: raccontiamo i crucci dell’ingresso nell’età adulta – perché di quello si parla – attraverso una narrazione iperbolica e adrenalinica, dove tutto è portato all’eccesso. E qui entrano in ballo Scalera, White e Moreno.
Prendete un fumetto di chiara estrazione anni Novanta – quando le vignette dovevano per forza di cose urlare il più forte possibile – epuratelo da tutte le brutture ipertrofiche da quattordicenne non sveglissimo – in primis: tettone e muscoloni – e pensatelo come un ginepraio di linee cinetiche e spigoli dritti in faccia. Infine, aggiungete quello che vi immaginate possa rendere una tavola qualcosa di ricco e travolgente, al punto da suggerirvi la curiosità per un viaggio tra dimensioni alternative.
La fantascienza secondo Scalera
«Il segreto sta tutto nelle linee compositive», ci spiegava lo stesso Scalera in occasione dell’uscita del nono volume. «Nell’imparare a gestire l’occhio umano e impare a giocarsi questa cosa all’interno del disegno. Quando lavoro a una tavola penso sempre a un vecchio gioco del passato. Era una sorta di scatola con il vetro dove c’erano delle asticelle su cui doveva passare una biglia e tu dovevi inclinare il piano per far passare la sferetta nei punti giusti. Penso che la pallina sia lo sguardo del lettore e sul suo tracciato devono cadere le cose fondamentali del racconto. Io non faccio altro che guidarti con le linee di composizione. Quindi se parto in alto a sinistra, poi ti porto di qua, poi con questa vignetta ti porto giù. Faccio sempre questo tipo di gioco così il passaggio da una vignetta e l’altra è meno brusco, proprio perché naturalmente sto portando il tuo occhio a muoversi come dico io. Anche per confluire energia. Linee di costruzione o movimenti che portino a muovere il tuo occhio in automatico così con il tuo sguardo sei tu che stai creando il movimento. In realtà è solo ed esclusivamente una questione di linee compositive.»
Per oltre mille pagine Scalera non si è risparmiato, dando corpo a una sceneggiatura che ha fatto dell’accumulo la sua forza principale e rendendola qualcosa di furioso, quasi sfiancante. Non c’è “grazia” in queste pagine. Mentre Saga fa di tutto per vendersi come un’alternativa alla fantascienza da fumetteria – anche a livello estetico – Black Science ne abbraccia pienamente lo spirito “crasso” e diretto, mettendolo in scena per quello che è. Prima che la storia prenda la svolta definitiva verso il gran finale, la struttura è, come abbiamo detto, quella di qualche vecchia serie televisiva di fantascienza. A ogni numero abbiamo nuovi popoli, nuovi mondi, nuove minacce. Il più classico dei monster of the week.
Per una volta il design generale evita in ogni modo la strada della sobrietà, favorendo una direzione artistica che riesce a unire l’anarchia della cara vecchia taverna di Mos Eisley con la ricerca dei videogame di ultima generazione (penso, per esempio, alla direzione artistica di Joseph Cross per la Bungie). Si tratta di un lavoro di worldbuilding davvero notevole, che ha richiesto uno sforzo non da poco anche a livello organizzativo.
«Il segreto sta tutto nelle linee compositive»
Matteo Scalera
«All’inizio c’è da fare tanto studio preparatorio. Bisogna parlare molto di come si vuole che le cose escano, di come le si vuole far arrivare al lettore», ci ha raccontato Scalera. «Poi, poco alla volta, i meccanismi si oliano, c’è meno bisogno di studiare le cose prima. Dopo un po’ ci si dà qualche indicazione a vicenda e basta. Ci si passa due o tre immagini e capisci al volo cosa piace a entrambi. L’unica cosa è che tutto è nelle tue mani e ci sono cose di cui te accorgi dopo. Come gestire le copertine, che devono uscire tre mesi in anticipo, quindi devi già avere un’idea della storia un po’ prima. Non hai un ufficio che si occupa di te, quindi ti devi gestire da solo. Infatti a un certo punto abbiamo assunto un editor che organizzasse i rapporti con la casa editrice, che controllasse che tutto fosse giusto, che ci desse le scadenze.»
Il risultato di tale processo è sotto gli occhi di tutti. In Black Science non c’è traccia di ironia, citazionismo o voglia di rivangare le vecchie glorie, solo il desiderio di continuare a sorprendere senza giocare sporco o, peggio, cercando di spacciarsi per quello che non si è.
Chiara in questo senso la scelta di optare per una colorazione pittorica, quasi da copertina di qualche vecchio romanzetto pulp. La matrice è esattamente quella: abbiamo azione, morti, creature mostruose, tecnologie impossibili. Ma soprattutto le cose spesso vanno parecchio male e il peggiore dei finali possibili è subito dietro l’angolo. Sono gli ingredienti di tanta letteratura di evasione che per decenni ha costituito l’ossatura dell’immaginario fantastico. A livello puramente stilistico una scelta così particolare dà corpo e fisicità ai disegni di Scalera, che evitano così di scivolare in una stilizzazione troppo accentuata.
«(Io e Dean White) Non avevamo mai lavorato assieme prima», ci ha spiegato il disegnatore. «All’inizio abbiamo dovuto calibrare un po’, perché Dean ha un tipo di colorazione molto forte, che tende a uscire, e lo stesso lo sono i miei lavori seppure in maniera differente. Sono molto definiti e hanno bisogno di un certo tipo di energia e di colorazione per funzionare. All’inizio abbiamo dovuto lavorare per fare in modo che questi due stili funzionassero assieme invece di prendersi a pugni, perché c’era anche questo rischio. Ero partito lavorando con tutte le scale di grigi e poi, dopo il primo numero che è fatto tutto così, dal secondo sono tornato a qualcosa di più tradizionale. Più linea, con dei riempimenti netti, perché Dean ha già un bisogno suo come artista di creare volumi. Gli ho lasciato più libertà dandogli un contorno che è andato a riempire.»
Tra spettacolarità e introspezione
La transizione da White a Moreno ha attenuato leggermente questo aspetto, optando per soluzioni un po’ più moderne ma comunque sempre il linea con quanto fatto nei numeri precedenti. Prima ancora di avventurarsi nella lettura, Black Science riesce a costruirsi un’estetica immediatamente riconoscibile. Indissolubilmente legata al fumetto popolare senza per questo scendere a compromessi con banalità di scelte troppo facili. Più che sull’innovazione fine a se stessa tutti gli sforzi vengono concentrati sull’intensità e sull’aderenza agli intenti della sceneggiatura, evitando di disperdere energie in arzigogoli inutili.
È stato lo stesso disegnatore a confermarcelo: «A livello compositivo, prima di Black Science, cercavo di utilizzare sempre il 100% di energia per ogni vignetta, e la lettura diventava molto stancante. Adesso ho imparato maggiormente a gestire i ritmi e quindi posso anche mantenere un piano visivo, un’angolazione di camera dritta molto semplice e molto banale. Devo prepararmi per quando arriverà qualcosa di importante e cominciare a muovere le cose in modo che ci sia una differenza di ritmo che il lettore colga, così che venga coinvolto in maniera diversa. Altrimenti è tutto uguale. Sei vai costantemente a 180 km/h non è una guida interessante, perché stai andando dritto in autostrada. Se invece cominci a metterci delle cose tecniche diventa una guida più interessante e ha un senso anche il percorso che stai facendo».
A qualche mese dalla sua conclusione e dopo qualche tempo passato a rileggerlo e rifletterci sopra, mi è più chiaro come Black Science abbia sempre giocato d’azzardo, finendo forse per scottarsi più del dovuto. L’aspetto da blockbuster mirabolante ha celato fin troppo bene il nocciolo di una serie che dalla fantascienza classica ha imparato soprattutto a parlare di argomenti enormi – penso al valore della scoperta in Star Trek – approcciandoli con finta leggerezza. Una sfida non da tutti. L’ennesima dimostrazione del valore di Remender come sceneggiatore, e una prova di talento da parte di Scalera, White e Moreno.
Un gioco di equilibrio lungo centinaia di pagine, sospeso tra spettacolarità e introspezione. Si tratta di un meccanismo forse troppo sottile per un fumetto dove si perde in fretta il conto di morti ed esplosioni. Così per molti Black Science rimarrà il fumetto hard sci-fi dove si visitano le versioni pazzesche della nostra realtà – come un episodio di Rick & Morty, ma più serioso – quando invece il punto del discorso è altrove. L’hype dell’esordio oggi è dunque sfumato. Ma sei anni e quarantatré numeri dopo, rimane la conferma che certe storie vanno al di là del bisogno di produrre e produrre, urlando sempre più forte.
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