Seduto su una delle panche vuote, Alex disegnava. Arrivati alla spicciolata, i fedeli di Lubbock, Texas, stentavano a riempire la chiesa, e il padre di Alex, il ministro Clark, si ritrovava a fare la predica ad appena una dozzina di donne e uomini appartenenti alla Chiesa unita di Cristo. Al suono del sermone, Alex copiava le copertine dei fumetti che preferiva: Action Comics, Superman o Justice League of America.
È questa comunanza tra testi sacri, che parlassero di Superman o Sansone, e l’atmosfera luddista e distesa della sua infanzia ad aver plasmato la carriera di Alex Ross, pittore prestato al fumetto che con appena due opere incentrate sul passato glorioso degli eroi Marvel e sulle visioni del futuro apocalittico di quelli DC Comics (Marvels e Kingdom Come) ha introdotto un nuovo modo di guardare al fumetto supereroistico.
I suoi fumetti dipinti hanno contribuito, da una parte, a sdoganare opere che recuperavano un certo disegno accademico e, dall’altra, a reintrodurre positività, restaurando la figura del supereroe come essere distante da noi, riportandolo alla dimensione di simbolo e ispirazione che Ross riteneva caratteristica fondamentale di quei personaggi.
Tecnica e teoria dell’infanzia
Nato a Portland nel 1970, ma trasferitosi nel Texas occidentale a otto anni, Nelson Alexander Ross era un ragazzino quieto che riempiva le giornate colorando le figure a matita che gli disegnava la madre Lynette, casalinga con un passato da illustratrice pubblicitaria. Minore di quattro figli, era spesso solo. I fratelli e le sorelle erano molto più grandi di lui e in quel di Lubbock c’era penuria di bambini, così non gli restava altro che svagarsi con le matite, i fumetti e la televisione.
Nel programma The Electric Company, una versione per grandicelli dello show educativo Sesame Street, c’era un segmento girato dal vero intitolato Spidey Super Stories, in cui Spider-Man viveva avventure supereroistiche (nei limiti dei budget televisivi). L’attore vestito da Spider-Man non parlava, e i dialoghi erano stampati su nuvolette di cartone, come nei fumetti, per incoraggiare gli spettatori a leggere.
«Era strano e innaturale, ma entusiasmante», ricorda Ross. «Il costume vibrava di colore, era vivo.» Per quanto umile, era il primo Uomo Ragno in tre dimensioni che vedeva. «Il corpo completamente coperto, nessun lembo di pelle esposto alla luce del sole. Spider-Man incarnava l’idea stessa di design, il metro con cui avrei misurato tutto il resto.» Disegnare Spider-Man o essere Spider-Man: nell’elenco dei sogni rubricati da Ross non c’era spazio per altro.
Anche le copertine pittoriche degli anni Settanta della serie The Rampaging Hulk, che si avvaleva di mestieranti come Ken Barr o Earl Norem, lo colpirono per il grado di realismo che poteva raggiungere il disegno. «Non lo potevi rimpiazzare con nessun attore, per quanto muscoloso o truccato», ha ricordato Ross. «Mi fece capire cosa potevi realizzare con il disegno.»
Ma furono soprattutto gli eroi DC ad appassionarlo, perché «hanno un senso della moralità che non cambierà mai, non saranno mai imperfetti, combattono per i loro ideali. Affrontano questioni morali come la religione non sa fare». Il cartone I superamici, la Justice League of America di Dick Dillin e, poi, George Pérez, o Swamp Thing di Bernie Wrightson, trovato in un mercatino dell’usato a nove anni. «Ebbe un impatto drammatico sulle mie credenze. Le ombre di Wrightson erano inusuali. Di solito i disegnatori non facevano molto oltre al contorno. Non c’erano disegnatori specializzati nelle ombre.»
Cullato da questi maestri, disegnava i mostri con il chiaroscuro di Wrightson e i supereroi alla maniera nitida e chiara di Pérez. «Sono diventato un disegnatore realista perché ero abituato a vedere personaggi compiuti, non figure in due dimensioni contornate da inchiostro ma il più graficamente realizzate possibili.»
In principio fu Terminator
Per aiutare economicamente la famiglia, la madre di Alex si rimise a lavorare, mostrando involontariamente al figlio che poteva far diventare la sua passione un lavoro, non necessariamente nel fumetto ma comunque nel disegno. Ross si iscrisse all’American Academy of Art di Chicago, la stessa dove era andata Lynette. Alla scuola d’arte apprese la lezione più grande di tutte: la copia dal vero. Prodigio nel replicare il disegno umoristico (a dieci anni era in grado di imitare Peanuts e tutte le altre strisce viste nei quotidiani), stentava nello stile realistico perché tutto ciò che disegnava con quel tratto derivava da ricordi o impressioni mentali.
Nella prima settimana di disegno dal vero, Ross imparò che, ciò che per lui erano intuizione ed esecuzione, per gli altri erano rimuginazioni continue e sforzo: «Ebbi la sensazione che tutto fosse normale, “Okay, posso disegnare una versione abbastanza ben proporzionata del modello, con un buon grado di accuratezza”. Capii che si trattava di un traguardo considerevole quando tutti gli altri non lo raggiunsero».
L’assenza di modelli si vede nelle pagine di prova che Alex Ross realizzò per la Marvel nel 1990. Nel tentativo di disegnare uno scontro tra l’Uomo Ragno e Daredevil, lavorò senza riferimenti, cercando di mettere su carta immagini che funzionassero senza l’appoggio di modelli dal vero. «Quelle pagine mi fecero capire che non potevo disegnare partendo da zero ma dovevo guardare alla vita.»
Capelli lunghi e trasandatezza grunge (non si direbbe, dato che oggi ha l’aspetto di un banchiere distinto), Ross aveva smania di lavorare e, seguendo di nuovo le orme materne, si diplomò in fretta al corso d’illustrazione più breve, «una cosa impossibile da fare ora», per poi restare a Chicago a cercare un impiego.
Nel 1989 fu assunto come storyboardista dall’agenzia pubblicitaria Leo Burnett, una delle firme più prestigiose del settore (responsabile di campagne storiche per McDonald’s, Kellogg’s, Malboro, Pillsbury Company, B&G Foods e Perrier). Durante la sua prima settimana di lavoro ricevette da un collega che lavorava per una casa di videogiochi un’offerta per realizzare illustrazioni: «erano tutti lavori che, nella mia testa, mi avrebbero portato ai fumetti», spiegò in un’intervista del 2003 a IGN. «Avevo un tale rispetto per i fumetti da aspettarmi che diventare un fumettista fosse un’impresa difficile.»
Nel frattempo, i supereroi non erano più quelli che Ross aveva imparato a conoscere. La Justice League aveva preso una svolta umoristica inaspettata e a dominare le classifiche di vendita c’erano gli X-Men, le cui storie non avevano mai catturato l’attenzione di Alex. C’erano nuovi scrittori e disegnatori che stavano rivoltando il modo di raccontare un fumetto. Le storie erano sempre più cupe, i design sempre più esagerati.
Con il compagno di stanza si inventò la storia di una ragazzina con poteri paranormali che vive in una fattoria. Un dramma rurale che i due volevano proporre a First Comics, casa editrice con sede a Chicago. Invece, il debuttò di Alex Ross finì per essere Terminator: The Burning Earth. Un altro editore di Chicago, Now Comics, aveva offerto il progetto a Jim Wisnewski, in forze alla Burnett, che lo passò ad Alex. Due furono le ragioni che lo spinsero ad accettare l’incarico: avrebbe potuto mettere un primo, timido piede nel settore ed era innamorato di Linda Hamilton. Senza contare che si era ripromesso che avrebbe iniziato a lavorare nel mondo dei fumetti prima di compiere i vent’anni. Ora non era più sulle panche della chiesa di Lubbock. Era in un appartamento di Chicago, di ritorno dal lavoro presso la Burnett, a dipingere l’esoscheletro di Terminator fino a notte fonda.
Dopo Terminator tornò a lavorare a tempo pieno per la Burnett. Era consapevole che nessuno l’avrebbe chiamato a disegnare fumetti: le sue tavole dipinte erano artefatti di altri tempi, il guazzo e il suo tratto realistico non potevano reggere il confronto con il segno urlato e la colorazione digitale impiegata da Marvel e DC. The Burning Earth era stato un lavoro tedioso su cui non aveva avuto il minimo controllo creativo. Ross scoprì che non gli piaceva disegnare sceneggiature altrui senza venire coinvolto nel processo decisionale. Desideroso di proporsi, iniziò a elaborare idee. Ne aveva una per una serie antologica che raccontava il passato dell’universo Marvel in stile realistico, con la pittura.
Meraviglie e regni
The Burning Earth attirò l’attenzione di Kurt Busiek, che all’epoca stava curando per Marvel Comics una serie di fantascienza chiamata Open Space. La storia affidata a Ross, Vicolo cieco, non vide la luce perché Open Space chiuse prima di poterla pubblicare (sarebbe stata recuperata dalla rivista Wizard anni più tardi).
L’immagine che fece partire tutto fu la Torcia Umana. «Ho sempre amato la Torcia Umana originale del 1939; è il personaggio che ha tenuto a battesimo la Marvel, il loro Superman. E il mio pensiero era: se riesco a renderlo realistico, se riesco a risolverlo, otterrò qualcosa che aprirà la mente delle persone nei confronti dello stile pittorico applicato ai supereroi.»
Ispirato da una sequenza di Arkham Asylum in cui un paziente subisce l’elettroshock, Ross iniziò a studiare le fotografie stampate in negativo, che davano l’illusione della combustione. Non gli bastava che le fiamme fossero intorno a lui ma che il fuoco scaturisse dall’interno del corpo. Realizzò una storia breve sceneggiata da Steve Darnall sulla genesi del personaggio (quella che poi venne data alle stampe come numero zero di Marvels) e la incluse in un pacchetto di presentazione che propose prima a Busiek e poi alla Marvel.
Busiek, memore del fallimento di Open Space, gli disse che le antologie non vendevano e che avrebbero dovuto creare una storia cornice che tenesse insieme tutti i racconti brevi che Ross desiderava narrare. «E poi il tuo stile è grandioso», appuntò lo sceneggiatore, «dovresti disegnarle tutte tu». Per aiutare Ross a crearsi una reputazione, Busiek passò la bozza di Marvels a Eclipse Comics, che lo volle per una storia breve di Miracleman, e poi a Clive Barker che lo chiamò per la serie Hellraiser.
Dopo numerose proposte agli editor Marvel, Marvels assunse la forma che conosciamo, grazie agli input di Busiek (che decise di rendere il protagonista un fotoreporter, così da giustificare l’iperrealismo dei disegni) e dei supervisori. Il team creativo poté così raccontare la vita del fotografo Phil Sheldon, intento a documentare alcuni dei momenti cruciali dell’universo Marvel: dalla comparsa della prima Torcia Umana all’apparizione dell’Uomo Ragno, dallo scontro tra i Fantastici Quattro e Galactus all’arrivo degli X-Men.
Le tavole della Torcia Umana fecero il giro degli uffici e arrivarono sulla scrivania dell’editor DC Charles Kochman, alla ricerca di pittori per illustrare la copertina del romanzo Superman: Doomsday & Beyond: «Non avevo mai visto un’illustrazione di fumetti così realistica. Era come se quell’uomo fosse davvero avvolto dalle fiamme. Nessuno dipingeva supereroi, o comunque non come faceva Alex». Il libro – il primo lavoro di Alex Ross per DC Comics – uscì nell’agosto 1993. Pochi mesi dopo toccò al primo numero di Marvels.
Grazie all’atmosfera nostalgica e al lavoro di Ross, Marvels spaccò il fumetto supereroistico in due, generando una schiera di emuli che cercarono di riprodurne l’effetto amarcord con sceneggiature inadatte o tavole pittoriche di poco conto. Alex Ross non era il primo a proporre uno stile pittorico e realistico, ma lo fece, in ambito supereroistico, meglio di chiunque altro, facendo sembrare il suo stile una novità. Come ha spiegato lui stesso, disegnare supereroi in quello stile aveva un senso, disegnare Vampirella no, perché già c’erano stati disegnatori in grado di dipingerla al meglio. «Era come se riuscissimo a vederli davvero per la prima volta» ha scritto Chip Kidd in Mythology.
Kingdom Come continuò poi il lavoro di Marvels, aggiungendoci una lettura biblica dei supereroi, molto più in tema con l’eredità storica di DC Comics – da sempre l’editore che guardava dall’alto i propri lettori, in contrapposizione alla Marvel, immersa nel flusso della contemporaneità. Sceneggiata da Mark Waid, l’opera racconta lo scontro tra gli eroi del passato ormai attempati e una nuova generazione di superesseri spregiudicati.
Concluso Kingdom Come era ormai chiara la poetica di Ross, che con questi due lavori si era definitivamente imposto come soluzione e superamento della linea di Image Comics. «I miei disegni erano una risposta a quello che stava producendo il mondo dei fumetti negli anni Novanta, in parte» spiegava ad A.V. Club. «Quello stile esagerato che andava per la maggiore e che, a mio avviso, ha quasi distrutto l’intero settore, in termini di immaginario. Lo stile di disegno realistico era stato degradato a un bene non più necessario, in favore degli stili estremi dei vari Todd McFarlane e Rob Liefeld.»
Alla fine degli anni Novanta, dopo la parentesi di Uncle Sam per Vertigo/DC Comics, il racconto dell’omonimo simbolo americano che prende vita e scopre le storture dell’America clintoniana, Ross tornò a Superman, puntando ancora una volta sul suo formato preferito, l’antologia, questa volta declinato in una dimensione tabloid.
Sui testi di Paul Dini, realizzò una serie di volumi autoconclusivi (Superman: Pace in terra, Batman: Guerra al crimine, Shazam: Il potere della speranza, Wonder Woman: Lo spirito della verità, JLA: Libertà e giustizia) che raccontavano l’essenza dei personaggi più importanti dell’editore e di come questi rappresentino valori che ispirano la gente, invece che supereroi con la soluzione in tasca. Pace in terra racconta come Superman cerchi di risolvere il problema della fame nel mondo. Non può, deve agire come esempio. Le migliori intenzioni non sono sempre ricompensate, e non sempre ti portano al bene. «La speranza era che chiunque potesse leggere quei fumetti, anche ad anni di distanza e in qualsiasi contesto, e capirli e apprezzarli.»
Da Marvel a DC e ritorno
Terra X nacque come scherzo. La rivista Wizard gli chiese una «versione Marvel» di Kingdom Come, e Alex Ross colse l’occasione per «distrarre i lettori dal seguito di Kingdom Come che DC Comics stava mettendo in piedi». Dopo aver disegnato un Uomo Ragno imbolsito e i figli della Cosa, Ross pensò che avrebbe davvero potuto scrivere una versione ancora più drastica e suntuosa della serie DC in salsa Marvel, proiettando i lettori in un futuro in cui tutti gli esseri della Terra hanno un qualche superpotere. «Terra X è in parte una reazione a Kingdom Come. Volevo provare a portare quel senso di destino finale alla Marvel, creare l’ultima grande storia Marvel che però non finisce.»
La serie, sceneggiata da Jim Krueger e disegnata da John Paul Léon, faticò a entrare nel cuore dei lettori e ristagnò nelle vendite. Andarono meglio le raccolte in volume, ma la Marvel preferì non puntare sulle idee ambiziose di Ross e Krueger, che di fatto stavano creando il fumetto fuori dal controllo dell’editore. «Qualunque cosa provenisse dai loro incubatori avrebbe avuto il supporto della compagnia, quindi per avere il loro appoggio ci sarebbe dovuto essere il loro marchio. Come se potessero dormire la notte solo sapendo… Non so, “Ho contribuito a creare quel fumetto”.»
Terra X non lasciò lo stesso segno di Marvels e Kingdom Come perché la narrazione – verbosa e didascalica – si complicò di vicende e fatti in maniera spropositata, tanto da far scrivere a un recensore: «Speravo che il numero successivo sarebbe stato un diagramma di flusso per raccapezzarmi tra tutti i personaggi».
Alex Ross interruppe i rapporti con la Marvel e si imbarcò nel blockbuster apocalittico Justice, in cui la Justice League of America si scontra con la Legione dell’Ingiustizia, e poi in una breve gestione di Justice Society of America. Di entrambi i lavori curò il soggetto, i design e – in parte – i colori, lasciando sceneggiature e disegni ad altri. Dipingere fumetti si scontrava con le scadenze e l’iperproduttività dell’industria. Refrattario alle versioni contemporanee di Batman e soci, lavorava contro la corrente editoriale, ritagliandosi uno spazio in cui proporre le versioni classiche. A un certo punto gli editori cambiarono idea e, dice Ross, «si concentrarono su come far lavorare i loro talenti su progetti che avessero un’attrattività generalista».
Questa serie di fattori lo portò all’allontanamento dalle major a metà degli anni Duemila. Richiestissimo per progetti di cartellonistica o design per cinema, musica, televisione e videogiochi (Assassin’s Creed III, Watch Dogs, Spider-Man, Spider-Man 2, Unbreakable, il pitch per una serie a cartoni su Shazam, le copertine per TV Guide e gli Anthrax), si fece corteggiare da una realtà editoriale più piccola ma in sintonia con il gusto di Ross: Dynamite Entertainment, che lavorava sui recuperi di vecchie proprietà intellettuali. Per la casa editrice scrisse, progettò design e supervisionò Kirby: Genesis, Project Superpowers, Bionic Man, Black Terror, Lone Ranger, Last Phantom e altri.
Grazie a un progetto crossover tra Dynamic Forces e Marvel (Avengers/Invaders, altro tuffo nel passato), Ross ha rimesso piede in Marvel per curare, a partire dal 2015, la quasi totalità delle copertine di testate come Avengers, Amazing Spider-Man, Secret Wars, Captain America e The Immortal Hulk.
Per la gestione di Capitan America scritta da Ta-Nehisi Coates, in particolare, Ross ha realizzato alcune delle migliori copertine della sua carriera. Forse perché ispirato dal personaggio, il «Superman della Marvel», o perché le storie lo hanno stimolato a«rappresentare l’espressione di un’urgenza emotiva, del senso di dolore e resistenza che incarna Cap in quanto simbolo del nostro paese».
Arrivato al mezzo secolo di vita, e dopo trent’anni di carriera, Alex Ross è tornato alle sue opere marvelliane, Marvels e Terra X, prima partecipando alle commemorazioni della storia realizzata con Busiek con un nuovo epilogo e una serie che riprende l’idea originaria del graphic novel (Snapshots) e poi varando Marvels X, mash-up tra Marvels e Terra X. «La mia fortuna è quella di aver lavorato solo a progetti che mi ispiravano. E ogni singolo progetto a cui ho partecipato è in qualche modo partito da una mia idea.»
Le cose che lo impressionano di più sono ancora quelle che ha visto da bambino. Il film di Flash Gordon, i fumetti degli anni Settanta e, prima ancora, quelli della Golden Age, «qualunque cosa abbia un certo peso specifico in termini di Storia o importanza. È molto difficile appassionarmi a qualcosa che ho scoperto da adulto».
Per questo i suoi ideali estetici rimandano a un mondo arcaico, volutamente demodé e caricato di una magniloquenza che funziona bene per Superman o Batman, ma stona con eroi più umani come Spider-Man o perfino sfiora il ridicolo con figure pulp come l’Uomo Mascherato. È quello stesso gusto che sta alla base della poetica di Marvels e Kingdom Come: il suo Superman è quello di Joe Shuster, fisico da culturista di primo Novecento e costume da circense, Martian Manhunter ha la fronte sporgente che Ross ricordava dalle storie di Mike Nasser lette negli anni Settanta, Wonder Woman le fattezze di Lynda Carter e l’unico Spider-Man che vorrebbe disegnare, fosse per lui, sarebbe quello con il costume grinzoso di Electric Company che lo aveva fatto innamorare del personaggio.
È talmente attaccato a quelle idee estetiche da considerarle crismi. Quando disegnò la copertina per il libro Superman: Doomsday & Beyond, pubblicato nel periodo in cui Kal-El sfoggiava un sontuoso mullet, si rifiutò di affibbiargli quell’acconciatura (e non era ancora un autore che si poteva permettere certe pretenziosità). In Justice e Justice Society of America, Superman aveva un costume umile, la faccia di ghisa e l’addome morbido. Perfino la Trilogia X, pur mostrando visioni future dell’universo Marvel, giocava con un certo stile retrò nei dettagli dei design. Le stoffe, le finiture, le superfici avevano l’opacità, la brillantezza di un mondo che non aveva ancora scoperto la cucitura al laser e i pantaloni in PVC.
In vista del loro reboot fumettistico, nel 2017 Alex Ross ha ripensato i Fantastici Quattro. Il pitch non è andato a buon fine ma, parlandone in un’intervista, il disegnatore ha dichiarato di aver cercato di esaltare «le implicazioni anni Sessanta, la vibrazione pop art, le connessioni temporali associate a quel periodo, a livello estetico. Se si recuperasse l’aspetto kirbyano di questi personaggi (una cosa mai fatta prima) allora sarebbe interessante».
«L’intento di molti editori è reinventare per un pubblico moderno che vuole una versione contemporanea di un certo personaggio, invece che la versione del loro nonno» ha detto. «Ho sempre pensato che ci sia una bellissima eloquenza nel connettere due pubblici attraverso un design progettato 50, 60, 75 anni fa. Non c’è bisogno di alterare qualcosa per i nuovi lettori solo perché il mercato dice che tutti devono essere giovani e belli. Mi piace pensare che il mio lavoro negli anni abbia mostrato questi personaggi con il peso dei loro anni.»
Oltre a essere un’allegorica biblica, Kingdom Come è una critica a un certo tipo di fumetto che spadroneggiava negli anni Novanta. Ross la descrisse come «la vecchia guardia che prende a calci le nuove leve». Non per niente, il cattivo della storia, Magog, traeva ispirazione dai personaggi esagerati di Rob Liefeld, uno dei protagonisti della decade.
Sono ormai anni (decenni?) che Ross non disegna da capo a piedi un fumetto lungo. «Il mio lavoro adesso è fare il copertinista o il direttore artistico di un qualche progetto a cui contribuisco in vari modi. Vorrei dedicarmi a un progetto e fare solo quello, ma non ci sono mai state le condizioni finora e, quando lo farò, vorrei che fosse una cosa interamente mia. Un giorno, se vivrò abbastanza a lungo, lo farò.»
Tutta questa fretta non sembra averla, comunque, sapendo di aver sempre un po’ stentato nella costruzione della tavola, dove raramente ha trovato un equilibrio tra la magniloquenza e l’atteggiamento posato. «C’è una certa rigidità nei miei lavori», ammise a IGN nel 2007, «che si intona bene con Superman e la Justice League. Mentre la Marvel ha un animo caotico che non sempre riesco a cogliere al meglio».
Come quando aveva otto anni, Alex Ross continua a nascondersi tra i banchi. Non partecipa alle fiere, manda sempre il suo team a vendere la sua immagine (e i suoi originali). Uno scambio di battute in chiusura di una partecipazione al podcast Comic Book Central rende l’idea del tipo di vita che gli piace condurre:
«Vuoi darci i tuoi contatti social?»
«Ehhh… C’è della gente che li gestisce per me, non saprei darvi i nominativi esatti.»
«D’accordo, vuoi dirci dove ti vedremo prossimamente?»
«Da nessuna parte».
Nessuna parte, tranne i fumetti.
Leggi anche:
- 10 fumetti dipinti con i supereroi
- Marvelocity: Alex Ross, più reale del reale
- Marvels: 20 anni dopo. Intervista a Kurt Busiek e Alex Ross
Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui.