Uscito trent’anni fa, La Sirenetta è il cartone animato che diede il via ufficiale al Rinascimento Disney, quel periodo in cui lo studio d’animazione si scrollò di dosso le zavorre degli insuccessi passati e tornò a influire sull’immaginario collettivo con i propri film, cambiando drasticamente non solo la compagnia ma un’intera industria.
Era iniziato tutto negli anni Settanta, periodo in cui l’animazione (che all’epoca era sinonimo di Disney, vista la totale assenza di concorrenti alla pari) era a un passo dalla tomba. Il vuoto lasciato da Walt Disney era stato colmato dai Nine Old Men, il gruppo di animatori che gli gravitava attorno dai tempi di Biancaneve. Questi però erano vicini alla pensione, e il ricambio generazionale faticava a ingranare.
All’inizio degli anni Ottanta la compagnia iniziò a perdere i pezzi: nel 1980 Red e Toby – Nemiciamici dovette essere posticipato di sei mesi perché il regista Don Bluth, stanco dell’ambiente Disney, se n’era andato a fondare uno studio tutto suo, portandosi dietro metà degli animatori impiegati dalla produzione; inoltre, il CEO Ron Miller si dimise in seguito a dissidi interni al consiglio d’amministrazione causati da una tentata scalata di Disney da parte dell’imprenditore Saul Steinberg.
A questo punto, con un organico da ricostruire, si cercarono dei sostituti. Fino ad allora, l’amministrazione Disney era rimasta un affare di famiglia, fuori dai grandi circoli hollywoodiani e chiusa in una mentalità quasi rurale, da piccolo paese di confine con sceriffo e speziale. Il fatto che ora sarebbero potuti montare sul carro veri e propri manager in giacca cravatta e Mercedes scosse non poco l’ambiente.
Nel 1984, Michael Eisner diventò il nuovo amministratore delegato, mentre Frank Wells assunse il ruolo di direttore operativo. Eisner aveva mietuto successi alla Paramount con I predatori dell’arca perduta, mentre Wells aveva lavorato per più di un decennio in Warner Bros. Insomma, i due erano Hollywood. Dirigente sui generis, laureato in letteratura inglese, Eisner era considerato un creativo fumantino e di carattere, Wells un metodico da cui andare in caso di problemi.
Per gestire il reparto cinematografico (film e animazione), Eisner scelse Jeffrey Katzenberg, che durante la sua tenuta alla Paramount, dove Eisner l’aveva conosciuto, si era fatto notare per il suo fiuto e le sue capacità da PR navigato. Golden Retriever, lo avevano soprannominato. Ambizioso, testardo, egocentrico, Katzenberg si impose sullo studio d’animazione con uno stile d’assalto, uno sconsiderato micromanagement e un rispetto nullo per il lavoro degli artisti. Era intuitivo, pressante e poco acculturato (durante la lavorazione de La bella e la bestia, suggerendo di cambiare un dettaglio scenografico, disse: «Fatelo più francese, tipo Botticelli»), ma sapeva intercettare il gusto dell’americano medio.
Una delle prime iniziative che Eisner e Katzenberg avviarono fu il Gong Show, una riunione a cui chiunque – dal regista allo spazzino – poteva proporre un’idea. Se Eisner suonava il gong, questa veniva cestinata, altrimenti si passava alla fase di sviluppo. Oliver Twist coi cani? Approvato. L’isola del tesoro nello spazio? Ragionamoci su. La versione Disney di un personaggio storico americano? Ha già scritto “successo” in fronte!
A una di quelle riunioni, nel gennaio 1985, Ron Clements propose di adattare la fiaba di Hans Christian Andersen La sirenetta, che fu inizialmente rifiutata perché troppo simile al film Splash – Una sirena a Manhattan, uscito l’anno prima. Decenni prima, l’artista Disney Kay Nielsen si era cimentato nella stessa impresa ma si era scontrato con le difficoltà di trovare una linea narrativa che deviasse dal tragico finale della fiaba.
L’idea fu però ripescata da Katzenberg, che commissionò a Clements e John Musker – coppia di registi che aveva diretto Basil, l’investigatopo – una prima stesura esplorativa.
Nel frattempo, entrò in scena Howard Ashman. Librettista, paroliere e commediografo, Ashman aveva scritto insieme al compositore Alan Menkel i musical Dio la benedica, Mr. Rosewater (dall’omonimo romanzo di Kurt Vonnegut) e La piccola bottega degli orrori, quest’ultimo un grosso successo di critica e pubblico, tanto da venire adattato al cinema da Frank Oz. A metà degli anni Ottanta, però, Ashman aveva scritto Smile, un musical che non aveva incontrato i favori delle platee di Broadway. Su suggerimento di David Geffen, Katzenberg lo convinse a ricaricare le batterie a Los Angeles, introducendolo al mondo Disney. Qui, scoprì un mezzo espressivo, l’animazione, che avrebbe accolto la forma del musical meglio delle rappresentazioni dal vivo.
Quando venne a sapere che lo studio stava sviluppando La sirenetta, Ashman propose di farlo diventare un musical e si candidò, coinvolgendo Alan Menkel, per scriverne le canzoni. Tagliante e poco accomodante, non si limitò a quel ruolo ma intervenne in ogni fase della produzione con idee puntuali, dal casting al design dei personaggi. Propose di far diventare Sebastian un granchio giamaicano, introdusse la musica calypso nella pellicola, plasmò il personaggio di Ursula come una via di mezzo camp tra Joan Collins e la drag queen Divine e mise mano alla sceneggiatura in un paio di punti cruciali, come l’addio finale tra Ariel e Tritone. In pratica, rese il cartone (a suo modo) sovversivo e contemporaneo.
Il film fu realizzato da una nuova generazione di talenti come Roger Allers, Glean Keane, Mark Henn, Ed Gombert e Andreas Deja, che avevano lavorato sotto la guida dei Nine Old Men e da essi si fecero ispirare. Ripresero, per esempio, l’abitudine di usare riferimenti dal vivo per rafforzare le pose dei personaggi, girando alcune scene con attori professionisti.
La produzione del film fu solcata anche dalla personalità sconquassante di Jeffrey Katzenberg, e dei suoi consigli su come migliorare la storia, a volte un po’ ingenui ma sempre in grado di tenere il polso della contemporaneità o di cogliere il sentire comune. Katzenberg si impuntò, senza riuscire ad averla vinta, sul colore di capelli di Ariel, il rosso. Lui la voleva bionda, dicendo che «lo sanno tutti, le sirene sono bionde!», forse influenzato dal successo di Splash – Una sirena a Manhattan con protagonista la biondissima Daryl Hannah. I due registi, Ron Clemens e John Musker, avevano invece scelto il rosso perché complementare al verde della coda (e anche perché, nelle scene buie, il rosso restava cromaticamente stabile, mentre il biondo virava in una tinta sgradevole).
Katzenberg volle addirittura tagliare la canzone Part of Your World perché, durante una proiezione di prova con il pubblico, un bambino passò il tempo a raccogliere i pop-corn che gli erano caduti invece che a guardare lo schermo. Toccò a Glean Keane – il supervisore alle animazioni di Ariel – di perorare la causa e convincere il dirigente che quella sequenza era il cuore pulsante del film. Katzenberg non transigé invece sul fatto che il principe Eric dovesse essere un belloccio dai tratti moderni. Disse agli animatori di guardare agli attori dell’epoca: «Ragazzi, ve lo dico io, se fossimo nel Medioevo, Tom Cruise sarebbe un principe».
La Sirenetta è un film che soffre di una sceneggiatura più interessata alle meccaniche della storia che alla coerenza dei personaggi e che chiama in causa spesso la sospensione dell’incredulità. Ariel, per esempio, quando perde la voce, passa dall’essere una ragazza estroversa e testarda a una creatura docile e remissiva solo per esigenze di copione. Ciononostante, costituiva un passo avanti rispetto all’andamento sbracato dei precedenti cartoni Disney.
Eppure, all’alba del suo debutto nei cinema, non c’erano grandi aspettative sulla sua performance al botteghino. «I film per bambine non incassano» diceva Katzenberg. Per i due registi La Sirenetta era un film che avevano realizzato perché, da spettatori, avrebbero voluto vederlo. Il fatto che la protagonista fosse una ragazza non lo connotava «per bambine» più di quanto l’angolo di un libro connotasse quel libro come letteratura.
Inoltre, i cartoni avevano la nomea di essere prodotti di nicchia, quella dei bambini, che non avrebbero potuto superare una certa soglia fisiologica di incasso. «Noi pensavamo che avrebbe potuto competere con i film dal vivo se lo avessimo affrontato con la stessa apertura mentale» ribadì Clements. «Un gruppo di noi single andava ogni venerdì a vedere l’ultimo grande film in uscita. Pensavo avessero il potenziale per essere visti da un pubblico più grande. I film Disney sono film per tutti, io non li ho mai pensati come film per bambini. Questo il pubblico americano forse non lo concepiva».
Lo stile guardava ai film in live-action: nella sequenza di Part of Your World, la cinepresa ruota attorno ad Ariel, si avvicina e allontana, nel climax finale lo spettatore viene sballottato tra i flutti del mare, si cercava insomma di svincolarsi dalla staticità delle inquadrature tipiche dei cartoni. Non era un prodotto soporifero che si teneva in piedi solo grazie all’animazione e alle gag di animali antropomorfi, e anche gli adulti potevano trarne un qualche divertimento nel guardarlo. La Sirenetta è certamente una storia di cose e persone giuste al momento giusto, ma, alla base, si fa forza di una scrittura e una messa in scena più pimpanti rispetto al passato.
Il film incassò 84 milioni di dollari, il 64% in più di Oliver & Co., il film Disney più remunerativo fino ad allora, e fu accolto calorosamente dalla critica: Roger Ebert, sul Chicago Sun-Times, scrisse che il film rivaleggiava con i grandi classici Disney. All’edizione di quell’anno dei Premi Oscar, ottenne tre candidature, concretizzandone due – miglior canzone (Under the Sea) e miglior colonna sonora; fu anche uno dei primi cartoni a essere distribuito in VHS, e la fame di oggettistica dei più piccoli fornì il volano per programmi di merchandising che avrebbero fatto la fortuna della compagnia.
Il Rinascimento Disney avviato da La Sirenetta si sarebbe concluso una decina d’anni dopo, ma la lezione del film resta valida anche oggi: storie raccontate con trasporto che sappiano parlare a tutti.
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