Sono pochi i fumettisti noti anche a chi di fumetti è quasi completamente a digiuno. Tra questi c’è Marjane Satrapi, l’autrice iraniana del long-seller autobiografico Persepolis: pubblicato nel 2000 e tuttora in vetta alle classifiche, divenuto anche film d’animazione, è considerato uno dei più importanti fumetti contemporanei, nonché uno dei 100 libri più rappresentativi del Ventunesimo secolo (secondo il Guardian).
La cosa curiosa è che quella che è considerata una delle più famose fumettiste contemporanee ha disegnato fumetti per un periodo brevissimo, dal 2000 al 2005, realizzando, oltre al suo capolavoro, soltanto altre due storie che sono quasi degli spin-off, Taglia e cuci e Pollo alle prugne. Eppure, in questo breve periodo di tempo ha contribuito a una piccola rivoluzione culturale nella mentalità occidentale.
Per festeggiare i 50 anni dell’autrice, proviamo quindi a capire in che cosa consista l’effetto Persepolis e quali siano state le sue conseguenze.
Il Medioriente come non l’avevamo visto mai
«Da allora [dalla rivoluzione islamica del 1979, n.d.r.] l’immagine di questa antica e grandiosa civiltà è stata indissolubilmente legata a fondamentalismo, fanatismo e terrorismo. Ma io, che sono un’iraniana che ha trascorso più di metà della sua vita in Iran, so bene che questa immagine è lontana dal vero. È per questo che scrivere Persepolis è stato così importante per me. Credo che non si possa giudicare una nazione intera per gli errori di pochi estremisti. E non voglio che vengano dimenticati tutti quegli iraniani che hanno perso la vita in prigione per difendere la libertà, che sono morti in guerra contro l’Iraq, che hanno subito la repressione dei diversi regimi, che sono stati costretti a lasciare le loro famiglie e fuggire dal loro paese. Si può perdonare ma non si deve dimenticare.»
L’introduzione all’edizione italiana del 2002 è una vera e propria dichiarazione d’intenti: Persepolis parla dell’Iran e di come la sua gloriosa tradizione culturale sia stata messa in crisi dal suo passato recente, segnato dall’ascesa di regimi repressivi. Il progressivo e sanguinoso deterioramento delle libertà individuali è raccontato attraverso le vicende della famiglia Satrapi, di alta estrazione sociale, grande apertura mentale e orientamento politico decisamente progressista.
Raccontare il proprio paese attraverso i ricordi personali e familiari è stata per l’autrice la scelta più naturale e più onesta, come affermato in un’intervista con Vogue:
«Non potevo di punto in bianco dire «Questa è un’analisi di quanto è accaduto negli anni 70, 80 e 90 in Iran», perché non mi occupo né di storia né di politica. Sono una persona che è nata in un determinato posto, in un determinato momento storico, e posso non sapere tutto, ma di certo so bene quello che ho vissuto. Lo conosco bene.»
La scelta autobiografica è anche funzionale all’obiettivo formulato nell’introduzione: per decostruire lo stereotipo del mediorientale retrogrado e fondamentalista servono esempi concreti, nomi e cognomi di persone che dello stereotipo sono una clamorosa smentita. Per ridare al suo paese l’immagine che merita serve il meglio, e il meglio dell’Iran Satrapi ce l’ha a portata di mano, è a casa sua, è nella sua famiglia: dal nonno, principe imperiale convertito al comunismo, alla nonna, esempio da manuale di emancipazione femminile; dai genitori, pronti a sacrificare tutto perché la loro figlia cresca libera e padrona del suo destino, allo zio Anush, che prima di essere giustiziato per le sue idee politiche affida alla nipote la missione di una vita («I ricordi di famiglia non devono perdersi. Anche se non è facile per te, anche se non puoi capire tutto»).
Dopo l’11 settembre il senso di questo lavoro diventa ancora più importante. Il fondamentalismo islamico non è più una macchietta da disprezzare, è una minaccia concreta alla quale l’Occidente risponde con una propaganda che di pancia autorizza l’equivalenza Medioriente = terrorismo. Scoprire l’esistenza di un altro Medioriente, colto e pronto a difendere la libertà a tutti i costi, è ossigeno per chi dalla propaganda non vuole farsi travolgere. Per chi ricorda che cosa in Europa è successo durante la Seconda guerra mondiale, e che ogni regime ha avuto i suoi oppositori.
Il fatto che le storie di Satrapi siano successe ai suoi parenti, amici e vicini di casa le rende non solo credibili, ma vicinissime alla sensibilità di chi ha raccolto i racconti della guerra e dei partigiani, dalle opere neorealiste o ancora meglio direttamente dai nonni. L’Iran di Satrapi non è un paese nemico, è uno scenario universale dove si vive, si soffre, si lotta e si ama. L’Iran di Satrapi potremmo essere noi. Il Medioriente non ci era mai sembrato così emotivamente vicino.
La crescita di Marjane
Nel racconto di Satrapi c’è un’altra componente che aiuta a ridurre le distanze tra i lettori di ogni lingua e paese: Persepolis è anche semplicemente la storia di una bambina che diventa donna e deve capire qual è il suo posto nel mondo. La schiettezza con cui Satrapi si mette a nudo, l’onestà con cui racconta i sensi di colpa, gli errori e addirittura il tentativo di suicidio, rendono più toccante il suo racconto, ma sono anche l’indizio di un percorso personale che è avvenuto non solo nella storia raccontata nel fumetto, ma proprio attraverso l’atto concreto di scrivere e disegnare.
Persepolis si conclude con Marjane che decide di trasferirsi, questa volta definitivamente, in Europa per avviare una vita libera e indipendente. Ma appena arrivata a Parigi, Satrapi è frustrata dalla continua necessità di spiegare chi sia e da dove venga, come da lei raccontato anche in seguito:
«Mi ritrovavo a dire sempre le stesse stronzate ancora e ancora e a fronteggiare pregiudizi in continuazione. Ero arrivata al punto di pensare «Ci faccio un libro» ma solo perché, per quanto ami chiacchierare, ripetere sempre le stesse cose era diventato seccante. Non pensavo davvero che qualcuno l’avrebbe letto, ma se continuavano a farmi domande avrei potuto rispondere «C’è un libro dove spiego tutto, se ti interessa leggilo». Non avrei mai, mai pensato nella vita che a qualcuno potesse davvero interessare. Ero convinta che importasse solo a me.»
All’insofferenza si aggiunge anche una nuova fase di depressione, che porta a episodi di apnea. Finché una sera non accade un piccolo incidente: Satrapi non riesce a respirare e chiama l’ambulanza, ma il personale che la carica in barella la fa maldestramente cadere per le scale. Il risultato sono quattro punti in testa, la fine delle crisi di apnea e la decisione di sfogare l’ansia scrivendo Persepolis. Ma c’è ancora un ultimo ostacolo da superare:
«Quando ho cominciato a disegnare il libro ero troppo piena di odio e di rabbia – li avrei uccisi tutti! Tutti andavano puniti. Ho scritto in questo stato un paio di pagine e: cavolo, ero proprio come loro. Ero esattamente come loro e avevano vinto, perché mi avevano fatta diventare uguale a loro. Così ho deciso di prendermi del tempo, di darmi una calmata e capire che cosa mi stesse succedendo. Ed è quello il momento in cui capisci davvero: non giustifichi quello che è successo, ma puoi analizzarlo meglio.»
«Non c’è nulla di peggio a questo mondo del rancore e della vendetta. Cerca di mantenerti sempre onesta e degna di te stessa», dice nel fumetto la nonna alla giovane Marjane.
Una volta raggiunta la giusta distanza, Satrapi raggiunge anche la cifra unica di Persepolis: il tono leggero, che si fa grave senza scivolare nel patetico, con un’ironia che serve a rendere sopportabile la tragedia. Il processo di lavorazione tipico del fumetto, per forza di cose lungo e faticoso, che costringe chi lo disegna a un lungo confronto con sé stesso, è parte integrante di questo cambiamento di prospettiva:
Ho sempre pensato che fare fumetti fosse davvero un lavoro da monaci, perché è un lavoro ossessivo – vignetta dopo vignetta. Non pensavo di essere una persona ossessiva, ma ho scoperto attraverso questo metodo chi sono realmente e mi è stato utile per molto tempo.
Accanto al percorso personale, è possibile individuare un contesto ben preciso che ha aiutato Satrapi a impadronirsi di un metodo e di un linguaggio grafico essenziale. Questo contesto si identifica con la bande dessinée indipendente della Parigi della fine degli anni Novanta, anche detta nouvelle bande dessinée.
Il primo fumetto iraniano
«Ecco la grande storia. Marjane l’ha ereditata. Ha realizzato lei il primo fumetto iraniano»: l’introduzione alla prima pubblicazione di Persepolis, in formato albo per l’etichetta indipendente parigina L’Association, contiene tra le righe un manifesto: la storia si fa bande dessinée, la bande dessinée da francese si fa universale, come ogni forma d’arte. È una potentissima dichiarazione d’orgoglio, ed è il credo del gruppo di fumettisti che hanno dato vita all’etichetta L’Association e che condividono lo stesso studio, l’Atelier des Vosges.
Ma è anche un’attestazione di stima personale, dal momento che chi l’ha scritta è David B. e, stando a quanto si legge in testi e articoli di approfondimento, è stato proprio grazie al suo aiuto e all’esempio del suo lavoro su Il grande male che Persepolis è venuto alla luce.
Eppure, spulciando tra le dichiarazioni di Satrapi, c’è qualcosa che non torna e, accanto all’immancabile aneddoto del grande editore che per miopia snobba il talento esordiente, nella storia della prima pubblicazione di Persepolis ci sono dei dettagli poco chiari. Satrapi avrebbe poi raccontato:
«A Parigi sono finita a lavorare in uno studio condiviso perché non potevo pagare l’affitto di uno studio tutto mio. E nemmeno potevo lavorare a casa, perché a casa riuscivo solo a fare il bucato. In studio c’era una persona che mi diceva di non preoccuparmi e scrivere. “Butta tutto giù”, diceva.»
Chi è il collega che la incoraggia? Stando a quanto si legge in una biografia ufficiale, è Cristophe Blain a introdurre Satrapi all’Atelier des Vosges, dove gravitano Émile Bravo, Joann Sfar, Frédéric Boilet, Marc Boutavant, Lewis Trondheim, David B. e Jean-Cristophe Menu (gli ultimi tre sono tra i fondatori de L’Association).
Secondo quanto riportato in Breaking the Frames e Familiar and Foreign: Identity in Iranian Film and Literature, Satrapi ammette di aver avuto il supporto di Bravo e Blain, e soprattutto di David B., che «mi ha aiutato nei primi due, tre capitoli di Persepolis, che mi ha insegnato un sacco di cose». Quanto la lezione de Il grande male sia determinante per la gestazione di Persepolis è evidente: dall’idea di fondo di una storia drammaticamente autobiografica dove l’autore è protagonista e narratore, dalla scelta grafica essenziale, dall’uso del bianco e nero a contrasti forti, dalla scansione della tavola con un massimo di nove vignette rimodulabili. E non dimentichiamo l’introduzione.
Eppure, per l’assenza di foto che li ritraggono insieme e la scarsità di menzioni nelle interviste di entrambi, sembra che su questo presunto rapporto mentore-allieva, dato per scontato da chiunque scriva di Persepolis, sia a un certo punto calato un gelido banco di nebbia, come si legge tra le righe di un’intervista del 2006:
– Una volta hai detto che David B. disegna come un dio, mentre tu sei meno dotata.
– Sì (risponde con solo un accenno di sorriso). Be’, diciamo che sono un po’ cambiata da allora. Ho il mio stile ormai.
Comunque, le vendite del libro catapultano L’Association in una dimensione inaspettata per un’etichetta indipendente nata sostanzialmente come un collettivo di autoproduzioni di nicchia. Non a caso, a ridosso del successo commerciale di Persepolis si acutizzano i contrasti che portano praticamente tutti i membri de L’Association ad abbandonare il progetto a Menu, in uno scroscio di accuse e recriminazioni (con Menu che afferma di aver ripreso possesso di un progetto che era suo fin dall’inizio, e gli altri che lo accusano di essersi appropriato del lavoro di tutti) e la graduale dispersione di quella atmosfera di collaborazione creativa che aveva portato al rinnovamento della bande dessinée.
Il boom del graphic novel
Persepolis è stato spesso paragonato a Maus di Art Spiegelman per la complessità dell’argomento e la scelta del bianco e nero. Su questo confronto, diventato abitudine per giornalisti e critici, Satrapi ha anche ironizzato, raccontando di essersi scusata con Spiegelman:
«Non è certo un problema per me. Maus è un capolavoro e il paragone con Maus non può che essere un complimento. Ma per l’autore può essere seccante. Se fossi in lui, odierei che tutti questi giovani autori fossero paragonati a me. Un giorno l’ho chiamato per dirgli che questo confronto, che aveva chiaramente fini promozionali, non era un’idea mia. Lui ha pensato che il mio fosse un pensiero gentile. Così mi ha invitata nel suo studio, ho conosciuto la sua famiglia, e ora siamo amici.»
In un’altra sede l’autrice ha ammesso che senza Maus non ci sarebbe stato alcun Persepolis. Leggere il libro, ricevuto come regalo di compleanno poco dopo essere arrivata a Parigi, è stata una rivelazione che le ha permesso di vedere il fumetto con altri occhi: come un medium per esprimere sé stessi, uno dei tanti modi di raccontare storie, capace di intrattenere i lettori ma anche di colpirli al cuore e alla testa, come solo l’arte sa fare. Oggi sembra una banalità, ma fino a qualche decennio fa questa idea non era così evidente. Si è anzi fatta strada insieme con la diffusione dei fumetti nelle librerie di varia, e insieme alla popolarizzazione dell’etichetta ‘graphic novel’.
A questo proposito, lo studio The Discovery of Marjane Satrapi and the Translation of Works from and about the Middle East mette in evidenza un fatto interessante: la dicitura ‘graphic novel’ non compare nella prima edizione francese (dove del resto l’opera è divisa in albi) ma nell’edizione americana del 2003, precisamente nell’introduzione (dove «bande dessinée» viene tradotto con «graphic novel») e successivamente nei credits del film del 2007 («Based on the best-selling graphic novel»). È una prova del fatto che intorno alla dicitura ‘graphic novel’ si sta condensando un identikit di fumetto ben preciso: un racconto lungo e autoconclusivo, di argomento complesso e di respiro internazionale. Satrapi è ben consapevole che l’etichetta di ‘graphic novel’ può essere usata anche con l’intenzione posticcia e anche un po’ disonesta di nobilitare il fumetto:
«Non mi piace molto l’espressione ‘graphic novel’. Penso che abbiano creato questo termine perché la gente perbene non abbia paura dei fumetti. Della serie, “Ecco, questo è il genere di fumetto che ci si addice”.»
Mostrando il massimo rispetto per la forma di racconto che ha scelto, Satrapi dichiara che il fumetto non ha bisogno né di blasoni né di giustificazioni. È un linguaggio alla pari con tutti gli altri, né inferiore né superiore. E per lei non è sicuramente un mondo al quale restare incatenati:
«Bisogna fare le cose quando si ha voglia di farle. Ho fatto fumetti per cinque anni, ero molto felice, è stato un modo di raccontare con cui mi sono trovata molto a mio agio. Ma c’era qualcosa che mi mancava.»
Oltre il fumetto
Che cosa mancava? Satrapi comincia a scoprirlo nel 2007, realizzando con Vincent Paronnaud il film d’animazione tratto da Persepolis. La pellicola, che fa il giro dei festival e ottiene a Cannes il premio della giuria, moltiplica in modo esponenziale la notorietà del fumetto e della sua autrice.
Satrapi scopre di preferire al lavoro ‘autarchico’ del fumettista il lavoro di squadra tipico del cinema, nonostante qui la pressione sia decisamente maggiore. Abbandona subito l’animazione per la trasposizione di Pollo alle prugne, che diventa, sempre con la collaborazione di Paronnaud, un action-movie con attori francesi in cui l’ambientazione iraniana si fa meno invadente sia per alcune scelte di fondo (lo strumento intorno a cui ruota la vicenda non è più un tar ma un violino), sia per la messa in scena fiabesca che ricorda Il favoloso mondo di Amelie di Jeann-Pierre Jeunet.
L’emancipazione definitiva avviene però nel 2012 con La Bande des Jotas (inedito in Italia), una commedia degli equivoci in salsa crime, dove Satrapi è regista, sceneggiatrice e anche attrice. Il trailer parla chiaro: è un film di Marjane Satrapi, ma non c’entra niente con gli altri film di Marjane Satrapi, quindi non aspettatevi Persepolis.
Il traguardo successivo sono due film con produzioni più grandi e cast di fama internazionale: prima il thriller ironico e grottesco The Voices (2014) con Ryan Reynolds e Gemma Arterton, poi Radioactive (in uscita nel 2020) con Rosamund Pike, un film biografico su Marie Curie, mito personale di Satrapi.
L’attività da regista non ha la forza di sovrastare la fama di autrice di Persepolis, ma contribuisce a dare spessore al personaggio che, con la consacrazione ormai ventennale del libro, inevitabilmente si è creato intorno al nome dell’autrice. Marjane Satrapi diventa simbolo di resistenza ai regimi fondamentalisti e ne è conferma Persepolis 2.0, un progetto apocrifo di riuso delle immagini originali allo scopo di raccontare un’altra storia, più tragica ancora, dell’Iran in tempo reale (era il 2009).
Ma accade anche qualcos’altro. Sovrapponendo per accumulazione alla Marjane del libro e del film le dichiarazioni dirette, ironiche e salaci che si leggono nelle interviste, Marjane Satrapi è diventata un’icona ormai occidentalizzata di emancipazione femminile, che fa presa sia sulle femministe glamour dell’ultim’ora che sulle militanti più sincere. Ne sono prova l’intervista (più volte citata in quest’articolo) di Vogue, dove a fare le domande all’autrice altri non è che Emma Watson, attrice sensibile alla causa femminista, e anche il cammeo di Satrapi in una puntata dei Simpson dedicata alle fumettiste, dove compare accanto ad Alison Bechdel e Roz Chast. Ne è infine conferma il logo ispirato ad Asia Argento e diventato uno dei simboli del movimento #MeToo, nonché vessillo nelle manifestazioni di ispirazione femminista.
Esempio e ispirazione per tutte le donne, orientali e occidentali, che siano fumettiste o registe, o semplicemente persone che vogliano vivere liberamente le loro scelte. Voce importante nel dibattito tra Oriente e Occidente, capace di introdurre un punto di vista comune a due orizzonti culturali che a volte sembrano inconciliabili. Autrice capace di ampliare il pubblico dei lettori e di spostare verso l’alto l’assicella della considerazione attribuita al fumetto. Sembra proprio che per questi suoi primi cinquant’anni sulla Terra Marjane Satrapi ci abbia dato tanto su cui ragionare.
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