di Filippo Conte*
Sono le 2 del mattino in un appartamento nel South Bronx a New York, mentre il giovane Jerry cerca freneticamente un mazzo di carte da gioco tra i cassetti, felice e ansioso come se stesse rintracciando un tesoro. Sapeva che, tra queste carte, avrebbe trovato esattamente l’immagine precisa che corrispondeva a ciò che gli era balenato tra la mente. Che poi, pensandoci bene, era tempo che cercava di dar vita a quest’idea: creare un personaggio immaginario che sia l’antagonista perfetto, il punto di incontro tra i famigerati gangster che si stanno affermando in quei tumultuosi anni, come Dillinger, e una mente sopraffina ma volta al male, come Moriarty per Sherlock Holmes.
È anche affascinato molto delle figure letali dei racconti di Edgar Allan Poe, tanto eleganti, quanto inquietanti, così efferate, quanto dotate di un perverso senso dell’humor. Mancava un’immagine che potesse racchiudere il tutto e Jerry sapeva che era in quel mazzo di carte. Era la carta del Joker.
Così Jerry Robinson, storico disegnatore della prima ora di Bob Kane e Bill Finger, i padri di Batman, racconta, nel suo artbook-autobiografia Jerry and the Joker (Dark Horse, 2017), la genesi di quello che è probabilmente uno dei migliori antagonisti di sempre.
Robinson aggiunge altri aneddoti fondamentali alla creazione del mito, soprattutto il contributo di Finger il quale, vedendo poco dopo in una rivista la foto dell’attore Conrad Veidt, truccato per impersonare il tragico clown nel film The Man Who Laughs (L’uomo che ride, 1928: è visibile su YouTube), pensò fosse il viso perfetto da abbinare al personaggio che Jerry aveva raccontato tramite quella carta da gioco.
Permangono le controversie rispetto a chi abbia dato il primo impulso, compreso l’aneddoto sul figlioletto di Finger intimorito da un’attrazione di Coney Island: ma anche questa versione viene inglobata nel punto di vista di Robinson, attualmente tra le più riconosciute nei testi dedicati al personaggio (molto bello quello di Daniel Wallace) e, in generale, alle origini dell’Uomo Pipistrello.
Il Joker esordisce così nell’aprile 1940, nelle pagine di Batman n. 1, la nuova testata da affiancare a Detective Comics (nel quale il Cavaliere Oscuro aveva fatto la prima apparizione poco tempo prima con enorme successo). Si presenta come una figura allungata ed elegantemente vestita, in completo viola con panciotto e guanti, un sorriso fisso inquietante su una maschera di cerone bianco e capelli verdi. Quasi un perverso punto di incontro tra un dandy e un clown, supportato da una mente criminale acuta, con la quale ordisce trame machiavelliche.
L’episodio lo vede infatti primeggiare attraverso la costruzione di piani mortalmente raffinati, ai quali solo l’intervento risolutivo di Batman può metter un argine. La nuova nemesi finisce tra le sbarre ma, come si suol dire, questo è solo l’inizio. L’affermazione fu infatti immediata e dirompente, sulla stessa linea che vedeva il pubblico affezionarsi ai nemici del protagonista in maniera anche inaspettata: come il caso di Flattop, uno degli eccentrici nemici del detective Dick Tracy, la cui morte causò una rivolta da parte dei lettori, tanto da dover ideare un escamotage per riportarlo in vita.
L’esempio della striscia dedicata a Dick Tracy, con la sua galleria di villains, è spesso accostabile all’universo di Batman, i cui nemici passano da essere “normali” criminali a veri e propri freaks, le cui particolarità fisiche, anche estreme e spesso quasi mostruose, ne caratterizzavano la personalità e le bizzarrie. Allo stesso modo il Joker, nelle apparizioni successive, si attesta sempre più come un “Arlecchino malvagio”, le cui imprese non hanno l’esclusivo fine del guadagno, quanto più di una sfida eterna all’eroe attraverso un percorso opposto al suo: dove Batman era una forza di ordine, giustizia e razionalità, il Joker travolgeva tutto, portando caos, pazzia e insensatezza.
Anche dal punto di vista grafico, con l’avvicendarsi di un altro storico disegnatore dello studio Kane ovvero Dick Sprang, la caratterizzazione già dalle successive apparizioni assume sempre più i contorni di un clown cattivo, piuttosto che l’oscura ed algida figura d’esordio. Esemplari alcune copertine passate alla storia, che vedono la minaccia del Joker diventare di volta in volta un enorme totem, una serie di teste giganti jack-in-the-box che volteggiano intorno agli eroi e altre rappresentazioni allegoriche della sua personalità.
Ulteriormente nelle storie all’interno, proprio grazie all’arrivo di Sprang, Gotham City diventa uno scenario fantastico, fatto di marchingegni assurdi, trappole giganti e giocattoli mortali, una sorta di strambo Luna Park, nel quale la nemesi di Batman si sente perfettamente a suo agio. La tematica del parco dei divertimenti rimarrà sempre ancorata alla figura del Joker, sia nelle storie più ingenue ed edulcorate degli anni Cinquanta, sia in quelle più odierne e oscure, dove diventa una parte essenziale della sua leggenda, integrando anche numerosi elementi da film horror.
Il Joker di Sprang e degli autori successivi resiste in un certo senso anche alla mannaia della censura, che arriva inesorabile nei 50s con la crociata di Fredric Wertham e del Comics Code Authority. Infatti, pur diluita nella sua carica malvagia, la figura del Joker possiederà sempre un sottotesto disturbante, in dinamiche che sposano atmosfere tra l’infantile e il lisergico. È il caso, tra i tanti, di Joker Jury (Batman n. 163, 1964), di Finger & Sheldon “Shelley” Moldoff (altro artista memorabile nel rappresentare il Joker), storia nella quale vediamo le consuete macchine giganti, sempre più assurde, un gruppo di chirurghi pazzi e una giuria composta da soli Joker, in un viaggio allucinato solo apparentemente innocuo.
Le atmosfere folli ben si sposeranno alle tematiche camp che fecero furore pochi anni dopo, nella coloratissima trasposizione pop della serie tv Batman (1966-68). Nel telefilm il Joker, interpretato da un grandioso Cesar Romero (celebre anche per i baffi malcelati sotto il trucco), si trasforma in una specie di rockstar criminale. La popolazione di Gotham, composta a turno da ricche ereditiere annoiate, nuove starlette, giovani hippie e così via è spesso estasiata dalle imprese del loro beniamino dai capelli verdi, vedendo in lui un artista concettuale, le cui provocazioni sono dettate solo da un indomito spirito libero, votato all’Arte.
Il boom clamoroso della serie ha un riverbero anche nelle pagine a fumetti e bisogna attendere l’arrivo di due autori come Dennis O’Neil & Neal Adams, per vedere l’artista del crimine lasciare le vesti del Buffone non minaccioso e assumere i contorni che ancora oggi lo caratterizzano: un personaggio più reale e spaventoso, che diventa una sommatoria di tutto ciò che lo ha preceduto nel trentennio precedente.
Il Joker è ora un elegante gangster, un clown che cerca il divertimento, perverso in ogni sua azione, una mente criminale elevata, che crea le consuete trappole folli, ma che questa volta hanno un esito mortale, un po’ come prima del Comics Code. Per molti, quella che appare da The Joker’s five way revengere (Batman n. 251, 1973), in una cover e una title page memorabili, è ancora la sua resa definitiva, un modello che contiene ogni incarnazione precedente, rivisitata con i canoni del fumetto contemporaneo.
Gli interpreti successivi seguono la strada tracciata dal duo di autori e ne rimpolpano alcuni aspetti: come il breve ma fondamentale ciclo di Steve Englehart & Marshall Rogers, nel quale viene spinto l’acceleratore sulla violenza, sempre più asservita a scopi di crudeltà gratuita o ai deliranti fini personali che compongono il suo piano globale di follia.
Ancora di più nella versione futuribile che incontriamo nel monumentale Il ritorno del Cavaliere Oscuro (1986), probabilmente la più importante storia di Batman, pubblicata in 4 volumetti deluxe. Il Joker del futuro è un elegante killer-rockstar in completo bianco, una sorta di David Bowie deviato che sembra compiere il suo destino finale con un ultimo scherzo nei confronti del Cavaliere Oscuro. Si intuisce anche che in precedenza ha ucciso Robin, in una sequenza passata alla storia.
Scontato che, qualche anno più tardi, nella serie regolare, questa uccisione dovrà essere raccontata. Il povero (secondo) Robin perde la vita, con annesse torture, nel discusso ciclo Una morte in famiglia (Batman nn. 426-429, 1988), sia perché la decisione avviene tramite un sondaggio telefonico tra i lettori, sia perché, soprattutto, la storia di Jim Starlin & Jim Aparo è proprio mal riuscita, compreso l’improbabile team up tra il Joker e l’ayatollah Khomeini.
Di tutt’altro piglio è invece The Killing Joke (1988), storia-capolavoro di Alan Moore & Brian Bolland, che incrocia mirabilmente un racconto sulle origini con quella che dovrebbe essere la resa dei conti finale tra l’eroe e la sua nemesi. Ma è anche molto di più, con passaggi divenuti epocali: come quando invade la casa di Barbara Gordon/Batgirl, quando un Joker in camicia hawaiana fa irruzione nella sua abitazione, sparandole e sottoponendo il suo corpo al ludibrio delle foto (che prima della censura, suggerivano addirittura anche elementi legati al sesso), per cercare di dare una dimostrazione al mondo di come la follia possa colpire chiunque.
O il controverso finale che, in interviste recenti, non convince neanche Moore stesso, ma riesce comunque ulteriormente ad aggiungere elementi alla caratterizzazione del Joker. Una delle migliori storie di Batman e uno dei migliori capitoli della storia dei comics, che lancia definitivamente il personaggio come protagonista assoluto, al pari e più di altri personaggi.
Infatti, nel film-evento di Tim Burton del 1989, è il Joker che si prende la scena, sia nel budget degli attori, sia nella messa in scena, con un Jack Nicholson strabordante, che sa ben rappresentare gli elementi archetipici del personaggio. Interessante come la rilettura cinematografica voglia legare l’origine del personaggio a quella della sua controparte eroica, identificandolo con lo stesso gangster che aveva ucciso i coniugi Wayne sotto gli occhi del figlio, dando inizio alla leggenda di Batman.
È proprio una leggenda quella che diventano Batman e Joker dopo il film, con l’inizio della Batmania, un successo clamoroso che investirà ogni media e ci darà innumerevoli versioni sia del Cavaliere Oscuro che della sua nemesi buffonesca, moltiplicandone le interpretazioni (celebri le storie alternative, gli elseworlds), anche le più disparate, ma ancor di più fissandone le caratteristiche immutabili di base. Il rapporto tra i due diviene sempre più simbiotico, un’enorme partita a scacchi per decretare quale parte vincerà, o meglio ancora per capire se la follia possa impossessarsi anche di Batman.
Questo cambio di prospettiva deriva dalla tendenza diffusa di produrre storie sempre più intessute di fattori psicologici (e psicopatologici) e di ricerca delle radici motivazionali di entrambi i contendenti, con Batman che si ritrova spesso vicino al baratro della pazzia, con il suo nemico a fargli da specchio. Come avviene in Arkham Asylum (1989), volume di prestigio scritto da Grant Morrison e dipinto da Dave McKean, un’opera di Batman senza precedenti per forma, temi e concetti.
Il Joker (che secondo le intenzioni iniziali doveva essere vestito come la cantante Madonna) guida una rivolta ad Arkham, l’istituto di cura per malati psichiatrici che ospita tutti i nemici dell’Uomo Pipistrello: comincia una sfida giocata su più livelli, un viatico di prove di resistenza, fisica e mentale, mentre vengono svelati gli oscuri segreti della casa. Crudeltà, mindgames, carisma sono alcuni degli elementi per dipingere la versione più vera e completa del clown del crimine.
O forse no. Perché Morrison stesso, nella storia The Clown at Midnight” (Batman n. 663, 2007) ipotizza che, nel corso degli anni, Joker si reinventi, organizzi la sua mente con una nuova personalità, “uccidendo” la precedente incarnazione e assumendone una più confacente a rispondere alla follia del mondo, dove lui è l’unico sano. Questo concetto di “supersanità”, oltre a ribaltare il punto di vista della pazzia, fornisce una spiegazione che comprende tutte le diverse interpretazioni passate, una geniale strategia narrativa ormai marchio di fabbrica dell’autore scozzese.
Tra i protagonisti di questo insolito racconto (scritto interamente in prosa, con le illustrazioni di John Van Fleet) c’è una splendida Harley Quinn, la compagna innamorata del Joker (e sua ex-psichiatra), personaggio inventato da Paul Dini & Bruce Timm nella celebre serie animata Batman (1992-95) e subito inclusa nella continuity delle serie a fumetti.
Harley Quinn in poco tempo si affranca dall’essere un personaggio di supporto, divenendo oggi una protagonista assoluta, sia in coppia col suo amato sia in modo autonomo. Perfetti in questo senso sono Mad Love (The Batman Adventures, 1994), one-shot a fumetti parallelo alla serie animata, considerato tra le storie migliori di sempre sul Joker, e i 4 capitoli del videogioco della serie Arkham (2009-15), concepiti sempre da Dini, partendo dalla trama di quel celebre volume. In entrambe le situazioni, i personaggi riescono a dar luce l’uno all’altro, dando modo di esplorare nuovi scenari e nuovi confini della personalità di tutti e due.
Il rapporto viene indagato anche nel film Suicide Squad (2017), in una mortale romance che vede gli interpreti Jared Leto (Joker) e Margot Robbie (Harley), divenire una sorta di Bonnie & Clyde postmoderni. Contrariamente all’evoluzione inclusiva delle pagine dei fumetti, in questo caso il Joker viene solo rappresentato in alcuni aspetti che lo hanno definito nel tempo, una specie di riduzione che non ha attecchito molto né tra i fan nuovi né vecchi.
Non si può dire lo stesso di Heath Ledger, il Joker nel secondo capitolo della trilogia di Christopher Nolan (Il Cavaliere Oscuro, 2008) uno dei più amati da critica e pubblico, nonostante (o forse anche per) l’aura di maledizione dovuta alla morte del protagonista alla fine delle riprese. Antagonista principe e burattinaio diabolico di ogni vicenda, tanto da essere sempre due passi avanti a Batman, questo uomo nero vestito da clown diventa presto uno dei cattivi per antonomasia del cinema.
I collegamenti con le serie a fumetti sono più di ogni altra versione filmica, come la scena nel commissariato, tratta dalla storia Do You Under Stand These Rights? (Batman Confidential n. 22, 2009), oppure il look del protagonista con il sorriso di cicatrici ideato da Lee Bermejo in Joker (2008), anche se pare abbiano avuto due nascite spontanee e autonome.
Nonostante tutto, permane la sensazione che manchi l’elemento della risata, il comico che vuole cambiare un mondo troppo serio, oppure solo sopravvivergli. Che è uno dei temi di fondo del recente Joker (2019) di Todd Phillips, con un Joaquin Phoenix in stato di grazia nell’assumerne le vesti. Per quanto l’opera, a detta del regista, non pretenda di avere stretti legami con i comics, che ne sono solo l’ispirazione (ma non è del tutto vero), questa nuova versione ha già conquistato tutti, disegnando una nuova versione nell’immaginario.
Anche perché, nel frattempo, nella continuity delle storie a fumetti, sembra che Batman abbia avuto l’incredibile rivelazione che esista più di un Joker: sarà vero… o l’ennesimo scherzo del principe pagliaccio del crimine?
*Questo articolo è tratto dal mensile Fumo di China n. 291, ora in edicola, fumetteria e online.
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