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“Watchmen”, la serie tv che prova a superare l’insuperabile

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Don Johnson che canta People Will Say We’re In Love dal musical Oklahoma!, un dildo gigante del Dottor Manhattan e Jeremy Irons nudo intento a comporre pièce teatrali alla macchina da scrivere. In Watchmen, la serie HBO basata sull’omonimo fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons (disponibile su Sky e NOW TV dal 21 ottobre), c’è tutto questo. E se c’è questo, penso possiate immaginare anche cosa non ci sia.

Lo showrunner Damon Lindelof (sceneggiatore di Lost, The Leftovers, Prometheus, Star Trek Into Darkness, Tomorrowland) ha adattato una delle opere più importanti del fumetto statunitense giocando sulle aspettative del pubblico e dei fan, categoria di spettatori con cui l’autore ha avuto spesso a che fare, in occasione dell’uscita di prodotti polarizzanti come il finale di Lost o i film Prometheus e Star Trek Into Darkness.

I vari trailer e le mani avanti di Lindelof già l’avevano preventivato, che questo non sarebbe stato un adattamento diretto del fumetto come lo era quello di Zack Snyder. Quasi reagendo alla pedanteria del film del 2009, lo show si dichiarava una reinvenzione, una decostruzione di una decostruzione, un remix, ma anche una scusa per parlare d’altro.

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Come Lindelof ha scritto nel 2018 in una lettera aperta ai fan, «Il Nuovo Testamento non ha cancellato il Vecchio. […] È successo tutto. Il Comico è morto, Dan e Laurie si sono innamorati. Ozymandias ha salvato il mondo e il dottor Manhattan se n’è andato dopo aver fatto esplodere Rorschach nel freddo dell’Antartide». Ridotto alla formula più semplice: un sequel.

Watchmen è infatti ambientato circa trent’anni dopo la fine del fumetto. Siamo a Tulsa, Oklahoma, in un 2019 alternativo: la tecnologia si è sviluppata in modo diverso – non esistono cellulari né Internet, solo cercapersone che squillano con il suono spartano di un bip, però è possibile risalire al proprio albero genealogico in poco mosse; il presidente degli Stati Uniti è Robert Redford, eletto nel 1992 e ancora in carica; i supereroi sono fuorilegge e la polizia è una squadriglia di vigilanti che opera a volto coperto: nessuno sa chi ci sia dentro le maschere gialle dei poliziotti, i passamontagna dei tenenti o le bandane dei detective.

Per proteggere l’incolumità degli agenti, se sei un poliziotto non puoi dirlo a nessuno, devi avere un secondo lavoro e un nome d’arte. In pratica, ti comporti come un supereroe statale. Alcuni di loro lo sembrano davvero: hanno nomi di battaglia altisonanti (Red Scare, Looking Glass, Sister Night), costumi – certi più curati di altri – e una vaga parvenza di superpoteri.

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La misura cautelare è nata in seguito all’evento noto come “Notte Bianca”, una strage di poliziotti compiuta nella mezzanotte di Natale di tre anni prima da parte un gruppo di suprematisti bianchi che si fa chiamare Il Settimo Reggimento. L’organizzazione, che ha preso il vigilante Rorschach come modello di riferimento, ne indossa la maschera e ne adora i feticci (il suo diario, le sue metodologie), era stata sradicata ma sembra essere tornata in attività dopo che un uomo mascherato da Rorschach ha crivellato di colpi un poliziotto in servizio.

L’attentato porta il commissionario della polizia Judd Crawford (Don Johnson) a chiamare la detective Angela Abar (Regina King) affinché indaghi. Angela era stata ferita durante la Notte Bianca ma ha ripreso a svolgere il lavoro di investigatrice, usando la nuova attività di pasticcera come copertura.

Queste sono le premesse di una trama che, a prima vista, non sembra contenere molto del fumetto. In realtà, Lindelof e i suoi optano per un lento svelare i vari allacci al testo di Moore e Gibbons.

Il Watchmen televisivo è un grande gioco di ribaltamenti, delle aspettative e delle consuetudini. Lindelof prende Watchmen e lo fa a pezzettini, per poi nascondere quei pezzettini tra le pieghe delle scene. Un manifestante sventola il cartello “The future is bright”, invece del rorschachano “The end is nigh”; il graffito “Quis custodiet ipsos custodes?” è diventato il motto della polizia; c’è una barzelletta, ma non è quella del clown Pagliacci che racconta Rorschach; lo schizzo di sangue non cade su uno smiley ma sul distintivo di un poliziotto (a rimarcare che sono loro il prodotto di trasformazione dei supereroi) e a sua volta lo smiley non è più una spilla ma la forma che assumono i tuorli rotti da Angela durante una dimostrazione a scuola; il profumo Nostalgia di Adrian Veidt diventa pillole che fanno rivivere il passato; la polizia ha il suo Anacleto (il veicolo volante di Gufo Notturno); un hotel sullo sfondo si chiama Vascello Nero.

Il test di Rorschach è diventato la Capsula, una stanza d’interrogatorio in cui vengono proiettati sulle pareti i simboli dell’americana (una pubblicità del latte, l’atterraggio sulla luna, American Gothic, la foto di un cowboy) mentre i sospettati rispondono alle domande per capire se hanno un bias psicologico. Si inizia da easter egg, strizzatine d’occhio, dettagli effimeri, poi si passa ai tasselli più grossi: Looking Glass è uno dei sopravvissuti all’attacco del mostro gigante che chiudeva il fumetto; la simbologia attorno all’orologio – oggetto cardine nel graphic novel – è nebulizzata e poi ricomposta in molte scene.

Se Moore ricontestualizzava eventi bui del Novecento americano come la guerra del Vietnam, Lindelof e gli sceneggiatori prendono un altro momento critico per il paese e lo imbastiscono nella trama: le violenze razziali avvenute a Tulsa nel 1921, una tragedia a lungo taciuta, volutamente dimenticata che fece emergere il profondo razzismo della nazione. Invece del fumetto dentro al fumetto I racconti del Vascello Nero c’è la serie tv dentro la serie tv (Real American Story, una docu-fiction sui Minutemen infarcita di whitewashing e bugie come lo era il memoir di Hollis Mason Sotto la maschera nel fumetto).

C’è molta storia americana: i suprematisti bianchi emuli di Rorschach si fanno chiamare Il Settimo Reggimento, la cui bandiera militare, con le stelle disposte a cerchio, è diventata stemma nazionale; Angela viene chiamata in servizio con l’avvertimento in codice “Little Big Horn”, in omaggio alla battaglia in cui perì Custer.

Con la storia di Moore, questo show condivide alcuni discorsi ma li traghetta verso sensibilità attuali, aggiustando certe storture nel modo in cui lo sceneggiatore affrontava certe tematiche (come la sua nota disinvoltura nell’usare lo stupro a fini narrativi o la trattazione della donna, non sempre ineccepibile) e operando anche un’interessante retrocontinuity su uno dei Minuteman, che costituisce il cuore della storia e il gancio per affrontare il tema del razzismo. Quest’ultima questione è uno dei tiranti di tutta la storia – basta guardare i titoli degli episodi, citazioni di artefatti culturali che trattano di appropriazione culturale e razzismo (il romanzo Il crollo, il dipinto Martial Feats of Comanche Horsemanship) – ed è la parte più centrata dello show.

Watchmen è insomma una scusa per Lindelof di parlare d’altro: di supereroi nel senso più largo possibile (nella finzione, chiunque si è appropriato di un’immagine – o di un immaginario – distorcendone il senso, facendone un orpello estetico, asservendolo ai propri scopi e il senso di supereroismo è migrato verso altri – per ora imperscrutabili – lidi), razzismo, suprematismo, eredità culturale, informazione.

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I personaggi sono ossessionati dal concetto di generazioni, di eredità, del tipo di eredità che hanno, che vogliono lasciare. Si vuole provare a fare i conti con gli effetti di una bufala che ha salvato il mondo, una nozione che colpisce più oggi, nell’era delle fake news, che non trent’anni fa. C’è molto di The Leftovers, questa sensazione di mancanza, di grande trauma con cui tutti devono fare i conti, di echi religiosi (Angela si fa chiamare «sorella» e indossa un rosario di legno).

Nell’anno del film che ha ridefinito il concetto di sindrome da zona di sicurezza (Il re leone), è apprezzabile l’intento di fare qualcosa di diverso, ma è difficile trarne un giudizio rotondo: gli autori impostano un ritmo che se la prende comodissima e allinea tutta una serie di fili narrativi che, dopo i primi sei episodi, restano ancora in balia di se stessi. Ci sono idee molto valide, intuizioni felici, altre più consuete e dallo sbadiglio facile. C’è la voglia di andare oltre Watchmen, questo va riconosciuto, evitando il confronto ed esplorando territori diversi.

Più certo è il giudizio sulla forma: pur avendo tutti i classici sintomi del prestige drama (dominio della trama orizzontale a sfavore di episodi che conservino un minimo di autonomia narrativa, durata sovrabbondante), Watchmen si schiude poco a poco, parcellizzando l’infodumping – gli spiegoni – in bocconi masticabili. A dominare la serie una sboccata Regina King, che titaneggia sul resto del cast. Suoi sono gli occhi che scandagliano la scena, sua la faccia che riempie il fotogramma. L’attrice sostiene il copione senza mai mollare un colpo, sa essere rigida e imbarazzata di fronte a una classe di bambini, ferma e risoluta in ambito lavorativo, sarcastica con i colleghi, violenta e bizzosa con i criminali.

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Le tiene testa Tim Blake Nelson (Looking Glass, dal nome della maschera riflettente che indossa in servizio), a cui la serie regala i suoi bei momenti – le scene dell’interrogatorio, genere verso cui ho una piccola perversione (potrei guardare un intero film fatto solo di «dentro celle intrecciate») ma anche momenti raccolti, sempre recitati con una ciancicata cadenza texana. Un po’ più sbiadita invece è la Laurie Blake (Spettro di Seta II) interpretata da Jean Smart, che si è rifatta una vita ma è sempre tormentata dal suo passato e comunica ogni emozione corrucciando la bocca.

Watchmen non è uno show particolarmente appariscente o stilizzato. Il giallo e il viola che contraddistinguevano la palette di John Higgins sono sparsi nella scenografia senza forzare troppo. Tutto è immerso nel buio – e questo rende le poche scene illuminate particolarmente accecanti – e c’è buona tensione, grazie all’insistente uso della lente bifocale che tiene a fuoco tanto il primo piano quanto lo sfondo e alla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, compositori di sonorità elettroniche che gravitano tra The Social Network (sempre loro) e John Carpenter.

Damon Lindelof non fa che mettere sullo schermo i propri intenti. Come il Settimo Reggimento, scoperto dalla polizia a smembrare orologi, smistandone ogni componente in un secchio – le batterie da una parte, le casse dall’altra, i cinturini in un’altra ancora – ha smembrato Watchmen, ne ha preso le componenti che preferiva e ci ha giocato come meglio credeva.

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