Come potremmo rubricare i racconti raccolti da Nicola Pesce Editore nel nuovo volume dedicato all’opera di Dino Battaglia, Woyzeck? Sono racconti fantastici? Sono notturni? Pur nella patina onirica e decadente alludono a un’idea della ragione? Oppure sono una congerie di ragione e fantastico? Qual è l’elemento che tiene insieme questi quattro racconti apparsi sulle pagine di Linus e de il Giornalino tra gli anni Settanta e Ottanta?
Sicuramente in essi è forte l’elemento notturno (ben due racconti provengono dalle pagine dei Nachtstücke di Hoffmann), ma è una notte lontana dall’idealizzazione di Novalis: piuttosto in essa si scompagina il mondo, aprendo le porte a esperienze stranianti in cui il familiare rivela un volto sconosciuto. In buona sostanza – per citare Freud – non si è padroni a casa propria, o come direbbe Schelling: «Si dice unheimlich tutto ciò che dovrebbe restare […] segreto, nascosto, e che è invece affiorato» (Phylosophie der Mythologie).
Non è un caso che abbia citato il padre della psicanalisi: Olympia, riduzione del racconto Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann, è uno dei testi su cui Freud ha esercitato i suoi metodi interpretativi, consegnando alla riflessione novecentesca una delle sue idee più fortunate, quella dell’Unheimlich, traducibile in italiano con il termine perturbante. L’influenza esercitata dallo scritto di Freud ha catturato l’attenzione del filosofo e critico culturale Mark Fisher, che nel suo The Weird and The Eerie: Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, ha ripreso le fila di quella riflessione, superando la soluzione freudiana per condurre, invece, un’attenta analisi su esperienze letterarie, cinematografiche e artistiche che aprono all’esperienza dell’esterno e dell’inumano.
Perché al di là della toppa freudiana della paura dell’evirazione, i racconti di Hoffmann mostrano lo scompaginarsi delle relazioni d’ordine. «Ecco quindi che una semplice casa disabitata là dove non dovrebbe essere […] diventa una specie di vortice alla cui progressiva attrazione il protagonista non può resistere» (Daniele Barbieri, Dal Romanticismo all’Espressionismo, l’introduzione al volume di cui stiamo parlando). Se la casa è un’anomalia rispetto alla centralissima strada berlinese, l’inorganico che ha sembianze umane tanto da trarre in inganno il protagonista de Il mago sabbiolino è un’altra faccia di quell’esperienza straniante e che apre le porte all’’inorganico.
La confusione tra organico e inorganico in una Berlino dominata dalla mascherata (il riferimento è al Poe de La maschera della Morte Rossa) porta allo stupore della ragione, allo svelamento di una verità più profonda, ovvero che l’uomo stesso è macchina, intrappolato in una danza di morte. Tutto è un teatrino di marionette, anche la fuga di un Nathaniel inorridito lungo le strade di una città che per quanto affollata non rivela alcuna presenza umana.
Altro elemento fondamentale della riduzione di Battaglia: Olympia mostra lo sguardo, ma mai le labbra. Mostra il vitreo umore degli occhi, attraverso cui realizza l’incanto, ingannando il povero studente di medicina, ma mai le labbra, dalla cui apertura e scaturigine proviene la voce, il segno dell’altro e della sua presenza. Il dramma del giovane Nathaniel si svolge in uno scenario claudicante, con case che si accartocciano su loro stesse come se fossero di cartapesta, scale che non hanno regolarità, tutto sembra posticcio, un’enorme scenografia pronta a deflagrare su se stessa.
Battaglia rende magnificamente i chiaroscuri della scrittura di Hoffman ricorrendo ai suoi tagli netti tra neri e bianchi. Con un’inversione sorprendente dei registri, per cui non è più il bianco il regime dell’ordine e il nero quello dell’inquietudine, ma il contrario: è il bianco a definire l’inquietante. Il bianco è segno dell’ignoto, dell’indeterminato: apre a un’agentività, è segno di qualcosa che agisce alle spalle della scena senza essere visto ma delimitando e definendo la scena stessa. Paradossalmente, è come se il fondo – lo spazio bianco da cui sorge il segno – avesse più importanza di quello che accade: definendo la finzione non solo a livello formale ma anche a livello metafisico e dandosi come l’informe da cui sorgono le immagini.
Ma, al di là dell’atmosfere perturbanti, l’altro tema che lega i racconti di questo volume è l’ossessione. Se Nathaniel è ossessionato dalla giovane e misteriosa figlia del fisico Spallanzani e Teodoro W. – protagonista de La casa disabitata – è attratto dal mistero che alligna intorno a una casa nel centro di Berlino, Woycezk, omonimo protagonista del dramma incompiuto di George Buchner, agisce ed è agito, vittima e carnefice: le voci che si affastellano nella sua testa lo inducono verso il negativo, verso la distruzione, l’annichilimento.
La società qua incarnata dal Capitano, dal Dottore, dal Tamburmaggiore (ma anche dal deferente e accidioso Andreas) rappresentano le maglie di una rete che imprigiona lo spirito di Woyzeck. Non è un caso che Herzog volle ridurre per il cinema il dramma di Buchner riprendendo un po’ il discorso intrapreso qualche anno prima con La Ballata di Stroszek: il tema è quello dell’alienazione dell’individuo ai meccanismi del mondo degli uomini. Battaglia, fedele al testo buchneriano, frammentario e fatto per illuminazioni e squarci, tratteggia un racconto teso, claustrofobico, dove il grottesco e la caricatura convivono in un mondo che riflette attraverso la sensazione quasi fisica del crepuscolo le visioni apocalittiche del povero Woyzeck.
Un dramma tardo-romantico quello buchneriano che sembra già alludere allo smarrimento della ragione del Ventesimo secolo. Sembra quasi uno scherzo pensare che la pellicola di Herzog – girata in soli 18 giorni – facesse seguito al Nosferatu, un omaggio al cinema espressionista, che nelle pagine di Battaglia ritorna in forma spettrale popolando anche pagine “leggere” e pensate per un pubblico di giovani lettori, come nel conclusivo racconto La straordinaria storia di Peter Schlemihl, dall’omonimo romanzo del poeta Adelbert von Chamisso.
È l’ennesimo racconto di un idiota, di un sognatore, che cade suo malgrado in un incubo. Il tono favolistico e leggero non impedisce al disegnatore di impiegare un immaginario perturbante: il mefistofelico diavolo che inganna il povero Peter oscilla tra il Nosferatu di Murnau e l’enigmatica morte de Il settimo sigillo di Bergman. Un immaginario lontano e distante che screzia di inquietudine la favola di Peter Schlemihl.
L’eleganza dello stile di Battaglia crea un ponte concettuale tra il tardo romanticismo e l’espressionismo, trovando nel racconto breve – ormai dimenticato formato principe del fumetto – il terreno ideale in cui far confluire mondi, tecniche e voci distanti. A distanza di decenni, lo stile di Battaglia resta unico. La sensazione alla fine di questo ennesimo volume dell’opera omnia è che per strada si sia perso qualcosa e che la sapienza quasi artigianale di certi autori non abbia più ospitalità nel fumetto italiano contemporaneo. Oggi come oggi, Battaglia forse potrebbe essere un superbo illustratore, ma mai un narratore.
Woyzeck
di Dino Battaglia
NPE, luglio 2019
Cartonato, 80 pp., b/n
16,90 €
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