Eccola qua, una roba davvero poco interessante: Hulk. Il Golia Verde creato nel 1962 da Stan Lee e Jack Kirby è uno dei personaggi psicologicamente più bizantini, entro cui si scontrano gli archetipi del mostro di Frankenstein, del Dottor Jekyl e di Mr. Hyde, di sindromi e repressioni.
Fatto sbocciare da Peter David in una storica gestione tra gli anni Ottanta e Novanta, il personaggio ha poi percorso strade tracciate da autori che hanno avuto vita difficile, a causa dell’ombra gettata dallo sceneggiatore. C’è stato chi ha provato a emularlo – come Paul Jenkins, che ha indagato il subconscio di Banner e le sue personalità multiple, chi invece ha guardato altrove, come Bruce Jones, che l’ha messo nei panni del fuggitivo. Ci sono state le gestioni più muscolari di Greg Pak e quelle di altri che hanno trattato Hulk come una forza inarrestabile da gestire con metodi poco ortodossi.
Poi, durante Civil War II, Hulk è morto, colpa di una freccia scoccata da Occhio di Falco. È arrivato il Fichissimo Hulk, la svolta normalizzante incarnata da Amadeus Cho, bei modi e un taglio di capelli da surfista. Fumettisticamente parlando, insomma, saranno almeno dieci anni che Hulk non è protagonista di una storia memorabile. Una roba davvero poco interessante, per l’appunto.
Ora, in uno sviluppo prevedibile, Bruce Banner è resuscitato. Marvel Comics gli ha dedicato una nuova testata solista, L’immortale Hulk, e ha affidato i testi ad Al Ewing, che alla Casa delle Idee non era stato in grado di sfornarne granché, di idee (New Avengers, U.S.Avengers, Ultimates, noia, noia, noia), e i disegni al brasiliano Joe Bennett, attivo come matitista dagli anni Novanta ma il cui curriculum è un altro affastellarsi di noie. Non altrettanto prevedibile è stato l’esito di questa operazione. Nonostante le premesse, Ewing e Bennett hanno creato una delle gestioni più significative del personaggio.
L’immortale Hulk ci racconta che Hulk non se ne è mai andato, perché, a differenza di Bruce Banner, è immortale. Tormenta Banner, è intelligente, luciferino e ansioso di prendere possesso del corpo, ma lo fa soltanto dopo il tramonto. Bruce ha quindi iniziato a vagare per l’America tenendo un profilo basso, vivendo alla giornata. Dorme sui mezzi pubblici, si sposta da una piccola città all’altra, isolandosi dalla società per paura che Hulk possa creare dei danni, fare dei morti.
Sulle sue tracce c’è Jackie McGee, una giornalista che lavora per l’Arizona Herald e che sta investigando sul ritorno del mostro, nonostante governo e Avengers sostengano pubblicamente essere morto. La donna sembra alla ricerca dello scoop, ma la sua connessione con Hulk è più profonda, come viene rivelato nel corso della storia. C’è, poi, una serie di misteriosi fatti che hanno a che fare con le radiazioni gamma, come l’apparizione di una porta verde nel cielo e le continue morti di una piccola cittadina di provincia, di cui Banner dovrà capirne l’origine, mentre sulle sue tracce si aggiunge un’organizzazione nota come Base Shadow che vuole studiare Hulk per poterlo replicare.
Inizia così, L’immortale Hulk, ma continua prendendo svolte inattese, piluccando elementi più o meno noti, a volte dimenticati, della storia editoriale del personaggio e risputandoli assieme in un insolito pastiche horror. Ewing raccoglie spunti dalle primissime storie, ne cerca altri da gestioni recenti, altri ancora va a prenderli della serie televisiva degli anni Settanta, in cui Bruce Banner errabondava per gli Stati Uniti, braccato dalla legge.
L’immortale Hulk è sorretto dai concetti di dicotomia e doppio. Perché, guardando al passato, Ewing ha imparato che la gran parte degli avversari – anche i più sciocchi, come Bi-Bestia – sono doppelganger di Bruce, espressioni ribaltate del suo carattere. Esplorare questi aspetti sembra dunque naturale per il personaggio. Ecco che nella serie si aggiungono, nel cast dei comprimari, Sasquatch, all’anagrafe Walter Langkowski, e una serie di personaggi che hanno già gravitato attorno a Banner in passato e sono in qualche modo un suo riflesso.
A esemplificare bene questa scelta c’è il numero 9, I peccatori, un albo ricco di simmetrie che, giocando con lo scontro tra Hulk e una versione potenziata di Carl “Crusher” Creel, aka l’Uomo Assorbente, pianta i tiranti della gestione. Assoldato da un’agenzia che vorrebbe catturare Hulk per replicarlo, l’Uomo Assorbente viene potenziato e mandato a combattere Banner. La storia è raccontata da due punti di vista – quella dei combattenti – e segue in parallelo le loro vicende personali per poi sfociare nella battaglia.
Con la forza delle radiazioni gamma, Creel apre quella porta verde che altro non è che il Reame delle Grandi Bestie, da cui emerse Tanaraq, essere che diede a Langkowski il suo aspetto mostruoso, e da cui adesso è sceso un nuovo inferno. Ewing chiama quello spazio colmo di demoni Thaumiel, termine che nella Cabala ebraica indica la dualità di Dio (in opposizione a Keter, che rappresenta l’unità del divino). Ogni scena si lega alla precedente per una parola ripetuta, tutto è uno scontro dualistico, anche sul piano cromatico: la soluzione che potenzia l’Uomo Assorbente lo rende rosso, il colore complementare del verde. Ma non manca albo in cui Bruce o qualche altro personaggio non si specchi nei finestrini dei bus, in quelli delle auto, sulla superficie delle posate, sulle vetrate di palazzi o appartamenti.
Hulk era un veicolo già preparato per accogliere quei temi, nonostante fossero anni che gli autori ci stavano distante, ma Ewing ha scelto una direzione nuova, che tratteggia il personaggio non come un’entità frammentaria che cerca di sopravvivere di fronte al desiderio di morte di Banner – come capitava nella scrittura tarda di Peter David – ma come l’ombra monolitica di Bruce, il suo doppio sotterraneo, rimasto confinato a vivere il peggio della personalità di Banner, ad accoglierne tutti i traumi e le psicosi, diventando essenza diabolica. «C’ero già quando Banner uccise suo padre. C’ero quando suo padre uccise una parte di lui. Forse ci sono sempre stato» dice la voce narrante di Hulk a un certo punto.
Ewing esplora la natura dei raggi gamma, i nuovi poteri di Hulk, davvero immortale grazie alla capacità di rigenerarsi, e utilizza lo spunto per scene horror come la vivisezione del Gigante di Giada. L’idea è che Hulk sia una presenza spettrale, mentale e biologica.
Facendosi ispirare dal Mister Miracle di Tom King e Mitch Gerads, lo sceneggiatore puntella gli albi con una voce narrante che, con un font da macchina da scrivere, incalza il lettore domandandosi ossessivamente cosa sia il diavolo, cosa sia l’inferno, cosa sia Hulk. Cerca di comprendere la natura profonda del personaggio e la spiegazione che dà rilancia quella di autori passati come Bill Mantlo, che per primo esplorò il passato di Bruce e la natura profonda di Hulk (in Mostro, disegnato da Mike Mignola e pubblicato su The Incredible Hulk #312). Da quella storia Ewing trae anche il concetto che Hulk non sia un incidente ma una forza che esiste in chiunque (persino in Dio).
Quello definito nel testo il «caso più famoso al mondo di disturbo dissociativo dell’identità», diventa ben altro nelle intenzioni dell’autore. Una delle citazioni inserite in calce a ogni albo, tratta da La duchessa di Padova di Oscar Wilde, recita «Ognuno di noi è il proprio diavolo e facciamo di questo mondo il nostro inferno». Hulk è una parte di tutti noi. Hulk è i nostri istinti, le nostre manie, i nostri traumi. Proprio perché ognuno di noi ha un Hulk, Ewing ragiona sui motivi e le cause che portano ogni nostro Hulk a emergere e, più generale, sull’effetto che Hulk ha sul mondo.
Ci viene raccontato che Langkowski, compagno di stanza di Bruce all’università, grande sportivo ma dotato anche nello studio, cercò di replicare l’esperimento che aveva trasformato l’amico in Hulk. La relazione tra i due mostra un Bruce Banner livoroso e infantile: non tollerava che Langkowski potesse competere con lui sul piano scientifico. «Sei un atleta. Un atleta intelligente. Un atleta con ambizioni, ma sempre un atleta! Tutti già ti adulano per saper lanciare una palla… Vuoi che ti amino anche per la tua mente?» gli urla contro in un flashback. «Tu hai il football! Questo è mio!»
Ancora, in una sequenza che appare inizialmente straniante, la giornalista McGee chiede di poter diventare Hulk, perché vuole sperimentare «come deve essere provare quella rabbia. Riuscire a provare quella rabbia. Avere il permesso di provarla». Più avanti, torna sull’argomento spiegando che, fin da piccola, l’ira che prova non è mai stata legittimata o presa in considerazione. «La tua rabbia… È tollerata, anche rispettata. La mia è ignorata… Quando va bene».
La breve scena contiene un attacco a Hulk come simbolo dei privilegi dell’uomo bianco. Banner, suo padre, il dottor Frye, Walter Langkowski, Doc Samson, l’Uomo Assorbente, Rick Jones, Thunderbolt Ross, sono (stati) liberi di sfogare il loro Hulk. Perché a pronunciare queste parole è una donna nera che ha il privilegio di essere arrabbiata, le viene negato il diritto di provare un sentimento che esprime istinti non mediati. Peggio, vede che la rabbia di Hulk è socialmente accettata: quando si tratta di lui, tutti cercano una soluzione, non lo condannano, lo aiutano.
L’Hulk immortale di Ewing è fatto di dialoghi sulla natura del diavolo ma anche di corpi che si assorbono a vicenda, si plasmano, cambiano. Il disegnatore Joe Bennett disegna un Hulk pastoso, che si divelte in due come un’ostrica, si sdoppia, trangugia corpi altrui, viene tranciato in tocchi e si riforma, prelevando le suggestioni di Rob Bottin e del design de La cosa. Spinge sui primi piani estremi, per poi allontanare di colpo lo sguardo e mettere il lettore ai margini di scontri fisici possenti tra Hulk e i suoi avversari.
Bennett cesella i corpi con il tratteggio, disegna Hulk con un aspetto da primitivo, fronte ampia e mascelle sporgenti, per sottolineare la natura brutale e indomita di un personaggio che pure si esprime con buone capacità linguistiche. La struttura ossea di Hulk torna in primo piano quando l’Uomo Assorbente toglie a Banner il potere dei raggi gamma e, come se fosse reduce da un intervento di liposuzione andato male, Hulk diventa uno scheletro ricoperto da lembi di pelle cascante.
La lettura prolungata dalla serie apre nel lettore spiragli di angoscia solo momentaneamente alleviati da sezioni di trama canoniche (l’arrivo degli Avengers, le macchinazioni della Base Shadow che cerca Hulk per poterlo studiare e replicare) e tante sono le immagini che restano impresse: il cranio e la colonna vertebrale di Creel utilizzati come palla da carcerato, lo smembramento di Hulk, la riesumazione di cadaveri radioattivi, un Hulk scheletrico ricoperto di eccedenze dermatiche.
Emulando le atmosfere di Bernie Wrightson, Bennett affastella strati di inchiostro, tratteggi e una linea certosina che congela anche i più minuti detriti di terra, le gocce di sudore, i rivoli di grasso della pancetta. Stenta un po’ sulle espressioni facciali di Banner e l’indole da mestierante talvolta emerge in tavole poco ispirate, ma resta senza dubbio il miglior lavoro prodotto in carriera.
Forse, un vago sentore dell’importanza dello spostamento tematico operato da Ewing lo dà la vicinanza di L’immortale Hulk con Noi, l’horror di Jordan Peele che al centro del suo racconto ha i temi della dualità, dell’identità e del male che la società produce quando non si preoccupa di chiedersi a quali costi ha ottenuti i suoi privilegi.
Ci sono dei distinguo importanti, ma le sovrapposizioni sono molte. Sia Noi che Hulk incorporano suggestioni della religione ebraica (Noi dal libro di Geremia, Hulk dalla Cabala); in entrambi è centrale il ruolo degli specchi, della simmetria, del doppio diabolico, della separazione fisica degli spazi, dell’inferno in mezzo a noi. In L’immortale Hulk gli studi sui raggi gamma hanno aperto una porta verde nel cielo che ora minaccia di fare arrivare l’inferno sulla Terra. Mentre Peele declinava questa matassa di argomenti attraverso il genere dell’home invasion, Ewing e Bennett lo fanno con il body horror.
Nel blog in cui documenta il suo lavoro di ricerca, Ewing utilizza spesso le diciture «It’s a political comic», «Hulk is scary», «It’s a horror comic», associandole a qualche vignetta di una storia passata del personaggio, come a rimarcare l’impressione che ne ha ricavato dopo aver letto la serie da cima a fondo.
Questo recupero è palesato nel fuori serie La miglior difesa, disegnato da Simone di Meo e realizzato come preludio per la serie The Defenders, in cui Ewing alterna una storia inedita con vignette tratte dai primi sei numeri di The Incredibile Hulk, fornendo una specie di cartina tornasole per la sua gestione. I momenti scelti mostrano tutti gli aspetti di Hulk affrontati nella serie regolare (l’orrore, la crisi identitaria, la natura mostruosa di Hulk), facendo affiorare una lettura dimenticata, magari oscurata da interpretazioni più popolari del personaggio così come lo conosciamo.
Ancora in corso di pubblicazione, L’immortale Hulk ha riportato in auge una serie che ora sappiamo essere in grado di accogliere non soltanto scazzottate e sedute psicologiche ma atmosfere horror, visioni religiose e afflati apocalittici. È una lettura che gli appassionati di Hulk non vedevano da tempo e, per il modo in cui Ewing e Bennett mischiano gli elementi, forse non avevano mai sperimentato.
L’immortale Hulk nn. 1-12
di Al Ewing e Joe Bennett
traduzione di Pier Paolo Ronchetti
Panini Comics, 2018-2019
Spillati, 24 pp., colore
2,00 € cad.
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