Dopo il successo di The Wicked + The Divine – serie Image Comics dove si univa culto della celebrità, angst adolescenziale, esoterismo e citazioni coltissime – Kieron Gillen ci riprova con Die, co-creato con l’illustratrice francese Stephanie Hans.
Pensate a una sorta di Jumanji strutturato come It ma ambientato all’interno di una sessione di Dungeon & Dragons e avrete immediatamente modo di stilare in maniera precisa i motivi per leggere (o evitare come la peste) questa nuova proposta.
Preso per minimi termini si ha la l’impressione di un concept messo in piedi per titillare un determinato tipo di lettore. I riferimenti sono tutti riconducibili a proprietà intellettuali che negli ultimi anni hanno goduto di grande popolarità, incastrandosi alla perfezione in una sorta di mainstream che vorrebbe tanto credersi di nicchia.
Il romanzo di Stephen King vive una (perpetua) seconda giovinezza, sospeso tra la nostalgia dei post-trentenni ancora traumatizzati dalla versione televisiva e la nuova rilettura wannabe indie (budget minuscolo + endorsement di Xavier Dolan) di Andrés Muschietti. Per quanto riguarda Jumanji, a nessuno frega davvero qualcosa del remake per multisala, tutti vogliono tornare ad avere dodici anni per giocare con la recente replica del gioco da tavolo al centro del film.
Stessa cosa la si potrebbe dire di D&D, che da passatempo stigmatizzante per eccellenza è diventato uno dei perni centrali dell’intrattenimento odierno (contate in quante produzioni riesce a essere citato). Kieron Gillen ha pensato bene che la vacca non fosse stata ancora munta abbastanza e ci si è buttato senza pensarci due volte, creando Die.
La trama è presto riassunta. Un gruppo di adolescenti si ritrova a fare una sessione a un gioco di ruolo piuttosto particolare, in grado di trasportarli in un mondo fantastico ma estremamente pericoloso. Vengono dati per dispersi fino a quando, dopo diversi anni, riescono a tornare a casa. Non tutti e non con tutte le parti del corpo al loro posto. Non sappiamo nulla di cosa possa essere successo in quell’intervallo di tempo, solo che deve essere stato orrendo.
In ogni caso la vita procede e ognuno si fa la sua (triste) vita. Li ritroviamo adulti, ognuno formato da un percorso di crescita andato in maniera diversa da come ci si aspettava, quando improvvisamente il gioco richiede nuovamente la loro presenza. Saranno in grado, ormai stanchi e sconfitti dalla vita, di affrontare nuovamente i pericoli di un universo dove la morte è dietro a ogni angolo?
Questo a grandi linee l’incipit narrativo di Die, da cui parte una narrazione divisa principalmente in due grosse sezioni. Una dedicata all’ovvio worldbuilding e l’altra all’introspezione dei personaggi. L’aspetto più interessante di tutta l’operazione è forse proprio il mondo in cui viene ambientata tutta la vicenda, magari non cesellato di fino ma molto diverso da quello che ci si sarebbe aspettati.
I due autori mettono in piedi un cosmo davvero crudo e sgradevole, dove la minaccia è costante e il senso della catastrofe permea ogni cosa. La classica guerra perpetua che dilania il regno non ha nulla di eroico o mitologico. La morte brutale e insensata è ovunque. Stephanie Hans sfrutta il suo tratto pittorico per rendere evocativa ogni apertura di campo sull’universo che ha contribuito a creare, con mestiere e convinzione quanto bastano senza mai però distaccarsi troppo dal cliché dell’illustrazione fantasy.
L’idea di una Prussia meccanica popolata da automi e draghi robotici è più vicina al new weird che al fantasy tradizionale, ma tutta la carica eversiva di una simile intuizione viene vanificata dalla volontà di metterla su pagina scimmiottando stili e composizioni perfetti per la copertina di qualche manuale di un generico gioco di ruolo. Abbiamo capito tutti che lo spunto è quello, ma il gioco finisce presto per stancare. Oltretutto c’è chi l’ha fatto (molto) meglio, senza sporcarsi la mani una sola volta con scelte banali o troppo facili.
È palese come la spettacolarità di alcune sequenze sia debitrice della scelta di voler rileggere l’iconografia fantasy tradizionale e che l’illustratrice sia in grado di infondere potenza e drammaticità ai passaggi che più lo richiedono. Alla stessa maniera le figure femminili sono tratteggiate in maniera certosina e sempre attenta, in maniera molto diversa da quanto l’autrice riesca a fare con le loro raffazzonate controparti maschili, contribuendo spesso a una resa della tavola davvero efficace e puntuale.
Peccato che questi stili di disegno – pittorici e/o molto sovraccarichi – vadano sempre a cadere sullo stesso punto: se le splash page possono ambire a sfruttare a pieno le potenzialità della tecnica in questione, le tavole di raccordo finiranno sempre per essere legnose e pesanti. Come se sulla pagina ci fosse più roba di quella effettivamente richiesta. Dopotutto rendere plastico e iconico uno scontro tra un pugno di avventurieri e una creatura gigante è una cosa a cui possono ambire in molti, fare la stessa cosa in una tavola di “teste parlanti” è davvero per pochi.
Detto questo rimane indubbio che il lavoro di worldbuilding sia davvero interessante, anche perché si tratta di un palcoscenico atipico per l’attenzione con cui la scrittura scandaglia l’interiorità dei personaggi, davvero difficile da trovare in altre operazioni simili. Se nel primo numero li conosciamo come sbruffoncelli adolescenti, convinti di avere il mondo ai loro piedi, da grandi abbiamo a che fare con un pugno di depressi insoddisfatti. C’è chi ha problemi in casa, chi detesta quello che fa, chi semplicemente vorrebbe altro nonostante le apparenze suggerirebbero il contrario.
Lo sviluppo del plot principale avanza in maniera piuttosto lenta e farraginosa per tutti i primi sei numeri della serie ma, grazie proprio alla sensibilità con cui sono tratteggiati i protagonisti, i momenti ad alto tasso emotivo non mancano. Spesso si finisce a un passo dal kitsch, per esempio quando si inserisce un personaggio che trae la sua forza da quanto è depresso in quel preciso momento, ma l’idea di dare tanto peso all’introspezione in un contesto che solitamente premia solo il progredire della narrazione è quantomeno encomiabile.
Per ora Die rimane solo un buon esperimento, forse troppo debitore dei tempi che corrono per fare davvero suonare i radar di chi è in cerca della prossima grande serie a fumetti da seguire a tutti i costi. La scrittura rimane comunque ottima, soprattutto se ci cerca qualcosa che voglia in tutti i modi distaccarsi dai cliché del fantasy tradizionale. A ricordarci a che gioco stiamo giocando ci pensano le tavole di Stephanie Hans, non sempre impeccabili e allineate alla narrazione, ma sicuramente suggestive quanto basta.
Die vol. 1 – Fantasy Heartbreaker
di Kieron Gillen e Stephanie Hans
Image Comics, giugno 2019
brossura, 160 pp., colore
9,72 €
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