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Hi, How Are You? I fumetti di Daniel Johnston

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Lo scorso 10 settembre Daniel Johnston ci ha lasciato. Definito come il più grande outsider tra i grandi cantautori americani, ha lasciato un segno inequivocabile e duraturo nella scena alternative americana, diventando tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta un nome di riferimento per la scena indipendente americana, ma anche un grande appassionato – nonché autore – di fumetti.

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Kurt Cobain e il lo-fi
Il 24 settembre del 1991 i Nirvana pubblicarono Nevermind: in poche settimane il disco prodotto da Butch Vig e pubblicato dalla Geffen divenne disco d’oro, scalzando dalla classifica di Billboard Michael Jackson. Come ricorda Michael Azerrad nell’introduzione a Our Band Could Be Your Life – titolo di una canzone dei Minutemen, tradotto sapientemente in italiano con il titolo American Indie 1981-1991. Dieci anni di rock underground – l’episodio spinse la giornalista musicale Gina Arnold a proclamare «Abbiamo vinto».

Il noi a cui si riferiva era una rete di fanzine, stazioni radiofoniche indipendenti, piccoli negozi, distributori, etichette, band e soprattutto appassionati, che si muovevano ai margini del mercato musicale. Nervermind, in realtà, era quasi il canto del cigno di un mondo che nel decennio successivo alla nascita del grunge aveva macinato chilometri a bordo di scalcagnati furgoni in giro per gli Stati Uniti, portando in ogni angolo una visione musicale altra, ma soprattutto un’idea: quella del do it yourself.

Fu proprio Kurt Cobain – prima che musicista, appassionato e fan sfegatato di alcune band che agitavano la scena indipendente americana – a indossare una t-shirt su cui troneggiava una rana stilizzata che gracchia «Hi, How Are You?». Quella rana – Jeremiah, the Innocent – era stata disegnata da Daniel Johnston per la copertina del suo disco del 1983 Hi, How Are You?. Distribuito su cassette autoprodotte e registrato in maniera amatoriale (lo-fi “suona” meglio), l’album procurò un esaurimento nervoso al cantautore, che a 22 anni aveva già dovuto combattere con i suoi fantasmi personali. Daniel, infatti, era affetto da un disordine bipolare e da schizofrenia, che già durante il college avevano minato la sua vita sociale e la sua salute.

Una vita divisa equamente tra il litio, l’olanzapina e centinaia di sigarette e lattine di Coca-Cola. Una vita inquieta tormentata da psicosi maniacali e continue depressioni, che condussero il cantautore spesso sull’orlo del suicidio, nel pieno dei suoi picchi creativi e da cui si trascinava a stento fuori componendo le sue canzoni dedicate all’amata Laurie e ai personaggi che abitavano il suo universo infantile. La sua era una vita in cui lo scontro tra bene e male veniva sublimato in mitologie personali popolate da gatti, improbabili supereroi e anatre spaziali. Ma, nonostante i successi musicali e l’attenzione del mondo artistico, la musica per Daniel era un hobby, la sua vocazione sin dalla tenera età di otto anni erano i fumetti.

I fumetti di Johnston
Daniel ricordava: «Ho cominciato a disegnare fumetti quando avevo otto anni. Qualche volta erano basati sul mio gatto. Rendevo il mio gatto un supereroe. Qualche volta disegnavo storie ispirate alla Bibbia, amavo Godzilla e King Kong. Mia madre mi comprava in continuazione quaderni». Daniel era nato a Sacramento, California, in una famiglia profondamente religiosa e normalissima, di quelle che insegnano ai propri figli a suonare il piano e a coltivare l’arte.

Nonostante, l’incontro con la musica fosse stato precoce, grazie alle lezioni di piano della sorella Margy e alla sua passione per i Beatles, il suo primo interesse furono il disegno e i fumetti. Con la sua prima serie di fumetti autoprodotta intitolata Cool Comics Presents, Johnston creò una mitologia personale, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Un universo quello di Johnston in cui il bene e il male combattevano attraverso le gesta di mostri, dinosauri e supereroi, in cui Casper il fantasma e la rana Jeremiah si muovevano in un mondo ostile abitato da demoni, ma in cui il bene vinceva sempre.

Era un riflesso della meraviglia che il piccolo Daniel provava quando suo padre gli parlava della Seconda guerra mondiale e della sua esperienza come pilota dei Flying Tigers. William Johnston trasmetteva a Daniel i valori cristiani attraverso l’epopea della guerra: l’eterno conflitto tra le forze celesti e quelle infernali diventavano il fil rouge che legava le ossessioni grafiche di Daniel, ma soprattutto questa passione per la guerra fece sì che il suo supereroe preferito fosse Capitan America. Di conseguenza, Jack Kirby divenne il modello della sua arte.

Il Cap di Daniel Johnston era una copia carbone di quello kyrbiano, soprattutto di quello più maturo. L’eccessività del segno di Kirby veniva filtrata attraverso l’occhio infantile di Daniel e le psicosi adulte: circondato da demoni o alle prese con vampiri, attorniato da papere e fantasmi. Le tavole e i disegni di Johnston mostravano un Capitan America sotto acido, dove le distorsioni anatomiche erano frutto delle alterazioni percettive e delle manie.

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Eppure, in quei fumetti sghembi, posticci, dove la tecnica mista diventava un segno dell’urgenza fisica di Daniel di mettere su carta i suoi fantasmi, vi era tanto di quel fumetto underground americano che di lì a poco avrebbe colonizzato anche il fumetto mainstream, convincendo la Casa delle Idee ad affidare i suoi eroi ad autori outsider come Bertozzi, Gurewitch, Millionaire (già fantastico su Batman Black & White), Brown, Hornschemeier eccetera. Autori che hanno portato all’attenzione un segno radicale che affondava nelle fanzine degli anni Ottanta e nei fumetti lisergici dei Settanta e che Dan Nadel ha saputo capitalizzare nella magnifica avventura della Picture Box Inc.

Daniel riversava in una struttura biblica la sua passione per i fumetti: totalmente impermeabile ad altri interessi che andassero al di là del territorio salvifico delle musica e dell’arte, continuava a disegnare i suoi fumetti, inventando plot sempre più complicati. L’editor Marie Javins ricorda così la passione di Johnston per i fumetti: «Una volta mi disse che Jack Kirby e sua moglie erano in paradiso a leggere fumetti. Ha ancora questa memoria incredibile per alcune sequenze lette quando era bambino. È capace di raccontarti le differenze tra alcuni combattimenti tra Cap e il Teschio Rosso, che ha disegnato, inchiostrato e colorato».

Daniel scarabocchiava continuamente: migliaia di taccuini, fogli e libri, una forma ossessiva con cui curava le depressioni sempre più severe che nell’adolescenza lo colpivano. Uno di questi fumetti, intitolato High School Band, esprimeva il desiderio di diventare il trombettista della banda della scuola. La storia – due semplici pagine – si concludeva con un’immagine ritagliata da un fumetto di Casper, in cui il dolce fantasmino, uno degli alter ego di Daniel, acquistava una chitarra.

La depressione
Tra la musica e l’arte Daniel scelse la seconda, frequentando i corsi d’arte alla East Liverpool nell’Ohio, ma le crisi divennero più frequenti e la depressione con cui combatteva sin dall’adolescenza tracimò in qualcosa di più serio e pervasivo. Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta Johnston iniziò a scrivere canzoni, incoraggiato da Laurie Allen. Fu uno dei suoi periodi più prolifici, e i brani venivano registrati con un registratore a cassette Sanyo, pagato 59 dollari. Dopo aver registrato le basi con strumenti di fortuna, Daniel vi aggiungeva le voci. Erano brani esili, in cui la voce fragile e gracchiante si accartocciava su melodie semplici, ma efficaci: ritratti che brillavano per l’estrema autenticità e innocenza. La sua musica attirò così la curiosità di molte persone, che acquistarono le cassette autoprodotte. Le copertine disegnate a mano, con una penna biro, erano un’emanazione delle fantasie infantili: rane, fantasmini, pugili sprovvisti della calotta cranica.

Nonostante ciò, Daniel non riuscì a completare gli studi, e la depressione e gli episodi maniacali lo convinsero a spostarsi a Houston dal fratello: fu nel garage di Dick che registrò forse la sua opera più importante, Yip/Jump. Ma anche a Houston non andò bene: il fratello lo mandò a San Marcos, dove abitava la sorella Margy. Qui compose e registrò Hi, How Are You?, un album sofferto, in cui si avvertivano i contrasti con la famiglia e l’acuirsi della malattia. Dopo un crollo nervoso, fuggì con un circo e vendette pop-corn per nove mesi, finché non arrivò ad Austin, in Texas, all’epoca una sorta di mecca della musica indipendente americana.

Da quel momento in poi la vita di Johnston alternò momenti di euforia creativa immerso nell’affetto della comunità musicale di Austin a lunghi periodi di degenza in ospedali psichiatrici. L’incontro con le droghe e soprattutto con l’acido lisergico a un concerto dei Butthole Surfers non gli fu d’aiuto. Da quel momento in poi, Daniel Johnston fu sempre sotto acido. La musica non lo tenne lontano dai comics: continuò a disegnare e curare ogni aspetto grafico delle sue produzioni, intensificando il rapporto ossessivo con le creature che popolavano il suo mondo: fu allora che Jeremiah the Frog divenne la sua mascotte ufficiale.

A quel punto, la storia di Daniel intrecciò quella dell’industria musicale sino alla notorietà degli anni Novanta, un punto di non ritorno, che catalizzò sul cantautore di Sacramento attenzioni che rompettero l’incanto infantile e la jouissance della sua musica. Le produzioni, sempre meno rispettose dell’attitudine casalinga e intima, regalavano una patina dolciastra alle nuove canzoni: diversi produttori lavorarono con Daniel cercando di catturare la magia delle prime opere.

Il vero esordio nel fumetto
Ormai, le cure con il litio non permettevano al musicista di suonare i suoi brani, i tremori si facevano sempre più evidenti. L’ossessione per i comics non si spense, anche se il primo fumetto ufficiale apparve solo nel 1997, quando realizzò un progetto con Ron English e Jack Medicine: The Hyperjinx Trycicle. Ma il vero esordio è più recente: nel 2012 con Space Ducks – An infinite Comic Book of Musical Greatness, pubblicato negli Stati Uniti da Boom! Studios, a cui ha fatto seguito una vera e propria colonna sonora.

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Il fumetto ha come protagonista un’anatra antropomorfa che – guarda caso – deve combattere Satana: è un tripudio di tutte quelle ossessioni/passioni che Johnston coltivava da fanciullo. Ci sono i sci-fi movie di serie b, la guerra, l’aviazione, l’eterno conflitto tra bene e male, gli esseri antropomorfi eccetera. Lo stile è pienamente johnstoniano: un weird autentico filtrato attraverso la sensibilità e la meraviglia della Golden Age, con i suoi colori acidi e le pose eccessive. L’influenza di Kirby resta manifesta, ma qua e là compaiono riferimenti al minimalismo oggettivista di Steve Ditko, altro grande outsider della pop-culture americana.

In realtà, i fumetti anarchici di Daniel Johnston, al di là della loro intrinseca qualità, sono esemplari nel legare insieme due diversi percorsi: quello sull’autenticità e quello sul graphic medicine. Nel loro Faking It, Hugh Baker e Yuval Taylor hanno cercato di condurre una ricerca sul concetto di autenticità nella musica popolare, concentrandosi su alcuni casi di studio. Il fine era quello di capire perché l’autenticità fosse un bene così ricercato dagli ascoltatori:

«Quando si dice che un’incisione o un’interpretazione […] è autentica, si potrebbe alludere all’autenticità rappresentativa, ovvero a una musica che corrisponde esattamente a ciò che dice di essere. […] Daniel Johnston è un esempio di musicista che ha acquisito un seguito di culto basato sul suo stato di outsider. […] Sembra che la sua musica porti con sé una carica di onestà e di schiettezza che i fan dell’indie trovano sempre più difficile riscontrare in musicisti più raffinati.»

L’autenticità della produzione musicale di Johnston si può allargare senza problemi alle espressioni grafiche, poiché la matrice è la stessa. Se l’immediatezza delle produzioni lo-fi dei primi anni Ottanta arrivavano dritte al cuore degli ascoltatori, i fumetti forse in maniera più “crudele” erano una rappresentazione ancora più intima della sofferenza: la battaglia contro Satana (non è un caso che il fondamentale documentario del 2005 avesse come titolo The Devil & Daniel Johnston) è sintomatologica della dissociazione psichica di Daniel. Il ricorso continuo ad alter ego cartacei (Casper, Jeramiah e il pugile Joe) o a figure “sussidiarie” di genitorialità mostrano invece con estrema sincerità i conflitti e i turbamenti del giovane Johnston. La mancanza di un’architettura autobiografica – di un racconto di sé e quindi di un’autocoscienza forte – sono un valore aggiunto.

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Potremmo avvicinare l’opera di Johnston a quella di Justin Green così come a quella di Craig Thompson (la presenza forte dei valori e dei precetti della Chiesa di Cristo a cui aderivano con fervore i genitori del cantautore), ma c’è sicuramente uno iato, una distanza che pone quei lavori in un orizzonte in cui l’autocoscienza vuole rappresentare qualcosa all’interno di una comunità artistica definita che dà forma al processo creativo in una forma anche di falsa coscienza e di riscrittura creativa della realtà. Daniel Johnston trasfigura la realtà e “risolve” i suoi conflitti interiori in un’urgenza da grafomane, ricoprendo in maniera ossessiva ogni superficie di segni e parole (non ultimo il basamento della Statua della Libertà, ricoperto in una della sue crisi psicotiche di grafemi cristologici che gli procurarono un bel free ride da New York e l’ennesimo internamento psichiatrico).

Lo stile weird e brutale dei fumetti personali di Johnston lo pone di certo in continuità estetica con una scuola molto florida del fumetto indipendente americano che ha trovato negli ultimi anni voci eccezionali in autori come Dash Shaw e Frank Santoro, ma al contempo è anche in discontinuità, poiché non sottende alcuna teoria dell’arte e dello storytelling: i suoi fumetti sono manifestazioni maniacali di un’urgenza profonda e non celebrativa del sé.

La loro estrema autenticità è un valore aggiunto che li rende esempi perfetti di graphic medicine. L’elemento ingenuo, brutalista e naïf traccia i confini di un mondo fuori di sesto, dove il weird traccia la presenza di un esterno (outside) irrappresentabile se non attraverso un tipo di arte che pone in relazione mondi distanti, elementi eterocliti in un mash-up situazionista eppure estremamente autentico perché non ponderato, non studiato e creato per stupire, ma per sostenere un mondo altrimenti destinato al crollo, all’implosione e alla violenza.

Non c’è alcuna consapevolezza da informatore, nessuna volontà di sensibilizzare e descrivere la patologia mentale nei fumetti di Johnston, c’è invece il tentativo disperato di combattere la malattia con l’arte, di mettere a tacere le voci, di darle corpo e rimettere in sesto un mondo dove il bene vince sempre, in maniera ingenua e infantile, ma soprattutto disperata: come se Capitan America potesse risolvere tutto.

Come altri grandi outsider della musica e dell’arte, Johnston si è conquistato un posto, e la sua morte improvvisa dovuta a un infarto lascia un vuoto enorme in un tempo come il nostro, nel quale la rappresentazione spettacolare del sé e l’artificiosa creazione di un mondo fatto di immagini hanno quasi destituito d’importanza qualsiasi manifestazione d’autenticità artistica.

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