20 anni fa, il 17 luglio del 1999, lo Studio Ghibli fece uscire un film mai abbastanza ricordato e che, nonostante non abbia ottenuto il successo e la risonanza di titoli come Una tomba per le lucciole, Porco Rosso o La città incantata, ha comunque un rilievo che va oltre lo Studio per abbracciare l’animazione tout court.
Si tratta di I miei vicini Yamada del compianto Isao Takahata. È la storia di una famiglia nel Giappone contemporaneo (del 1999): papà Takashi, mamma Matsuko, il figlio maggiore Noboru, la piccola Nonoko e la nonna Shige. Tutti alle prese con i piccoli eppure giganti dilemmi quotidiani, dalla cotta a scuola alla spesa, dall’essersi dimenticato l’ombrello in un giorno di pioggia a voler vedere una trasmissione che il resto della famiglia non intende vedere.
Ecco sei motivi che spiegano perché è giusto celebrarne l’importanza a vent’anni dall’uscita.
1 – Un periodo particolare
Nel 1997 esce Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Un successo clamoroso, un’opera epica, virtuosa, definitiva. Così radicale da sfinire lo stesso Miyazaki che pare volersi ritirare dalle scene. Ghibli, insomma, è a un bivio, perché l’erede designato, Yoshifumi Kondō (l’autore de I sospiri del mio cuore), è morto da poco e l’ultimo film di Takahata risale al 1994 (Pom Poko).
Quando nel 1999 esce nelle sale il tanto sospirato nuovo film di Takahata, tutti ne rimangono un po’ stupiti perché è qualcosa di assolutamente distante da quanto fatto finora dallo Studio. La particolarità del film è indicativa di due elementi.
Il primo riguarda lo Studio in sé che, come si diceva, vive un periodo di transizione e che, tramite il contesto creativo e intellettuale de I miei vicini Yamada fa un passo decisivo verso un futuro ancora più incredibile. Non a caso il successivo film sarà La città incantata, che traghetterà, grazie all’aiuto di John Lasseter, lo Studio negli States e quindi all’Oscar e quindi al successo mondiale.
Il secondo elemento riguarda più strettamente Takahata. Il desiderio sperimentale che attraversa la pellicola è indicativo di una volontà artistica che vuole essere frattura e al tempo stesso momento rigenerativo.
2 – La struttura
I miei vicini Yamada è tratto dal manga Nono-chan di Hisaichi Ishii. È uno yonkoma (in pratica l’equivalente giapponese della striscia a fumetti), composto da brevi capitoli autoconclusivi, ma che a loro volta sono pezzi di un mosaico più ampio e complesso. Ed è proprio su questa struttura che si basa il film.
La particolarità, dunque, è di avere l’apparenza di un film a episodi, cosa mai vista nella produzione Ghibli, ma al tempo stesso un’unità e una compattezza incredibili se considerato nel suo insieme. Tutto merito dello stesso Takahata e della sua lucida visione su ciò che il film doveva essere. Non è un caso che, successivamente, parteciperà al film Fuyu no hi (2003), opera collettiva ispirata agli haiku. E a proposito di haiku…
3 – Haiku
Sempre in qualche modo legato alla struttura narrativa, c’è da sottolineare come ciò che ritma il film stesso non siano solo gli episodi narrativi ma anche e soprattutto gli haiku che ne delineano i significati.
Lo haiku, per chi non lo sapesse, è un componimento poetico nato in Giappone, avente la particolarità di essere molto, molto breve. Super-sintetico, insomma. Ciascun episodio che va a comporre la struttura de I miei vicini Yamada è scandito, dunque, da un haiku specifico. Ciò rivela che Takahata, pure realizzando un film apparentemente leggero e quasi per bambini, nasconde una profondità intellettuale che è in totale coerenza con le sue opere precedenti.
Questa scelta non è nuova, nell’animazione giapponese. Un esempio illustre e calzante è Tokyo Godfathers di Satoshi Kon, sebbene non sia così radicale come I miei vicini Yamada.
4 – Lo stile
Un’altra particolarità de I miei vicini Yamada è lo stile grafico adottato per l’animazione. A differenza di tutti i titoli precedenti dello Studio Ghibli, ma anche di tutte le opere a cui lo stesso Takahata ha lavorato, I miei vicini Yamada opta per una messa in scena innovativa e ardita, caratterizzata da fotogrammi colorati in maniera tenue ed evocativa, da un character design volutamente deformato e da sfondi non più perfetti nella loro precisione quasi iperrealista, ma astratti e appena accennati.
Il risultato restituisce la sensazione di un modo di fare animazione molto legato a tecniche tradizionali, ma in realtà per realizzare il film è stato fatto un ampio uso del computer. Un altro cortocircuito takahatiano: cercare l’effetto tradizionale utilizzando strumenti tecnologici. Questo stile sarà poi adottato nuovamente, ma con approcci diversi, nell’ultima, meravigliosa opera firmata dall’autore: La storia della principessa splendente.
5 – Ibrido
Se è vero che il desiderio di realizzare opere ibride è sempre stato insito nello Studio Ghibli (si pensi a come Miyazaki sia stato in grado di mescolare con efficacia avventura e introspezione, favola e tracce di realismo), è particolarmente veritiero in I miei vicini Yamada.
Di primo acchito, lo spettatore che si presta alla visione del film potrebbe interpretarlo come una commedia dolceamara sulla vita e le sue insensatezze. Ma Takahata è stato autore raffinato e dietro la facciata della commedia, seppur sofisticata, posiziona elementi di uno spessore tragico. Come nell’episodio in cui la nonna fa i conti con la morte: qui il peso di riflessioni così drammatiche emerge all’improvviso, quasi inaspettatamente.
Potrebbe risultare un momento alieno, invece è perfettamente integrato e questo approccio caratterizza l’intera pellicola. La sensazione finale di chi la guarda, quindi, è di trovarsi immerso in un’opera esistenzialista mascherata da parata scherzosa.
6 – Passaggi
C’è una sequenza, in I miei vicini Yamada, che mi lascia sempre attonito. Il papà deve affrontare una banda di teppistelli che disturba il quartiere. Nel momento in cui esce di casa, l’intero universo del film muta di colpo. Il character diventa realista, la musica fortemente drammatica. L’opera da deformed e caricaturale si tramuta in un istante nel suo esatto contrario.
Poco dopo, di fronte alla difficoltà del papà, interviene l’intera famiglia capitanata dalla nonna e tutto torna di nuovo come prima. In questo istante di passaggio si nasconde la potenza di un autore come Isao Takahata, poiché in quell’attimo si supera un confine che permette allo spettatore di “entrare” nel film e identificarsi in esso, nelle sue dinamiche, nel suo linguaggio, nel suo significato.
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