«Che cosa è successo a Barry Windsor-Smith?» titolava nel 2013 un articolo di Tom Scioli per il magazine americano specializzato in fumetti Comics Alliance, prima di analizzare l’incredibile carriera dell’autore britannico fino a quel punto. L’ultimo lavoro pubblicato risaliva infatti al 2000 – una storia breve –, dopodiché erano seguite solo un paio di copertine negli anni immediatamente successivi. Da quell’articolo nulla è cambiato, e notizie di nuovi lavori di Windsor-Smith si fanno ancora attendere.
Fin dagli esordi, del resto, l’autore classe 1949 ha sempre fatto capire di non trovarsi a suo agio nelle logiche iper-produttive del mercato statunitense del fumetto – in particolare quello supereroistico –, prendendone spesso le distanze e rifuggendone i ritmi commerciali per lavorare alle sue tavole con i suoi tempi e i suoi modi. E magari per lasciare spazio anche a qualcos’altro, come la pittura.
In fondo la sua formazione artistica è stata a tutto tondo. Barry Windsor-Smith ha sempre affermato di aver copiato fin da bambino tanto Wally Wood quanto Leonardo Da Vinci: «Percepisco poca differenza tra quelle che sono chiamate belle arti e quelle che sono considerate in altro modo, e, anzi, dato che ora il soffitto della Cappella Sistina è limpido e luminoso, vi suggerisco di notare i forti legami tra le figure e i colori di Michelangelo e quelli dei migliori fumetti di supereroi, per esempio quelli di Jack Kirby».
Oltre all’arte c’era però anche la musica: «L’unica cosa rilevante che all’epoca potevi fare in Inghilterra era essere un rock and roller, che per me era una possibilità, ma scelsi di fare fumetti. L’ho rimpianto per molto tempo» ha raccontato in seguito l’autore. «Vorrei non essere stato così dannatamente caparbio nel diventare un disegnatore di fumetti, perché la vita da allora è diventata una rottura. Se fossi diventato musicista, magari ora sarei morto di overdose, ma almeno non ci sarebbero state rotture, nel frattempo. Mi sarei divertito a sbronzarmi e fare rock and roll. Che bello! Invece sono stato tutto il tempo seduto a inchiostrare maledette pagine a fumetti.»
Gli esordi su Conan
Nel 1967, quello che all’epoca era ancora noto solo come Barry Smith esordì nel mondo del fumetto americano con una serie di piccoli lavori per Marvel Comics fortemente influenzati dallo stile espressionistico di Kirby. Del resto, il giovane disegnatore si era offerto alla Marvel proprio perché era la casa editrice che pubblicava i lavori del “Re dei comics”, il suo disegnatore preferito.
«Mi sarebbe piaciuto essere vicino a Jack Kirby fisicamente» avrebbe rivelato in seguito. «Non come se dovesse fare un disegno a una convention, tipo “Oh, Jack, fammi un disegno!”, ma in quelle volte in cui creava sul serio. Mi sarebbe piaciuto essere presente quando inventò Silver Surfer e quando creò Galactus, magari dicendo “Okay, ci metterò questo tipo enorme che va in giro a mangiare pianeti”.»
Il primo incarico importante arrivò nel 1970, quando inaugurò la serie Conan the Barbarian basata sul personaggio fantasy di Robert E. Howard. Il modo in cui il disegnatore arrivò sulla testata però fu molto casuale, come è stato raccontato più volte da Roy Thomas, sceneggiatore e curatore di tutto ciò che riguardava Conan in Marvel. La prima scelta dello scrittore era infatti John Buscema, che però sarebbe costato troppo per una testata che Stan Lee – all’epoca caporedattore di Marvel Comics – considerava non di punta.
Anche la seconda scelta, Gil Kane, aveva tariffe molto alte, mentre disegnatori più economici come Don Heck o Dick Ayers – proposti da Lee – non convincevano Thomas. L’unico a farsi avanti con delle prove fu Bernie Wrightson, che piaceva allo sceneggiatore ma non a Lee, così si arrivò alla soluzione più semplice: il giovane Barry Smith, appunto. Che, casualmente, qualche mese prima, aveva disegnato una storia autoconclusiva scritta da Thomas con protagonista Starr l’Uccisore, un personaggio alla Conan che si muoveva in un mondo sword-and-sorcery.
Nonostante la scelta di ripiego, Smith avrebbe legato in modo perentorio il suo nome a quello di Conan, disegnandolo per circa 7 anni. Nessun altro personaggio sarebbe mai stato tanto sinonimo di Barry Windsor-Smith come il Barbaro, negli anni a venire. Una fortuna, a suo dire, visto che gli permise di non disegnare supereroi: «Potevo metterci più umanità in quelle storie, perché [Conan] non volava, non era onnipotente né lanciava energia dalle dita. Quindi mi andava bene».
Il lavoro di Smith per la serie – e per le storie di Conan apparse su altre testate come Savage Tales – non si limitò al disegno. Thomas e Smith lavoravano già seguendo il “metodo Marvel”, con lo scrittore che forniva solo una breve sinossi al disegnatore per poi aggiungere i dialoghi solo a tavole finite, ma, a un certo punto il secondo iniziò a intervenire in modo diretto anche nell’ideazione delle storie.
Pian piano, inoltre lo stile di Smith divenne più illustrativo, più vicino a quelle “belle arti” sulle quali si era formato da ragazzo. Le figure si fecero più aggraziate, e il tratteggio divenne più fitto e particolareggiato. Non era insolito che l’autore ridisegnasse più volte intere vignette o addirittura sequenze, fino a trovare la giusta quadratura. Non solo per una sorta di soddisfazione personale, come avrebbe confessato anni dopo a Gary Groth del The Comics Journal:
«Immagino che non sia solo una cosa personale, tipo “se non riesco a soddisfare le altre persone allora non posso soddisfare nemmeno me stesso”. Non direi che il mio obbiettivo sia soddisfare le altre persone, ma non lo faccio per me stesso. Di certo mi piace essere inondato dai bagliori del titolo “Artista”, ma mi considero anche un intrattenitore… non che questo sia il mio unico interesse. Non sono qui solo per intrattenere; sono qui per fare di tutto. Ma se non catturassi i lettori – e se fallissi nel far ridere o far riflettere qualcuno o solo fargli apprezzare un disegno di per sé o per la combinazione dei colori –, se per loro non funzionasse, allora definirei il prodotto un fallimento. Questo non significherebbe necessariamente fallire come disegnatore, ma soltanto non avere successo come intrattenitore.»
Il capolavoro di Thomas e Smith fu probabilmente Chiodi rossi, pubblicata nel 1973 sul numero 2 di Savage Tales in un bianco e nero in grado di mettere ancora di più in risalto la profondità del segno di Smith, che tra gli spazi bianchi sembrava quasi sollevarsi dalla pagina, come in un bassorilievo. Quella fu una delle rare occasioni in cui Thomas permise al disegnatore di lavorare secondo i suoi tempi – quasi senza nessuna scadenza concordata – e di inchiostrarsi da solo.
A un certo punto, però, qualcosa si incrinò, e in Smith iniziò ad affacciarsi un vago senso di insoddisfazione. Lasciò una prima volta la testata di Conan, per poi ritornarvi brevemente prima di abbandonarla del tutto. Disegnò anche altri personaggi Marvel come gli Avengers, Ka-Zar o «tutti quei dannati personaggi a cui non avrei dato due penny», come li avrebbe definiti negli anni successivi.
«Stavo perdendo interesse nei fumetti in generale e in quelli Marvel in particolare, credo, perché io ne ero proprio nel bel mezzo» ha raccontato Smith. «Con Kirby che se ne era andato e Stan che stava diminuendo le sue sceneggiature, ci fu un cambiamento di stile sia nelle storie che nei disegni che io percepii come un passo all’indietro anziché un progresso. Così sentii di non riuscire più a tollerare quella situazione. […] Avevo bisogno di essere libero dalle restrizioni e dalle politiche imposte dai dettami per la creazione di intrattenimento per bambini.»
Data la situazione non soddisfacente, l’autore decise di dedicarsi alla pittura e all’illustrazione attraverso il lavoro per una propria etichetta, fondata nel 1974 e chiamata Gorblimey Press. Proprio in quel periodo decise inoltre di aggiungere il cognome di sua madre (Windsor) a quello di suo padre (Smith), diventando definitivamente Barry Windsor-Smith.
La differenza di approccio fra i due ambiti fu complicata: «[…] per potermi trasformare da un disegnatore di fumetti piuttosto bravo in una persona che può realizzare opere da cavalletto, così come le chiamo, le differenze nella mentalità e nel processo produttivo furono assolutamente notevoli. Non c’è paragone. Solo perché un tizio sa guidare un’auto a 320 chilometri orari sul circuito di Indianapolis non significa che sappia far volare un aereo a 320 chilometri orari. Fondamentalmente stai facendo la stessa cosa, andare molto velocemente da A a B, ma è un modo del tutto diverso di pensare, agire e reagire».
I mutanti Marvel
Il ritorno al fumetto però non si fece attendere e avvenne nel 1983, sempre in Marvel. Windsor-Smith mise mano a molti dei personaggi principali e secondari della casa editrice, da Daredevil ai Fantastici Quattro, passando per Iron Man e Machine Man.
Ma i lavori più importanti furono legati ai personaggi degli X-Men: Vitamorte, storia in due parti ideata con Chris Claremont e incentrata su Tempesta, e Arma X, la saga che raccontò per la prima volta una parte delle misteriose origini di Wolverine, da lui interamente orchestrata. Non a caso, tutte storie poco supereroistiche, che raccontavano soprattutto le persone dietro le maschere.
Il passaggio ad autore unico non fu però così ovvio:
«Perlopiù, credo che il motivo per la mia iniziale reticenza a diventare sceneggiatore di me stesso fosse per una ingenua accettazione del sistema di produzione dei fumetti di supereroi… cose come “lui è l’inchiostratore” e “lui è lo scrittore”. Il carico di lavoro doveva essere suddiviso per fare uscire nuovo materiale ogni mese. […] Quando feci questo o quell’altro albo riempitivo per una serie o per l’altra, divenne tremendamente evidente come il mio storytelling e i miei disegni operassero a un livello del tutto diverso da quello delle stesse serie regolari, e i miei riempitivi divenissero anomalie nel flusso. Fu più o meno in quel periodo che realizzai che, se volevo continuare a fare passi in avanti con il disegno per i fumetti, era meglio prendere il controllo dell’intera gamma di colori… smetterla di trastullarmi come avevo fatto per anni e iniziare a fare sul serio. Così nacque il BWS scrittore.»
Sia Vitamorte II che Arma X furono così realizzate da Windsor Smith nella loro interezza – chine e colori compresi – mettendone ancora una volta in luce la grande maniacalità nella cura di ogni dettaglio. Vitamorte lasciò però il segno sull’autore, comportando il suo nuovo allontanamento da Marvel Comics. Windsor-Smith avrebbe voluto realizzarne una terza parte interamente ideata da lui, ma la casa editrice non la approvò perché, a suo dire, metteva in scena un suicidio, non tollerabile per il pubblico di quel tipo di fumetti.
«Parla di sacrificio, non di suicidio. Idioti! […] Cosa c’è da chiarire? Si tratta di sacrificio e redenzione! Se non lo capisci leggendo la storia allora mangia merda! […] È, cacchio, “il sacrificio finale” e tutta quella merda tipo William Blake e comecacchiosichiama, insomma, coso, lì…» avrebbe commentato in modo piuttosto colorito l’autore circa dieci anni dopo, al momento dell’uscita della storia, che ha visto infatti la luce per Dark Horse Comics con il titolo di Adastra in Africa.
I riferimenti alle precedenti storie e ai personaggi di Vitamorte II erano ancora tutti lì, come se si trattasse di una storia apocrifa di Tempesta, ma con un nome diverso per la protagonista.
Altri supereroi e lavori creator-owned
A quel punto, tramite l’intercessione dello sceneggiatore e disegnatore Bob Layton, Windsor-Smith trovò casa presso la Valiant, casa editrice all’epoca diretta da Jim Shooter – ex caporedattore Marvel – che aveva ripreso alcune vecchie property di Gold Key Comics come Dottor Solar, Magnus Robot Fighter e Turok aggiornandole per un pubblico contemporaneo e affiancandole a personaggi nuovi come Ninjak e X-O Manowar.
Barry Windsor-Smith coordinò il lavoro artistico per il crossover Unity e realizzò da autore unico una decina di albi della nuova serie Archer and Armstrong – con una trama piuttosto complessa incentrata su sette religiose, pedofilia e super-poteri, ma con toni quasi da commedia –, e altrettanti di Solar, Man of the Atom, su un supereroe con poteri derivanti dal nucleare.
Dopo la partenza di Shooter, anche il disegnatore lasciò la casa editrice, non senza strascichi polemici. Nel 2008, nel discorso di accettazione per l’ingresso nella Hall of Fame degli Eisner Awards, Windsor-Smith affermò che «in questi ultimi anni ho ricevuto email che mi imploravano di tornare su Archer and Armstrong. La mia risposta, in breve, è “Quando i maiali voleranno fino alla Luna e torneranno indietro sani”».
Abbandonata la Valiant, nel 1994 Windsor-Smith iniziò a collaborare con Malibu Comics, casa editrice californiana per la quale co-creò con Chris Ulm il personaggio di Rune, sorta di vampiro alato di origine aliena. Ma anche qui l’esperienza si chiuse male, dopo una manciata di albi tra cui un crossover fra Rune e Conan, con una disputa legale riguardante la proprietà del personaggio, che da allora non è più stato ripubblicato.
L’autore sviluppò una vera e propria allergia nei confronti dei contratti work-for-hire (lavori su commissione) all’epoca praticati da tutte le principali case editrici americane, e da lui definiti «uno strumento legale ma amorale pensato per stuprare e derubare i giovani talenti di ogni possibile prerogativa di cui altrimenti dovrebbero avere possesso se lavorassero per editori più scrupolosi e moralmente accettabili».
Nonostante la solita grande cura profusa nel disegno, i lavori realizzati da Barry Windsor-Smith in quel periodo non ebbero la forza di diventare classici come le storie di Conan o dei mutanti Marvel, probabilmente a causa della mancanza di una base solida – una casa editrice affermata o un personaggio molto noto – a sostenerli. La loro preziosità, al giorno d’oggi, deriva più che altro dalla loro rarità, dal fatto di essere l’unico modo possibile per apprezzare un’ulteriore evoluzione di un vero genio del disegno.
Fu a quel punto che si aprì una sorta di terza fase – anche questa molto breve – della carriera di Windsor-Smith, quella legata a progetti creator-owned. Per Dark Horse, nel 1995, l’autore inaugurò infatti la rivista Storyteller, sulla quale poteva pubblicare tutto quello che gli pareva. All’interno, trovarono spazio The Paradoxman, un racconto fantascientifico; Young GODS, omaggio a Thor e New Gods di Jack Kirby; e The Freebooters, una serie d’azione più leggera su un personaggio alla Conan divenuto anziano che gestisce una taverna. Anche questa esperienza però fu molto breve e si limitò a nove uscite, tutte concentrate fra il 1996 e il 1997, con un decimo numero realizzato ma mai pubblicato a causa di frizioni con la casa editrice.
Storyteller era nata fondamentalmente per due scopi: «Uno: divertirmi; due: gettare via tutti i vecchi cliché dei fumetti che avevano ucciso questa forma artistica. Volevo attirare un pubblico più sofisticato di quello dei bambini che leggono Youngblood o altra spazzatura del genere. E fino a un certo punto funzionò, tutto quello di cui Storyteller aveva bisogno era una promozione all’altezza dei contenuti».
La rottura con Dark Horse gli provocò problemi economici e lo spinse fino a una profonda depressione. Non usciva di casa per settimane, pur continuando a pagare l’affitto per il suo studio, lo stipendio del suo assistente dell’epoca, Alex Biany, e persino un letterista. «Sciogliere lo studio avrebbe significato sciogliere la mia realtà. E non potevo farlo.»
E niente più
Da allora, le nuove uscite di Windsor-Smith nel mondo del fumetto si sono fatte molto più sporadiche. L’ultima volta che abbiamo avuto sue notizie stava lavorando a Monsters, un graphic novel di 300 pagine che «esplora le vite di due diverse famiglie americane collegate fatalmente da un progetto nazista abbandonato riguardante l’ingegneria genetica e che è stato ripreso segretamente dal governo statunitense».
Barry Windsor-Smith ci sta lavorando dal 1998 (inizialmente per la Vertigo, la linea “adulta” di DC Comics), ma il timore è che anche questo finisca tra i tanti suoi lavori mai pubblicati, come il graphic novel sulla Cosa della Marvel (di metà anni Ottanta) o una storia di Superman per DC (iniziata anche questa a fine anni Novanta) e chissà quanti altri ancora.
In fondo lo si potrebbe definire un personaggio eccentrico. Uno che, pur abitando da anni negli Stati Uniti, ha continuato a vivere (e lavorare) per molto tempo secondo il fuso orario di Londra, dall’una di notte alle sette del pomeriggio. La sua è (stata?) una carriera fatta di stop e di ripartenze, di pentimenti e di ripensamenti continui, di lunghissime attese. Ma vissuta sempre al proprio ritmo, quello di un eterno Godot dei comics.
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