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Sunday Page: Francesco Pacifico su “Building Stories” di Chris Ware

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Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».

Questa domenica è ospite Francesco Pacifico, scrittore, traduttore e romanziere. Romano, classe 1977, ha debuttato nel 2003 con Il caso Vittorio, a cui hanno fatto seguito Storia della mia purezza (2010), Class (2014) e Le donne amate (2018). Ha scritto su Repubblica, Rivista Studio, l’Ultimo Uomo, minima&moralia, IL, Rolling Stone e, come traduttore, ha adattato le opere di Chris Ware, Matt Groening, David Mazzucchelli, Dave Eggers, Kurt Vonnegut. Suo il podcast Archivio Pacifico, la cui copertina è stata disegnata da Paolo Bacilieri.

francesco pacifico chris ware

Building Stories è uscito nel 2012 quando io stavo scrivendo Class, un libro in cui cercavo di mettere tanti giochi sul tempo. E quando ho letto Building Stories il modo in cui si disarticolava nei vari fascicoli mi ha molto stimolato e mi ha fatto provare quell’invidia che spesso provo per i fumettisti.

In particolare questa pagina, in cui il personaggio nasce, cresce e invecchia scendendo le scale, mi ha fatto pensare a quanto uno si deve sempre ricordare, scrivendo, della magia del tempo. Mi ha ricordato che puoi trovare tutte le idee che vuoi senza dover ricorrere a strutture narrative banali, perché poi ognuno ha la sua relazione con il tempo, ed è spaventato dal passare del tempo in modi diversi. O abbagliato o affascinato, quello che vuoi.

Quindi quando ho visto quella pagina ho pensato: «Cavolo, mi voglio divertire anch’io». Dentro Class c’è una parte in cui faccio una cosa con il tempo completamente ispirata a Ware, cioè scrivo due storie d’amore della narratrice con due ragazzi in cui lei racconta la stessa stanza con l’avvicendarsi di queste due persone in periodi diversi della vita, volendo dare una precedenza all’intensità del luogo, invece che al tempo e alla causalità.

Questa tavola di Building Stories ha causato quelle 40 pagine di Class. È una cosa che mi sono portato dietro anche dopo, il consiglio di giocare di più con il tempo, perché non è possibile che io mi diverta meno di un fumettaro. Li uso sempre come confronto perché i romanzieri spesso sono noiosi, mentre i fumettari no, riescono ad andare in direzioni che sono sempre, di base, più stimolanti.

Ti ricordi come hai scoperto le opere di Ware?

Da giovane ero un lettore di romanzi dell’Ottocento e primo Novecento. Quando nel 2003 sono entrato in minimum fax, il mio primo editore, Marco Cassini, che mi educava alle cose contemporanee come quegli scrittori americani postmoderni del periodo di McSweeney’s, mi fece scoprire Ware, Daniel Clowes, Adrian Tomine, artisti associati a quella generazione di scrittori. Mi portò dagli Stati Uniti Jimmy Corrigan e in quel periodo mi lessi tutta quella roba.

Poi a un certo punto Ware editò un numero di McSweeney tutto dedicato ai fumetti, dove c’erano tutti questi autori, tanto per ricomporre magicamente la cosa. È stato bellissimo quando Coconino, che forniva il service a Mondadori, mi chiese di rilevare la traduzione di Jimmy Corrigan e di finirla perché la persona che lo stava traducendo aveva problemi di salute. Ed è stato così che ho iniziato a tradurre fumetti, per caso, come si fanno molte cose.

E prima di allora che rapporto avevi coi fumetti?

Non li frequentavo. Ho vissuto la mia vita in maniera molto rozza, giocando a pallone in parrocchia, suonando la chitarra elettrica in casa e leggendo i romanzi russi. Non ho mai giocato ai videogiochi, letto fumetti, guardato film di genere. A sedici anni avevo già deciso che avrei fatto lo scrittore.

Avevi dei pregiudizi, poi, da adulto?

No, zero, mi sembravano una figata. Sono arrivato a minimum fax quando avevo 25 anni. L’editore ne aveva 35, gli scrittori più grandi erano poco più vecchi di me. Era come iscriversi al liceo. Erano stimolanti, divertenti, strambi e i fumetti che mi proponevano li accettavo con entusiasmo.

Tu che hai tradotto Jimmy Corrigan, Ware lo leggi diversamente da quando lo leggevi da lettore?

Bella domanda… La questione di tradurre Ware è che lui fa tante cose che sono molto intensive e le tiene sullo sfondo. A volte, quelle scritte fitte fitte nella terza di copertina sono cose che sono quasi fatte per non essere lette, come quando su I Simpson scorrono i titoli di coda di una trasmissione che poi la gente pazza registra per guardarsela al rallentatore e c’è scritto «Se hai letto questi titoli di coda non hai una vita». Pieno di easter egg, ecco.

Quando l’ho tradotto ho avuto una sensazione strana, da una parte questa quantità di attenzione che metteva nelle cose, davvero ammirevole, e dall’altra quanto era intenso, letto al rallentatore, il suo pessimismo.

Building Stories come te lo sei costruito?

Mi sa che sono partito da qualche libretto breve. Building Stories non è una raccolta di racconti, ma quando leggo i libri di racconti parto da dove mi ispira. E sono quasi tarantiniano nella lettura dei romanzi, non ho il mito di leggere un romanzo ordinatamente. La prosa è fatta anche per essere attraversata a istinto. Un grande incipit, un grande inizio di capitolo vale anche se lo leggi da solo. Sono comunque frammenti. Ci sono persone che se non si sono lette un libro intero pensano di non averlo letto. Credo che lo spirito che porta nella tua vita un autore bravo ti arrivi anche se leggi tre pagine.

Nel fumetto, poi, questa cosa è ancora più vera, perché a seconda della velocità cui leggi le cose cambia l’esperienza. Per me Building Stories è un’opera ideale perché è consapevole che c’è una quantità di controllo che può esercitare e che però conta molto anche sull’esperienza del lettore.

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