Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».
Questa domenica è ospite Andrea Ferraris. Genovese, frequenta la Nuova Eloisa, una scuola di fumetto a Bologna, studiando sotto la guida di insegnanti come Vittorio Giardino e Marcello Jori. Nel 1993 entra in Disney come disegnatore, impiego che lo tiene occupato per anni, finché decide di affrancarsi e realizzare storie personali come Churubusco, fumetto che racconta l’antica guerra con il Messico e Stati Uniti e che portò la California a diventare territorio americano, e La cicatrice, pubblicato da Oblomov Edizioni. Il suo ultimo lavoro, sempre per Oblomov, è La lingua del diavolo.
Negli ultimi anni ho viaggiato parecchio. Ho vissuto a Barcellona, Cagliari, Parigi e adesso Torino. In tutte queste città, nelle quali alle volte mi sono sentito straniero, c’è sempre stato un bar preferito dove, al contrario, mi ritrovavo tra amici.
Mi piace sedermi a prendere un caffè o una birra e osservare l’umanità che lo frequenta. Mi sono fatto l’idea che il bar sia un organismo che muta a seconda dell’ora o di chi lo sta vivendo. Una piccola città.
Nella tavola che ho scelto intuisco che anche Munoz e Sampayo vivono quella mia stessa città. In tre vignette riescono a farmi sentire tre respiri profondi di questo organismo. Il respiro del mattino, quello pigro del pomeriggio, quello avventuroso della notte. Grazie agli strepitosi disegni di Munoz sono seduto tra gli avventori del bar, al mio tavolino, ad ascoltare mozziconi di conversazioni, percepire i desideri delle persone, annusare il sudore e la fatica della vita. In questa tavola spettacolare e intimista probabilmente sono seduto in un locale di NY ma potrei tranquillamente trovarmi al tavolo del circolo degli Aragonesi di Sarrià a Barcellona, allo Chat Noir di rue Timbaud a Parigi, al Pepe di Torino o al mai dimenticato Bar Cicci a Genova. Sono a casa.
L’hai scelta solo per questa connessione emotiva o Alack Sinner è una delle letture che ti hanno segnato come fumettista?
Alack Sinner è senza dubbio uno dei principali riferimenti per il mio lavoro e, naturalmente, come ogni punto di riferimento che si rispetti, ha lasciato una decisiva impronta anche emozionale. Il modo in cui trattano il loro personaggio mostrandolo mentre piscia, mentre beve whiskey e ascolta jazz, la violenza delle storie, mi sembravano, all’epoca che lo scoprii, di una potenza assoluta. Ero un ragazzino che cominciava a muoversi per la città, nei locali della città. Quelle storie rappresentavano piuttosto bene la vita. Erano, sono vere.
Ti ricordi quando hai scoperto quest’opera?
Ho scoperto Alack Sinner nel lontano 1982. All’epoca mio padre che è sempre stato un ottimo lettore di comics, portò a casa il volume della Milano Libri Così com’era. Un libro stampato in modo superbo. In seguito, a Parigi, ho avuto occasione di farmi fare un disegno da Munoz su quel libro. Anche lui era molto soddisfatto del risultato e lo considerava uno dei suoi migliori libri. Mi fai venire in mente che sempre in quell’anno comprai The Name of This Band is Talking Heads. Per molti versi quello fu un anno cruciale per la mia formazione.
C’è una lezione, da autore, che hai imparato da questa coppia di autori?
Quando mi sono trasferito a Parigi sapevo che la casa sarebbe stata piccolissima. Che avrei avuto un piccolo spazio dove poter lavorare. Dovevo perciò fare una scelta precisa su quali libri portare. È stata un momento difficile. Sono venuti con me una decina di titoli. Due erano di Munoz e Sampayo. Questo per farti capire l’importanza che hanno sui miei lavori.
Credo che la lezione più grande arrivi non solo dalla verità che c’è nei loro racconti o dall’abilità nel disegno di Munoz ma soprattutto dal loro coraggio. Raccontare quel tipo di storie e disegnarle con quello stile che in certi casi diventa davvero estremo, mi pare abbia bisogno di una grande dose di forza, di coraggio appunto.