Junji Ito, mangaka noto e influente in patria, non aveva mai goduto dell’attenzione che meritava qui in Italia, ma nel corso dell’ultimo anno la sua presenza nelle librerie si è fatta sempre più cospicua, tanto da contare una decina di titoli, al momento. È possibile quindi farsi un’idea precisa del perché i suoi racconti abbiano attirato tanta attenzione.
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Junji Ito è un autore schivo, di poche parole, che indossa con credibilità i panni dell’artista riservato e chino nell’atto della creazione. Guardando le rare foto di Junji Ito non ci si sorprende quando si scopre che prima di diventare un mangaka di successo facesse un lavoro asettico e meticoloso come quello dell’odontotecnico. In un’intervista rilasciata al sito Rue Morgue, parlava della strana fascinazione che questo mestiere esercitava sulla sua fantasia.
Junji Ito nei primi anni Novanta ha dovuto fare una scelta: continuare a fare il lavoro per cui aveva studiato, oppure seguire la vocazione da fumettista. Per la gioia degli innumerevoli fan, da incosciente Ito scelse la strada più difficile e insicura, avventurandosi in un continente popolato da oscure presenze.
Nato nella prefettura di Gifu nel 1963, l’interesse di Junji Ito per i fumetti è precoce: già dalle elementari viene introdotto all’opera di Kazuo Umezu dalla sorella maggiore. Per anni coltiva la sua passione per l’orrore sino a quando alla fine degli anni Ottanta, propone una storia alla rivista Nemuki’s Halloween Monthly: il racconto disegnato con uno stile scarno e tremolante, ben distante dalla perizia e dall’attenzione quasi fotografica che lo contraddistingue, è Tomie.
La trama è semplice: Tomie, è una graziosa adolescente che durante una gita scolastica cerca di far invaghire di sé il suo insegnante, il signor Tagaki. Durante un litigio con i compagni di classe, precipita in un burrone. Tagaki per nascondere il fattaccio decide di nascondere quanto successo, ordinando ai ragazzi di denudare il cadavere e tagliarlo a pezzi, in maniera da cancellare ogni prova dell’accaduto. Dopo qualche giorno, però, Tomie riappare a scuola, minando così la salute mentale degli assassini.
Il racconto del 1987, vincitore della menzione d’onore al premio Umezu, crea l’archetipo di tutte le storie di Tomie. Il sembiante che ritorna dalla morte ha una natura maligna e cancerosa: la bellezza ammaliante di questa giovane studentessa strega e corrompe i ragazzi che se ne invaghiscono: tutti finiscono per mutilare il corpo del sembiante, smembrandolo e facendolo a pezzi con violenza e ira, ma quei lacerti di muscoli e tendini continuano a rigenerarsi.
Al di là del topos classico di colui che ritorna dalla morte, affrontato a più riprese sotto varie forme e declinazione, sino all’esplosione ultra-pop del morto che cammina, Junji Ito tocca attraverso una scrittura che parte da situazioni più che quotidiane e banali (la vita scolastica o di quartiere) le nevrosi della società giapponese.
Negli hentai e nei manga erotici degli anni Ottanta e Novanta, il corpo della donna ricopre un ruolo fondamentale. Secondo Anne Allison, l’autrice del libro Permitted and Prohibited Desires: Mothers, Comics, and Censorship in Japan, quei fumetti non erano che un riflesso dell’odio prodotto dalla struttura matriarcale delle famiglie giapponesi.
Nel secondo dopoguerra – in seguito ad un profondo periodo di crisi ben ritratto dai maestri del gekiga come Yoshihiro Tatsumi e Yoshiharu Tsuge – l’economia del sol levante conobbe un momento di forte espansione culminato negli anni Ottanta: un momento di florida positività, in cui spesso gli uomini lavoravano molte ore al giorno, viaggiando anche a lungo e risultando effettivamente assenti. La responsabilità della crescita e della formazione dei bambini ricadeva così sulle spalle delle donne, che dovevano interagire con un paradigma sociale votato all’efficienza e alla produttività. Ad esse quindi era affidata la guida dei giovani giapponesi attraverso il rigoroso regime disciplinare dell’istituto educativo.
Secondo la Allison, il conflitto epidico in Giappone è stato deformato da questa situazione: da un vuoto. L’assenza prolungata della figura maschile ha generato una strisciante misoginia. Paradossalmente, il risentimento contro la struttura gerarchica tipica di un sistema patriarcale si manifesta non come un conflitto tra uomini, ma piuttosto come una forma di risentimento nei confronti delle donne. Negli hentai, la Allison vede una sublimazione: l’atto predatorio e di dominazione tipicamente maschile non che è un tentativo di legittimazione.
Nelle storie di Tomie, Ito mette in scena la stessa dinamica, ma attraverso un immaginario meno consolatorio ed edonistico. Tomie è vittima costante di aggressioni fisiche che spesso degenerano in violenza sessuale. Eppure, Tomie – sembra suggerire il mangaka – è colpevole: istiga la violenza, manipola la psiche degli uomini, li induce verso un desiderio incolmabile.
Così come la carne di Tomie, la volizione dei protagonisti dei racconti di Junji Ito cresce e muta, creando dei mostri bicefali. Il tema sotterraneo è la schizofrenia che il sistema produttivo capitalistico inocula nel corpo del tessuto sociale, fomentando dei desideri che non potranno mai essere assecondati, chiedendo prestazioni impossibili.
Il contesto scelto è quello della piccola comunità scolastica: la prospettiva è utile a descrivere, partendo da situazioni ordinarie, l’abissale trasformazione della psiche dei protagonisti. È più che evidente l’eredità della lezione del Kazuo Umezo di Aula alla deriva. I gruppi di piccola e media dimensione diventano i soggetti ideali da osservare. Con uno sguardo da entomologo, Ito segue le spire in cui accartocciano le menti dei suoi personaggi e, con un gusto tutto nipponico, analizza le conseguenze di queste devianze sul corpo di Tomie.
Non è un caso che dopo Tomie, Ito si sia dedicato ad un’opera come Uzumaki, in cui la prospettiva si allarga da una comunità di liceali ad un intero paese. Il manga non si discosta dalla struttura narrativa già affrontata nel precedente lavoro, dove il racconto breve si incunea in una cornice più ampia, un palinsesto che pagina dopo pagina trascina i protagonisti in un vortice dove ossessioni compulsive e depressione diventano stigma di una società destinata alla catastrofe. Il piccolo paesino di Kurouzu, stretto tra il mare e le ripide colline circostanti, diventa la sede ideale. Sin dal primo capitolo il mangaka introduce le sue vittime: Kyrie Goshima, una studentessa liceale, e il suo fidanzato Suishi Saito.
Tra le prime vittime della follia che sta colpendo la cittadina vi è proprio il padre di Suichi. Ito sembra quasi presentarci un semplice caso di isteria, ma all’improvviso questa leggera follia si trasforma in qualcos’altro. Ancora una volta, viene instaurato un legame diretto tra la mente e il corpo. La compulsione ossessiva di cui sono prede gli abitanti di Kurouzu si traduce in una metamorfosi della carne.
Quasi seguendo una sottile e ironica legge del contrappasso, le vittime della spirale di volta in volta si accartocciano su se stesse, si automutilano, danno alla luce esseri mostruosi e si trasformano in enormi lumaconi. Le variazioni del tema sono innumerevoli e sempre più raccapriccianti, sino all’esito finale in cui l’intero tessuto urbano subisce una curvatura spazio-temporale.
Le individualità si compattano in un ammasso di carne che ricorda le fantasmagorie di Brian Yuzna e di David Cronenberg. Abbiamo già parlato delle fonti letterarie a cui si ispira l’opera, ma in questa sede il discorso è finalizzato a far emergere i rapporti tra psiche e corpo, tra negativo e positivo, tra impronta e forma.
La spirale negativa messa in atto in Uzumaki, trova la sua celebrazione in Gyo. Gli scenari apocalittici teorizzati in piccola scala diventano globali: quello che sembrerebbe dalla prime battute come un racconto poco ispirato e pericolosamente adiacente ai disaster movie di serie z, si rivela un caotico tour de force sulla fine dell’umanità. L’incipit è dei più disarmanti: a metà strada tra lo Spielgerg degli anni 80 e l’Anthony Ferrante della saga trash di Sharknado.
Una coppia in vacanza, interpretata dai soliti tipi umani che si muovono nei racconti di Junji Ito, ha uno spiacevole e inspiegabile incontro con un pesce dotato di zampe ragnesche, che riescono apparentemente ad uccidere, ma non è che il preambolo di un’invasione di pesci anfibi.
Il manga è pervaso sin dalle prime pagine da una zaffata mortifera. L’odore che terrorizza la giovane Kaori è un correlativo oggettivo della sua ossessione compulsiva per la pulizia: uno dei tanti aspetti della cultura giapponese che Ito ridicolizza in maniera pantagruelica sino a rovesciare la parodia in un incubo senza forma, bulimico, asfissiante.
Il racconto procede senza sosta, mischiano il gusto per il surreale di Bosch e il nichilismo di Beksiński. Il body horror – uno dei punti nevralgici della produzione del mangaka – tocca qui livelli di inaudita tragicità, con corpi in disfacimento che sfiorano l’inorganico e il cui unico sentore di umanità è dato dalle zaffate mefitiche che zampillano da ogni sfintere e dai pochi – quasi animaleschi – sentimenti che affiorano di tanto in tanto da questi corpi gonfi e turgidi che si aggirano come cani randagi per le strade di una città post-atomica.
Spesso emerge nei grandi affreschi narrativi dell’autore giapponese il tema della depressione: da Uzumaki a Gyo, sino al divertissement Yon e Mu c’è sempre un personaggio ammantato dagli stigma fisici della depressione. Lo sguardo spento, il viso emaciato, l’atavica stanchezza delle membra sono caratteristiche evidenti in alcuni dei personaggi, non è un caso che l’ultima fatica del mangaka sia dedicata all’opera di Osamu Dazai, Lo squalificato.
Già adattato da Usamaru Furuya, il romanzo di Dazai tratta la vita di Yozo, alter ego dell’autore, dall’infanzia alla maturità. Un romanzo di formazione negativo che si conclude con il suicidio del giovane Yozo. L’adolescenza lo ritrae come un tipo che nasconde la sua inadeguatezza al mondo dietro la maschera del buffone, un po’ come il giovane Soichi, protagonista di una serie di racconti ideati dal mangaka. Ancora una volta, la distanza tra individuo e mondo occupa un posto centrale nell’economia creativa e nel suo immaginario fumettistico.
A volte, sembra che Junji Ito lavori in maniera ossessiva su un’idea cercando di ampliarla, esplorarla ed esasperarla in ogni aspetto: un’attenzione quasi clinica e scientifica verso le paranoie e il vasto continente dell’inconscio. Sembra quasi setacciare con ossessività territori che creano repulsione nella maggior parte della gente sana di mente. Semplici suggestioni tracimano nei manga di Ito in situazioni limite, in cui l’individuo è prigioniero e succube di forze trascendenti.
Se tutto ciò è facilmente intuibile leggendo Uzumaki, nei racconti brevi, una delle forme di narrazioni che riesce a gestire meglio, vengono sondate le stesse abissali paure con esiti altrettanto agghiaccianti.
I racconti di Ito sono forme di escapismo, come sottolineato da Guillermo del Toro, ad una società irregimentata e piena di pulsioni schizofreniche. Sono forme di esacerbazione delle fratture che innervano la mentalità giapponese: cicatrici che parlano dell’isolazionismo e dei timori epidermici che attraversano come ragnatele le province del Sol Levante.
Con una crudezza e una violenza a volte nauseanti, Ito tratta attraverso la letteratura di genere argomenti e temi già affrontati anche dai maestri del gekiga, portandoli all’estremo, con un aplomb e un’ironia che nell’arco di oltre tre decenni l’hanno reso un autore di riferimento nel panorama contemporaneo.