L’importanza di un autore viene spesso messa in relazione alla capacità che la sua opera ha avuto di creare epigoni, ammiratori, continuatori. Di dare origine, insomma, a una solida eredità, un solco entro il quale creativi e intellettuali posteriori si siano – consapevolmente o meno è indifferente – inseriti.
La particolarità dell’opera di Guido Buzzelli – una delle tante – è invece proprio quella di non aver prodotto eredi diretti a differenza di molti suoi colleghi più o meno contemporanei, come Magnus o Hugo Pratt. Anche un artista a lui immediatamente successivo come Andrea Pazienza, che grazie al suo eclettismo non possiamo dire abbia avuto epigoni diretti, ha però fatto scuola. Buzzelli neanche questo. Questo al netto delle numerose esternazioni di stima giunte negli anni da parte di colleghi, critici, appassionati e intellettuali. Come ricorda Matteo Stefanelli, citando un articolo di Christain Staebler, Buzzelli era – e in parte resta – il “genio incompreso” del fumetto europeo.
Questa limitatissima, se non nulla, filiazione seguita ai lavori dell’autore è dovuta solo in parte, come rilevato nella recensione al precedente volume edito da Coconino Press, alla scarsa attenzione editoriale, critica e museologica lui riservata, specialmente nel nostro paese.
I lavori di Buzzelli restano, oggi come ieri, dei pezzi unici, caratterizzati da una strabordante capacità inventiva e una non allineata capacità di comprensione della contemporaneità che li rendono difficilmente classificabili. Questa riflessione riguarda sia il comparto tecnico-grafico della sua opera che quello intellettuale e più specificatamente narrativo. Come se, del resto, specialmente in un artista come il nostro, i due ambiti possano venire separati e non concorrano, parimenti, alla visione d’insieme, lucida e allucinatoria al tempo stesso, che i suoi fumetti offrono.
Non stupisce che il carattere di unicità che caratterizza le opere di Guido Buzzelli non abbia permesso loro di fare scuola. Ciò è riconducibile alla personalità sfaccettata, riflessiva e ostinatamente controcorrente dell’autore – anche in anni, come il Sessantotto, in cui sposare posizioni manichee era quasi un dovere – e in parte alla sua formazione, a cavallo fra due epoche e due approcci differenti.
Nato nel 1927, Buzzelli, infatti era probabilmente vaccinato, anche solo per il dato anagrafico, dall’eccesso di ottimismo progressista che era seguito alle rivoluzioni studentesche e operaie degli anni Sessanta, ma la sua capacità di lettura conflittuale e sfaccettata della realtà non si può ridurre sicuramente a questo. Buzzelli sapeva vedere oltre la limpida verità imposta dalla cultura imperante durante quegli anni.
La guerra dei Racchi costituisce un esempio eclatante e particolarmente trasparente della disillusione dell’autore per come smonta impietosamente la retorica della lotta di classe. La graffiante e caustica ironia – che spesso prende le sembianze di un cupo baratro di nero pessimismo – che lo contraddistingue non si è certo fermata al quel suo personalissimo esordio come autore maturo e completo (escludendo i fumetti d’avventura e per ragazzi realizzati negli anni precedenti).
Fra tutte le definizione date di Buzzelli autore manca quasi certamente quella di futurologo. Capace di vedere le contraddizioni della lotta di classe, e gli sviluppi ben poco consolatori che a questa sarebbero seguiti, non solo Buzzelli ha espanso il discorso incentrando la propria opera sulla fatale impossibilità del cambiamento – a tale proposito si veda L’Agnone – ma è stato capace di prevedere, fra le altre cose, gli sviluppi più terrificanti dovuti all’imporsi dei media, come nel profetico La guerra videoludica.
Sarebbe frettoloso spiegare la diversa accoglienza dedicata in Francia – patria di adozione artistica di Buzzelli – e in Italia ricollegandola alla diversa storia culturale dei due paesi, in particolare alla tradizione satirica francese, che potremmo descrivere molto sinteticamente meno schierata e più ostinatamente orientata contro il potere – contro ogni tipo di potere – della nostra, ma in questa breve riflessione qualcosa di vero sicuramente c’è. L’atemporalità del discorso di Buzzelli, cioè il suo non essere legato strettamente all’attualità che lo genera, rende la lettura della sua opera strettamente necessaria anche oggi. E forse, in questi tempi di certezze meno granitiche, potrebbe essere accolta meglio che al tempo della sua originaria pubblicazione.
Questa atemporalità deriva anche dallo stile grafico dell’autore. Come molti suoi contemporanei – Pratt, Battaglia ecc. – Buzzelli si fece le ossa sul fumetto avventuroso. Mosse infatti i suoi primi passi da fumettista a 18 anni nello studio di Rino Albertarelli. A differenza di molti suoi colleghi Buzzelli però aveva ereditato una solida formazione da pittore figurativo. Era infatti sia figlio che nipote d’arte.
Negli stessi anni in cui i suoi colleghi più noti viravano verso sperimentazioni che spingevano il loro stile in direzioni prettamente antinaturalistiche, nel segno di una elegante sintesi (Pratt), di un sovraccarico di stili e suggestioni (Battaglia) o rimodellando le più recenti influenze provenienti dalla grafica pubblicitaria e dal mondo dell’arte contemporanea (Crepax), Buzzelli, pur non indifferente a queste sperimentazioni, soprattutto per quanto riguardava la composizione della gabbia e la resa cinetica del movimento, è sempre rimasto in gran parte fedele alla tradizione ritrattistica e caricaturale di cui padroneggia perfettamente i principi.
Era, apparentemente, fuori posto sotto tutti gli aspetti. Troppo vecchio per entusiasmarsi per l’apparente nuovo corso della storia senza che un cocciuto realismo lo portasse a individuarne magagne e contraddizioni, anche sotto l’aspetto grafico si trovava a cavallo fra due epoche. Ad uno sguardo superficiale, infatti, i suoi disegni, accostati ad esempio alle funamboliche tavole di Crepax, potevano sembrare datati, ma è proprio dalla sottile confusione fra antico e moderno – confusione solo apparente – che la forza prepotente del suo segno naturalistico e allucinatorio, sospeso fra solida ritrattistica e grande caricatura, emergeva.
Peccato che la sua grande abilità tecnica – l’incredibile padronanza dei chiaroscuri, la già citata abilità di ritrattista e di anatomista, la passione per il disegno di cavalli – l’abbiano portato a chiudere la sua carriera con il personaggio più tradizionale degli eroi classici italiani: quel Tex di cui ha disegnato uno speciale su testi di Claudio Nizzi.
Questo secondo volume edito da Coconino Press e intitolato Annalisa e il diavolo presenta forse i lavori più interessanti della sua carriera. Si noti come molte delle storie qui raccolte siano state pubblicate prima all’estero – e specialmente in Francia – che in Italia.
In particolare Charlie, la rivista che ospitò gran parte dei suoi lavori, è omaggiata nella prima tavola della storia Annalisa e il diavolo. Nei racconti contenuti in questo secondo volume, ancor più di come aveva fatto in precedenza e, in particolare, in Zil Zelub, Buzzelli si mette in gioco come personaggio.
Due sono i fumetti strettamente “autobiografici”, anche se di tono fantastico: Annalisa e il diavolo e L’intervista. Nel primo un Buzzelli in cerca di ispirazione si reca in villeggiatura in riviera. A corto di idee per il suo prossimo fumetto si divide fra la fascinazione erotica per una giovane ragazza (l’Annalisa del titolo) e quella, di tutt’altra natura, di un vecchio parcheggiatore a cui hanno affibbiato il soprannome di “Satana”.
Ne L’intervista un Buzzelli ancora una volta dall’immaginazione recalcitrante, ritiratosi in campagna nella speranza di lavorare, riceve la visita di un terzetto di improbabili e inquietanti intervistatori che lo mettono di fronte alla futilità del suo lavoro.
In entrambi i racconti il tema sembra essere quello del rapporto conflittuale con se stesso, con la propria opera e dell’inutile dedizione a quest’ultima, tanto che in Annalisa e il diavolo Buzzelli arriva a cancellarsi dall’ultima tavola con una gomma. I racconti raccolti in questo volume sono difficili da riassumere, pieni come sono di contraddizioni, fantasmagorie e le tavole così affollate di personaggi da far girare la testa. Ci sono però degli elementi di continuità. In quasi tutte queste brevi storie c’è una morale esplicitata, chiara, apparentemente limpida, che cede velocemente il passo a un’inquietudine suggestiva e opprimente in grado di rendere la tesi espressa inizialmente via via più sfumata, fino allo smarrimento.
Così, in Annalisa e il diavolo, Buzzelli si immagina come grande moralizzatore che però è incapace di dare ordine a un mondo che non capisce – il mondo nuovo, quello dei giovani – e che non può fare a meno di misurare con il metro delle proprie pulsioni. Così, in L’Agnone, Buzzelli si divide addirittura in due alter ego: Tek Ciopaka, l’idealista che con la propria arte è convinto di poter migliorare il mondo (senza dimenticare il proprio ego) ma che in realtà è disposto a rinunciare a tutto per, ancora una volta, una giovane ragazza; Katapeckio, truffatore, assassino, cannibale, che si immagina di essere realmente libero solo perché si permette di fare tutto. Entrambi, alla fine della storia, impareranno di poter essere schiacciati da un potere che si rinnova per rimanere sempre uguale.
A volte, nel rinunciare a questa ambiguità, a questo senso continuamente sfuggente, l’autore perde mordente, e la sua satira diventa schietta, programmatica e un tantino banale. È il caso della storia breve Sposalizio, in cui due diavoli, resisi conto che è anacronistico cercare di tentare gli umani attraverso il sesso, si dirigono «dove da sempre vanno i diavoli seri», cioè il Parlamento.
Va detto che Sposalizio, fu pubblicata su Tramezzino, inserto satirico del quotidiano Paese Sera. Eppure, più la narrazione di Buzzelli si allontana dal mistero, da un discorso in bilico, più le sue opere ne risentono. È il caso di racconti particolarmente espliciti e apodittici come Peisithanatos e la complicata carriera del signor Temistocles, quest’ultimo in parte risollevato dal tremendo, liberatorio, urgente, “jarrydiano” urlo finale.
Fa eccezione La guerra videologica (da un racconto di Raffaele La Capria) in cui una guerra, scatenata da una rivalità calcistica ma che non ha più alcun senso proseguire, viene sostenuta attraverso un’altra battaglia, quella a base di esecuzioni e torture trasmesse dalle reti televisive statali delle due fazioni. E l’escalation di violenza deve essere sempre più veloce, perché il pubblico si abitua e di conseguenza si annoia in fretta. L’ammonimento ai rischi legati alla sempre più invadente società dello spettacolo è fin troppo chiaro, ma la capacità predittiva di Buzzelli, la sua capacità di rendere credibile lo scenario, pur raccontato tramite un registro fantastico, attraverso la concretezza e la sofferenza della carne, lo rendono un racconto attuale e impressionante anche oggi. O, forse, soprattutto oggi.
Le ossessioni del Buzzelli uomo e artista vengono messe particolarmente a nudo ne L’intervista, enigmatico racconto notturno dalle atmosfere a là Dürrenmatt, in cui tre personaggi, che lo stanno segretamente giudicando per condurlo non si sa dove, lo mettono di fronte alle contraddizioni della sua passione artistica: egocentrismo, repressione della sua dimensione corporea e sensuale, futilità. L’irrompere di un personaggio reale, concreto, come un vicino contadino che è venuto a chiedere di una damigiana di vino da riempire, rompe l’incantesimo o forse le fantasticherie dell’autore stesso.
L’ultima sequenza, una sorta di lungo carrello che, corredato dalla “voce over” dell’autore, si muove dal suo studio nella campagna fino a inquadrare l’indifferente occhio di un cavallo non risolve l’enigma. La vita naturale come soluzione a quella intellettuale? O il marciume che avvolge ogni nostra ossessione, ogni nostra passione di uomini “civilizzati” non può trovare né risposta né consolazione in un mondo, l’altro, che ormai è per noi troppo distante e che forse neanche si preoccupa di giudicarci?
Non c’è dunque una soluzione, non c’è scampo nelle storie di Buzzelli? Forse una la troviamo in un altro breve racconto pubblicato su Tramezzino, in cui l’ennesimo alter ego dell’autore organizza uno scherzo radunando a Piazza del Popolo a Roma un’enorme folla, facendo leva sulle vaghe speranze di ognuno. Dopo essere stato scoperto e picchiato quasi a morte, il protagonista rivolge lo sguardo verso lo spettatore e chiude con queste parole: «Il vero guaio, caro amico, è che troppa gente è del tutto sprovvista di… ”sense of humor”».