di Jacopo Mistè*
Tra il 1985 e il 1986, sono in preparazione i lavori per una serie OVA già annunciata: Yamato 2520. Il budget è stanziato, lo staff è pronto e lo studio d’animazione è assoldato: si tratta di Studio Mū, nato da una scissione della celebre Anime R. All’ultimo istante però salta tutto. Si sceglie allora di usare l’imponente budget di Yamato 2520 per portare in animazione, sempre in OVA, Giant Robot, opera robotica del 1967 nata contemporaneamente come manga di Mitsuteru Yokoyama e tokusatsu di Toei Animation, cancellando a questo punto la versione televisiva che deve iniziare su TBS proprio in quel periodo.
«Giant Robot è l’animazione che ho sognato di girare per tutta la vita», dice Imagawa, che accetta entusiasta l’offerta dei produttori. I lavori per il primo episodio sono imponenti e durano da soli la bellezza di due anni. Giant Robot The Animation – Il giorno in cui la Terra si fermò debutta quindi nelle videoteche il 22 luglio 1992 e prosegue fino al 25 gennaio 1998 per un totale di otto corposi episodi dalla durata media di quaranta minuti, con problemi di produzione, ritardi e basse vendite di VHS e Laserdisc. La tiepida accoglienza non è degna del valore della serie: lontanissimamente ispirato alla storia di Yokoyama, nelle mani di Imagawa Giant Robot diventa qualcosa di stupefacente.
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Il fumetto originale di Yokoyama non è nulla di memorabile. Molto figlio dei suoi tempi, racconta di come l’organizzazione segreta Big Fire intenda conquistare il mondo grazie al costoso progetto GR: la creazione di tre giganteschi robot distruttivi, GR-1, GR-2 e GR-3, adatti ciascuno a un tipo specifico di ambiente. Daisuke Kusama, turista giapponese scambiato per un agente segreto dell’Interpol, è catturato da Big Fire. Riesce a liberarsi e a prendere con sé il GR-1, dalle fattezze di faraone, guidandolo con comandi vocali per distruggere i nemici che cercano di riappropriarsene. Privo di finale, Giant Robot si limita a mostrare le numerose battaglie che portano Daisaku e GR-1 a Tōkyō, affrontando Big Fire e gli altri due GR. È una storia esilissima e improntata all’azione.
Giant Robot era stato commissionato a Yokoyama da Toei, vera proprietaria dei diritti sia del manga che del tokusatsu, e al momento di dirigere l’anime Imagawa si ritrova al centro di un problema legale: vorrebbe attualizzare il fumetto, ma per questioni di copyright può costruire la sua visione solo sul GR-1, su Daisaku e sull’organizzazione Big Fire, senza poter contare né sui comprimari né sull’intreccio storico. Non sa come fare, e allora, scommettendo su un’intuizione, risale alla fonte e si rivolge a Yokoyama in persona, chiedendogli il permesso di usare personaggi provenienti dal suo intero corpus di fumetti. Incredibile, l’autore gli concede questo privilegio e l’anime di Giant Robot diventa la storia celebrativa e intricata dell’intera fumettografia di Yokoyama: il soggetto viene riscritto da zero e mescolato con attori provenienti da altri fumetti quali Akakage il ninja mascherato (1966), Sally la maga (1966), Il margine d’acqua (1969), Babel II (1971, in Italia Babil Junior), Mars (1976), Il suo nome è 101 (1977) e il monumentale Le cronache dei tre regni (1971).
In un futuro reso attraverso un’estetica steampunk, la rivoluzionaria energia pulita Shizuma Drive rimpiazza tutte le fonti energetiche divenendo l’unico modello accettato. La pace e il benessere regnano sovrani, ma alla base del successo della Shizuma Drive vi è stata una tragedia, quella del paese belga di Bashtarle: tragedia per i milioni di morti, e tragedia per Franken von Vogler, uno degli scopritori della Shizuma Drive, un innocente sulla cui diffamazione è stata edificata la prosperità mondiale. La verità su Bastharle e Vogler torna a galla durante la guerra tra l’Organizzazione nazionale di polizia e Big Fire, che anela a dominare il mondo: negli opposti schieramenti militano GinRei e Gen’ya, i figli di Vogler. La lotta tra le due fazioni si inasprisce quando Gen’ya sfrutta Big Fire per vendicare la memoria del genitore, facendo tremare il mondo con un dispositivo che inibisce tutti gli apparecchi Shizuma Drive. Non solo la corrente elettrica, ma anche i combustibili cessano di funzionare e questo condanna l’umanità a giorni di inferno: i treni deragliano, gli aerei precipitano, le ambulanze non partono e le apparecchiature mediche non funzionano. Dulcis in fundo, anche Vogler sembra tornato dall’oltretomba.
«In Giant ci sono tre temi principali», dice Imagawa, «il primo è quello della crescita di un bambino in adulto, e per svilupparlo abbiamo introdotto la vicenda della tensione tra genitore e figlio. È superando questo tipo di tensione che un bimbo diventa maturo, e proprio questo del confronto padre-figlio è il secondo tema di Giant». Infine «volevo analizzare cosa succede all’umanità quando gli ideali di un’utopia vanno male».Parlando della crescita, Imagawa si riferisce all’eroe dodicenne Daisuku, che riceve il Giant Robot dal genitore morente e diventa l’asso nella manica della polizia internazionale. GinRei, Gen’ya e Daisaku hanno grossi problemi a convivere con l’eredità paterna e questa è la chiave della loro ritrosia a crescere. Giant Robot diventa quindi il racconto di tre storie di formazione, di tre personaggi che, tramite le scelte che fanno e le persone che hanno intorno, trovano tre soluzioni diverse alla loro sofferenza.
Il palcoscenico di questo Bildungsroman è un’eccitante, epica storia d’avventura, piena di dramma e melodramma, in cui convivono atmosfere apocalittiche, robottoni, misteri stratificati e creativi combattimenti fra superuomini dotati di poteri speciali. I guerrieri che compongono le due organizzazioni provengono tutti dalle opere di Yokoyama, e le epoche a cui si rifà il loro abbigliamento sono diverse, il che dà come risultato un incredibile caleidoscopio ucronico. Inoltre usano stili di combattimenti fantasiosi e impossibili che si ispirano al wuxia, la letteratura cinese di arti marziali. Ogni combattente è dotato di un potere speciale: correre alla velocità della luce, lanciare con l’arco centinaia di frecce a velocità impossibili, teletrasportarsi, trasformarsi in qualsiasi cosa, addirittura l’immortalità. Sono guerrieri, esper, maghi: lungi dal seguire un approccio realistico, Giant Robot si incarica di adattare ai tempi correnti la grande fantasia e le ingenuità delle storie degli anni Sessanta, replicate anche nel design retrò, e le scene con i superuomini, indiavolate e ricche di invenzioni visive che lasciano di stucco, vantano animazioni di una fluidità che annichilisce.
Il Giant Robot titolare lo è di nome e di fatto, autentica incarnazione metallica della Forza: le movenze, lente e minacciose, riflettono l’imponente stazza; ogni passo fa tremare lo scenario e produce distruzione; le copiose sbuffate di vapore tradiscono le grandi sollecitazioni fisiche a cui sono sottoposti gli ingranaggi; e quando vola con il propulsore sulla schiena ricorda, per rumore e potenza, un razzo spaziale. È il capolavoro di mechanical design di Makoto Kobayashi. I pugni sono un solenne atto di distruzione: fanno esplodere mattoni e lamiere quasi in faccia allo spettatore. Indimenticabile la scena in cui Giant Robot bersaglia il nemico con un’alluvione di missili, tutti provenienti dal suo corpo. In tutte le sequenze action, Giant Robot è l’OVA meglio animato di sempre. Una colonna sonora sontuosa, ricca di fanfare irresistibili, canti gregoriani e composizioni operistiche, composta da Masamichi Amano, fatta suonare – sotto consiglio del produttore Tokunobu Yamaki – all’orchestra filarmonica di Varsavia e in seguito raccolta nel pazzesco numero di sette cd, è il sottofondo e il degno coronamento di una storia incredibile.
Questo straordinario monumento tecnico dall’appeal cinematografico inaugura il vero marchio di fabbrica di Imagawa: la concezione postmoderna che trascina atmosfere vintage in un vortice narrativo quasi futuristico. Ci si può tranquillamente dimenticare degli esilissimi intrecci dei fumetti degli anni Sessanta: con i suoi quasi venti attori in sette episodi, Giant Robot propone un storia articolata e corale e una coltre di misteri che, svelati, ne creano di nuovi.
«Il mio obiettivo è realizzare un film che sul finale lasci sorpresi gli spettatori, perciò non posso lasciare che tutto si capisca all’inizio. Adesso, attraverso le recensioni, la gente di solito sa come va a finire una storia prima di averla vista. È per questo che ogni episodio di Giant Robot termina con un nuovo mistero! Giant è un “cartone animato cruciverba”; visto il primo episodio, si capiscono alcune lettere, dopo il secondo se ne possono inserire altre nello schema e cominciano ad affiorare delle parole… Anzi, dopo aver visto il secondo molti fatti marginali del primo si caricano di un nuovo significato; è una cosa che si addice molto agli OVA, cioè a un tipo di spettacolo che lo spettatore può rivedere ogni volta lo desideri fermando l’immagine o tornando indietro sulle scene più ambigue. Una volta visto il secondo volume, verrà certamente la voglia di rivedersi il primo, perché finalmente si potranno dissolvere molti dubbi rimasti insoluti alla prima visione, e così via con ognuno degli episodi successivi. Una volta raccolte tutte le cassette, viene poi voglia di chiudersi in casa per rivedersi tutto dall’inizio alla fine!»
Imagawa lo dice nel 1994, e idealmente è il manifesto della sua poetica, la regola che varrà per tutte le sue reinterpretazioni di robottomono vintage. Flashback dello stesso avvenimento via via sempre diversi, per spiegare le varie versioni della verità, si caricano di nuovi significati volta per volta, e rendono sempre più difficile capire cos’è accaduto davvero a Bashtarle. Anche i personaggi tacciono il loro coinvolgimento nel fatto, rivelandolo solo in momenti specifici per accrescere con colpi di scena la ricercata teatralità dell’intreccio. Come alcune opere di Tomino, Giant Robot comincia dando per scontato il suo mondo. Background dei personaggi e setting devono essere ricavati personalmente dallo spettatore mediante i dialoghi, e si fa riferimento ad avvenimenti che non vengono mai mostrati.
Eppure Giant Robot è ancora abbastanza lineare, imparagonabile agli estremismi che si vedranno nei lavori successivi di Imagawa. Del resto, nelle intenzioni di Imagawa l’intera miniserie è l’atto centrale di una storia ben più grande, che si sarebbe ampliata con un prologo e una vera conclusione se le vendite avessero retto bene. Per questo Imagawa tratta come assimilati dei fatti non trattati, come la storia di Daisaku, il passato di Tetsugyū e Taisō, la formazione della polizia internazionale, l’origine di Big Fire e gli antagonismi personali tra i vari componenti delle due fazioni. Il regista dice orgoglioso di aver potuto realizzare l’opera con tutta la libertà che voleva, e che questa rappresenta tutto se stesso e le emozioni che ha provato per il manga e il tokusatsu storici di Giant Robot.
Qualche smagliatura c’è. L’opera si regge sullo stordimento visivo, la sconfinata fantasia dei combattimenti e la trama a incastro, ma gli attori sono archetipi destinati ai loro ruoli più che persone ben caratterizzate. In diversi momenti, poi, si avverte che Imagawa perde la bussola nella composizione della storia: lui stesso ammette che durante la produzione ci sono stati ripensamenti e cambi di rotta nella stesura della sceneggiatura, in parallelo ai suoi cambi di gusti e di sensibilità, e che anche le scadenze gli hanno imposto tagli vari a storyboard e scene. A riprova di questo vi sono i dieci minuti di riepilogo del primo episodio che aprono il secondo; la preventivata durata di una settimana degli avvenimenti che poi viene disattesa; la parte centrale che tergiversa su se stessa con un budget sensibilmente inferiore; un eccessivo numero di sequenze di flashback dei fatti di Bashtarle, e le due puntate finali che introducono di punto in bianco un sacco di nuovi personaggi. Giant Robot termina con un finale aperto: all’epoca Imagawa dice che è un invito allo spettatore a usare la fantasia, 558 ma realisticamente era, nelle sue speranze, un ponte per la restante parte del suo progetto, eventualmente da riprendere in un futuro più fortunato che mai arriverà. In ogni caso l’opera trasuda un carattere, un genio e una forza possente che ancora oggi le permettono di splendere come un grandissimo lavoro. È davvero un peccato che non ha avuto il successo che meritava.
In parallelo alla pubblicazione degli OVA, Studio Mū rilascia anche uno spin-off, sempre OVA. Sono i tre episodi che compongono GinRei The Animation, dedicato all’icona sexy della saga, celebratissima in poster e artwork, nata originariamente su carta nel seguito di Babel II, Il suo nome è 101. Sono avventure fuori continuity, gradevoli ma innocue, dal registro comico e sottilmente erotico.
Extra-anime, Giant Robot avrà ancora da dire. In contemporanea agli ova, Imagawa scrive un manga affidandone i disegni a Mari Mizuta, uno dei direttori d’animazione della serie: si intitola Giant Robot e viene pubblicato su Comics Genki; alla fine si comporrà di due volumi. Si ignora il contenuto. Ma soprattutto, nel nuovo millennio, mentre incontra difficoltà a dirigere nuovi anime, Imagawa comincia un’opera ambiziosa: un adattamento a fumetti delle parti non animate del progetto originale di Giant Robot, che dia finalmente un prologo e una conclusione all’opera. Così, sulla rivista Champion Red, tra il 2006 e il 2011 Imagawa scrive, facendolo disegnare a Yasunari Toda, Giant Robot – Il giorno in cui la Terra bruciò (stesso titolo in Italia), l’antefatto, poi raccolto in nove volumi. Sulla stessa rivista e sempre insieme a Toda, chiude definitivamente Giant Robot con L’assedio di Babele, sei volumi serializzati tra il 2011 e il 2014. Visto il basso numero di albi, è certo che abbia condensato molte idee del maxi progetto originale senza trasporre tutto nei minimi dettagli, ma se questi manga fossero reperibili per il pubblico occidentale ci si potrebbe pure accontentare: purtroppo il primo inizia le pubblicazioni in Italia per Ronin Manga ma è lasciato incompleto all’ottavo volume, e non si ha ancora notizia di una eventuale pubblicazione in lingua inglese.
*Questo articolo è un estratto dal saggio Guida ai super e real robot. L’animazione robotica giapponese dal 1980 al 1999, di Jacopo Mistè, pubblicato da Odoya.