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Lo spiacevole ritorno di Zio Tibia

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di Fabio Genovesi*

Artigiani dell’emozione, abili costruttori dei nostri stessi sogni: questo è stato il mestiere della generazione che è stata ragazza in quegli anni senza l’oceano di internet in cui navigare, senza la distesa di immagini e video a infinita disposizione, ma pure prima che i videoregistratori potessero darci un minimo di controllo su quel mondo di passione proibita che ci attirava tanto più della misera dieta del quotidiano, a base di scuola, compiti, catechismo e i mille altri trucchi che i grandi si inventano per rendere la vita dei ragazzi più simile al grigiore dell’età adulta.

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E allora, l’unica via di fuga da quel grigio era per noi l’arcobaleno dell’immaginazione. Che era un animale selvatico e abituato a correre senza sosta e senza meta in mezzo al folto della jungla misteriosa, dove ogni passo era nuovo e da inventare, e restare in groppa a quella bestia era difficile, ma poteva regalarti scariche di passione pura. Una belva dalle mille livree diverse, eppure appena ti passava davanti la riconoscevi al volo mentre ti rubava il respiro. Magari su un giornale, una rivista nell’angolo più sperso dell’edicola, un attimo sfolgorante alla tv, una canzone sentita per caso alla radio di cui non sapevi il titolo.

O, appunto, su un libro. Un libro strano e insidioso, perché aveva il formato di quelli noiosissimi che ti obbligavano a leggere, però in copertina al posto di colori pastello o soporiferi dipinti impressionisti abbondavano scheletri, vampiri, lupi mannari e altri magnifici mostri, tutti intorno a un signore spigoloso e sinistro che ti sorrideva ammaliatore, sconosciuto eppure familiare. Anzi, si trattava proprio di un tuo parente: lo diceva il titolo, quello era tuo zio. E lo Zio Tibia stava lì pronto a regalarti una delle emozioni più intense e primitive, quella che in teoria avresti dovuto fuggire, e però più ci pensavi e più la volevi sulla pelle. Un brivido che arriva dal buio delle caverne dov’è nato l’uomo e ha percorso strisciando ogni epoca fino a oggi, ha i colori della notte e del sangue e una voce stridula che viene dall’Aldilà, e si chiama Paura.

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Sì, perché pure la Paura è un gusto, è “il Piacere della Paura”, come titolava un’altra grande raccolta di fumetti uscita in quegli anni sempre per Mondadori. E anche con questo piacere oscuro eravamo dei grandissimi artigiani: ancora niente VHS, e i pochi film dell’orrore che passavano in tv, certi genitori assurdi non ce li lasciavano guardare. Ma per fortuna nella nostra famiglia c’era lo Zio Tibia, che ti aspettava lì insidioso tra le pagine di un libro, proprio dove i grandi ti invitavano sempre ad andare.

Col suo formato Oscar era insieme economico e pratico da nascondere, per portarlo ovunque e pure a letto la notte, quando avresti dovuto dormire e invece stavi a leggerlo sotto il lenzuolo, con una torcia che lo illuminava appena, retta dalla tua mano tremante. E lì, tra quelle tavole cariche di drammatico bianco e nero, con quei graffi di china che ti avvolgevano di tenebra come la tela di un ragno ipnotico e rivoltante, le storie dello Zio Tibia ti si appiccicavano addosso per incendiare la tua immaginazione. E noi appunto eravamo bravissimi in questo, maestri nel raccogliere i pochi elementi a disposizione e costruirci mondi fantastici ed emozionanti.

Infatti con quei vampiri, quegli antri misteriosi e quegli scorci di buio, sapevamo volare dritti fino ai boschi notturni della Transilvania, proprio come in altri momenti della nostra adolescenza ci sarebbero bastati ingenui accenni di coscia su qualche rotocalco sfogliato dal dentista, occasionali scollature nelle pagine del catalogo Postalmarket sottratto a madri e zie, per trasportarci in lunghe e caldissime notti di flirt e strusciamenti con immaginarie vicine di casa che ci venivano a chiedere il sale o il latte, hostess in misterioso scalo nel nostro paesino privo di aeroporto, professoresse e infermiere e cameriere che per sbaglio bussavano alla porta nel cuore della notte. E noi le aspettavamo lì, carichi e frementi, nel salotto ammobiliatissimo della nostra immaginazione.

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Grandi artigiani insomma, dell’erotismo, della paura, dell’emozione forte in generale. E lo Zio Tibia era la guida perfetta, sinistra e irresistibile, di questo Postalmarket del terrore. Storie che a volte partivano dai classici, altre invece di pura invenzione, ma accomunate dalla spietata brevità, dal fatto che in poche tavole sapevano tuffarti in un mondo, fartici sentire preso fino in fondo, poi uno sviluppo repentino e terrorizzante e addio. Lasciandoti così, spaventato e sperso, senza il conforto di un finale rotondo e consolatorio, senza alcuna lezione morale.

E infatti no, di lezioni ne prendevamo già troppe a casa e a scuola, adesso con la torcia in mano e il respiro piantato tra cuore e gola volevamo uno zio diverso, uno che se ne frega di crescerci secondo il buon senso e l’educazione e ci portava là dove non saremmo dovuti andare, e quindi bruciavamo dalla voglia di arrivarci. Perché eravamo ragazzi, e lo siamo ancora. L’età e le date di nascita sono scemenze, le carte d’identità servono solo alla polizia quando ci ferma per la strada. Dentro di noi, la nostra vera età la decide quanto riusciamo a emozionarci ancora davanti a qualcosa, quel senso di magia che ci riempie gli occhi e il petto. Come davanti a queste tavole, queste storie gloriosamente riproposte in aspetto e formato sontuosi, tutte da tuffartici dentro.

Certo, questo volume sarà difficile da nascondere agli occhi altrui, ma chi se ne importa: se c’è un lato positivo nel crescere, è che nessuno dovrebbe più dirti cosa puoi o non puoi fare, e allora adesso possiamo aspettare la sera e metterci comodi a letto e tremare di nuovo, con buona pace di chi – incautamente – ha fatto la scelta di dormirci accanto. Eppure ci verrà lo stesso la voglia di usare la torcia, e magari coprirci col lenzuolo, e leggendo ritroveremo quel senso di proibita libertà, via veloci in groppa a quell’animale selvatico, galoppando nella jungla della passione.

Siamo così, siamo artigiani dell’emozione. Ce l’abbiamo nel sangue, è una cosa legata alla nostra generazione e anche alla nostra famiglia. Perché col tempo magari siamo diventati padri, professori, medici, imbianchini, benzinai, avvocati o elettricisti, ma nel profondo siamo ancora i nipotini dello Zio Tibia. E nel silenzio della notte lo zio viene da noi, ci sorride con quel sorriso sdentato, ci prende sotto il suo braccio scheletrico, e tutti fuori nelle tenebre a giocare.


*Questo articolo è l’introduzione al volume Lo spiacevole ritorno di Zio Tobia, edito da Mondadori Oscar Ink

Fabio Genovesi (Forte dei Marmi, Lucca, 1974) è uno scrittore italiano. Ha pubblicato per Mondadori i romanzi Esche Vive, Il mare dove non si toccaVersilia Rock CityChi manda le onde (Premio Strega Giovani 2015), Tutti primi sul traguardo del mio cuore e, per Laterza, il saggio Morte dei Marmi. Collabora con il Corriere della Sera, La Lettura e Io Donna.

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