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10 grandi storie di Stan Lee, secondo noi

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Stan Lee è stato uno sceneggiatore prolifico, la cui carriera si è segnalata per estensione e bontà produttiva. Capace di scrivere anche due o tre albi a settimana, ha prodotto moltissimo materiale, dei generi più disparati. Diventerebbe perciò molto difficile individuare “le migliori storie in assoluto”. Cercando un equilibrio tra gusto personale e importanza storica, vi proponiamo una selezione dei fumetti che rappresentano al meglio Stan Lee come autore, le sue idee, la sua concezione di cosa fosse un’avventura di supereroi e come si raccontasse il sense of wonder.

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I Fantastici Quattro (su Fantastic Four #1, novembre 1961), disegni di Jack Kirby

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Furono queste 13 pagine a battezzare la nuova era di Marvel Comics e l’inizio del fumetto supereroistico moderno. Durante una missione spaziale, Reed Richards, Susan Storm, suo fratello Johnny e Ben Grimm vengono investiti da una tempesta di raggi cosmici. L’incidente dona loro quattro superpoteri: il corpo di Reed ora può piegarsi e allungarsi come la gomma, Susan genera campi di forza che la fanno diventare invisibile, Johnny si trasforma in una torcia umana capace di generare fuoco e Ben è mutato permanentemente in un essere di roccia soprannominato la Cosa.

Leggenda vuole che l’editore della casa editrice Martin Goodman avesse incaricato Lee di scrivere una serie con un team di supereroi, visto il successo della rivale Justice League of America. Lee avrebbe voluto lasciare la Marvel, dopo anni passati a mettere in piedi personaggi di poco conto. La moglie di Lee, Joan, lo avrebbe ispirato a scrivere un fumetto «a modo tuo, perché tanto la cosa peggiore che potrebbe succederti è che ti licenzino, ma tu te ne vorresti andare comunque».

Uscito nell’estate del 1961, The Fantastic Four colse in pieno la frenesia per la corsa allo spazio (pochi mesi prima l’Unione Sovietica aveva mandato il primo uomo in orbita, Jurij Gagarin). La premessa da fantascienza speculativa di un gruppo di persone che va nello spazio e torna per raccontarlo fece breccia nella mente dei lettori più dell’ennesimo cowboy pistolero.

L’albo, realizzato insieme a Jack Kirby, sgretolava le convenzioni del genere supereroistico. I Fantastici Quattro erano una famiglia disfunzionale che restava unita nonostante le tensioni interne (il senso di colpa di Reed per aver causato l’incidente che aveva trasformato l’amico Ben Grimm in un mostro, l’irrequietezza adolescenziale di Johnny Storm, la situazione tragica di Ben). La loro identità era conosciuta, erano eroi reali, senza maschere, vivevano a New York e avevano una forte connessione con il tessuto cittadino. Il fascino della serie stava proprio nel fatto che i personaggi per gran parte del tempo non erano Mr. Fantastic, la Ragazza Invisibile, la Cosa e la Torcia Umana. Erano Reed, Sue, Ben e Johnny, avevano desideri, ambizioni e paure (e superpoteri).
(Andrea Fiamma)

L’uomo Ragno (su Amazing Fantasy #15, agosto 1962), disegni di Steve Ditko

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La storia delle origini di Spider-Man è un classico, la conosciamo tutti e non staremo qui a ripeterla. Quello che ci interessa è l’idea che Stan Lee ebbe: travalicare il supereroe e i superpoteri per concentrasi sull’aspetto umano dell’uomo dietro la maschera. Lo aveva fatto già poco tempo prima con i Fantastici Quattro, scoprendo la formula magica sui cui poggiare le basi dell’universo Marvel, ovvero quella dei supereroi con superproblemi, quella di persone comuni gravate da abilità che non erano pronte a gestire. Con Spider-Man, Stan Lee spinse questo concetto ancora più in là, caricando l’intera storia di una tensione emotiva che non si era mai vista prima in un fumetto di supereroi.

Peter Parker, il modello del secchione sfigato, veniva investito di un potere che gli permetteva una rivalsa sulla società che fino ad allora lo aveva messo ai margini. Ma Peter era solo un liceale che del mondo conosceva poco e niente. Un buono, in fin dei conti, troppo rispettoso e timorato per essere davvero quello che sperava di diventare. Nella ascesa verso una vita secondo lui diversa e migliore, Peter venne messo davanti ai suoi stessi errori e alla sua stessa arroganza, quella che portò alla morte di suo Zio Ben. Una tragedia non annunciata, un colpo di scena che rimise tutto in discussione e costrinse il personaggio a ripensare le sue azioni e a diventare un eroe al servizio dell’umanità.

Fu così che Stan Lee creò quello che si può considerare il suo più grande successo e fu su quelle pagine che molto probabilmente scrisse la storia di origini di un supereroe più incredibile di sempre, marchiandola a fuoco con la sua frase più celebre: «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità».
(Andrea Queirolo)

Capitan America si unisce ai … Vendicatori! (su Avengers #4, marzo 1964), disegni di Jack Kirby

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Dopo aver creato nuove icone moderne come i Fantastici Quattro, Spider-Man e Hulk, Lee catapulta negli anni Sessanta anche le vecchie glorie dell’editore. In Avengers #4 Capitan America, la creatura di Joe Simon e Jack Kirby, nonché il primo personaggio in assoluto sceneggiato negli anni Quaranta dal giovane Lee, ritorna in società dopo aver passato decenni in animazione sospesa, ibernato tra i ghiacci del Polo Nord.

I tempi sono cambiati e Steve Rogers si deve adeguare al cambiamento. Non potendo più essere il simbolo patriottico degli anni Quaranta o il controverso baluardo anti-comunista degli anni Cinquanta, il Capitan America di Stan Lee è ora il perfetto “uomo fuori dal tempo” che cerca di vivere in una società che non gli appartiene. Lo sceneggiatore definisce tutti gli aspetti cruciali del personaggio nella sua iterazione moderna, l’alienazione, il senso di colpa e il lutto nei confronti di Bucky, la sua fedele spalla.

Di nuovo, la miscela di umanità, idiosincrasie e difetti convive con l’avventura rocambolesca e gli scenari densi di sense of wonder. Namor, con l’aiuto di una razza aliena, trasforma gli Avengers in pietra. Tocca a Cap e a Rick Jones, il compagno di Hulk che Steve vede come un novello Bucky, intervenire. Il rapporto tra i due verrà abbandonato in seguito, ma Capitan America entrerà negli Avengers, diventandone una delle anime più rappresentative.
(Andrea Fiamma)

Panico al Baxter Building (su Fantastic Four Annual #3, novembre 1965), disegni di Jack Kirby

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In questa storia c’è una delle sequenze che secondo me descrive meglio cos’è stato Stan Lee. Si tratta delle vignette conclusive di questo Annual (un supplemento annuale con storie più lunghe di quelle contenute nella serie mensile) con il matrimonio di Reed Richards e Sue Storm.

Dopo varie pagine di botte tra supereroi e supercriminali, disegnate come solo Kirby sapeva fare, e di testi smielati sull’amore tra i due, Lee chiude con una sequenza di tre vignette di pura ironia e metanarrazione, con i due autori protagonisti, a spazzare via tutta la retorica venuta prima (perché sì, dobbiamo ammettere che la retorica del Sorridente spesso era indigesta).

Era questa una delle più grandi caratteristiche di Lee: la capacità di sdrammatizzare. I fumetti Marvel dei primi Sessanta ti trascinavano in un mondo urlato, di botte da orbi e dialoghi tronfi. Ma poi Lee, con una battuta o una didascalia, smorzava sempre il tutto. Ti mostrava che alla fine era un gioco, una cosa da non prendere troppo sul serio.

E lo faceva mettendosi in gioco in prima persona, inventando un modo diverso per relazionarsi con i lettori, facendoli sentire parte di una famiglia, tra editoriali, didascalie, o rimandi nelle varie storie che poteva apprezzare davvero solo un true believer. Di questo ha fatto poi un marchio di fabbrica, divenendo il volto dell’azienda, tra discorsi nei college e camei nei film. Ma era già tutto lì, nelle didascalie delle prime storie della Marvel.

Questo è il più grande merito dello Stan Lee scrittore. Non l’invenzione di personaggi, il cui merito va di certo spartito con Kirby, Ditko e gli altri. Non la scrittura delle trame, appassionanti soprattutto grazie ai grandi narratori che lo affiancavano. Bensì la capacità di bilanciare serio e faceto, di passare dal dramma alla battuta tra amici. Proprio come accade nella vita reale.
(Alberto Brambilla)

L’arrivo di Galactus (su Fantastic Four #48-50, marzo-maggio 1966), disegni di Jack Kirby

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La grandeur cosmica delle storie di Lee e Kirby per i Fantastici Quattro era talmente difficile da contenere che ben presto i due autori si accorsero di non poterla limitare alle pagine di un singolo albo, e così pianificarono una storia in tre parti che presentò il primo arrivo sulla Terra di Galactus (il Divoratore di Mondi) e l’esordio di Silver Surfer.

I due personaggi volevano essere un modo di alzare la posta rispetto ai nemici affrontati in precedenza dal Quartetto, grazie ai loro poteri quasi divini. A suo modo, questo arco narrativo rappresentò il culmine ideale per la prima metà del ciclo di storie di Lee e Kirby, nel quale erano state gettate le fondamenta della cosmogonia Marvel, con l’introduzione di razze aliene come gli Skrull o di esseri quasi onnipotenti come l’Osservatore. La trilogia di Galactus è a tutti gli effetti il punto più alto di una delle più grandi space opera della storia del fumetto.

In essa, i Fantastici Quattro sono chiamati a fermare la minaccia di Galactus, un essere dalle dimensioni gigantesche che vaga per l’universo nutrendosi dell’energia vitale dei pianeti (che, dopo il suo passaggio, diventano pietre inospitali e disabitate). Silver Surfer è da lui incaricato di cercare nuovi mondi, dopo esserne diventato l’araldo per salvare il suo pianeta. Una volta sulla Terra, però, Surfer si fa attrarre dall’animo nobile dei suoi abitanti e si ribella al suo padrone, aiutando i Fantastici Quattro a sconfiggerlo grazie all’utilizzo di un’arma chiamata Nullificatore Assoluto.

La trilogia di Galactus ha tutto quel che di meglio Lee e Kirby sapevano offrire: esseri dai poteri incredibili, supereroi tutt’altro che infallibili, macchinari immaginifici, sense of wonder a pacchi, super-triangoli sentimentali e testi talmente epici e altisonanti che fanno fatica a stare all’interno di balloon e didascalie. La saga fu talmente memorabile da essere ancora oggi considerata una delle più belle della storia della Marvel, nonché una delle più citate in assoluto nei fumetti successivi. E non ci si spiega come abbia potuto diventare un film brutto come I Fantastici 4 e Silver Surfer del 2007, che da essa aveva preso ispirazione.
(Andrea Antonazzo)

Questo uomo o questo mostro? (su Fantastic Four #51, giugno 1966), disegni di Jack Kirby

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Tra i meriti di Stan Lee c’era quello di saper alternare vari registri, dalla commedia al drammatico, passando per l’epico, persino da una vignetta all’altra, in modo molto naturale. Dopo la chiusura della bombastica trilogia di Galactus, sulle pagine dei Fantastici Quattro lui e Kirby optarono per un po’ di decompressione e proposero una storia molto più quotidiana e intimista, incentrata su Ben Grimm, alias la Cosa.

In questa storia, Ben, stanco di essere visto come un mostro, viene attirato con l’inganno da un malvagio scienziato che promette di riportarlo alla normalità. Ben ritorna in effetti a essere un umano, ma i suoi poteri vengono trasferiti allo scienziato, che vuole distruggere dall’interno i Fantastici Quattro e soprattutto il suo rivale Reed Richards. E, quando Ben prova ad avvertire i suoi compagni di squadra, nessuno gli crede.

Il piano dello scienziato fallisce per sua stessa mano, quando si rende conto del reale valore del genio di Mr. Fantastic e decide invece di salvargli la vita. In quel momento, Ben Grimm torna a essere la Cosa.

La storia riprende uno dei temi tipici di molti personaggi di Stan Lee: a volte i superpoteri, anziché un dono, possono rivelarsi una maledizione. Ben Grimm, così come Hulk, è visto come un mostro dall’opinione comune, ma a contare davvero sono il suo animo nobile e le sue azioni eroiche, come comprende più di tutti Alicia Masters, la fidanzata storica della Cosa. Una metafora a La bella e la bestia, insomma, ma in versione marvelliana.
(Andrea Antonazzo)

La fine dell’Uomo Ragno (su Amazing Spider-Man #50, luglio 1967), disegni di John Romita

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Dietro la copertina Marvel più omaggiata e citata di sempre c’è una storia memorabile, quella in cui Peter Parker decide di non essere più Spider-Man. Ovviamente il tutto si risolve in 20 pagine al fulmicotone: Stan Lee e John Romita infilano un colpo di scena dopo l’altro, proiettando Peter Parker in un’escalation di sentimenti ed emozioni contrastanti.

In breve, nonostante salvi vite umane, Spider-Man viene preso di mira dalle persone e dai giornali che, a partire dagli editoriali di J. Jonah Jameson sul Daily Bugle, lo etichettano come una minaccia. Nel mentre la vita personale di Peter Parker va a rotoli e lui si accorge di stare dedicando troppo tempo a combattere il crimine: sua zia è malata e lui non le sta accanto; Gwen lo invita a un party ma lui è costretto a declinare l’invito; a scuola va male e i professori lo rimproverano; Norman Osborn gli offre il lavoro della vita ma lui non può accettarlo.

Nervoso, sfinito e perennemente in preda ai sensi di colpa dettati dalle proprie responsabilità, Peter decide di gettare via il costume quando vede Jameson in televisione offrire mille dollari a chiunque catturerà Spider-Man. Stan Lee fa esplodere l’intera tensione accumulata in una sola vignetta in cui Romita mette in primo piano il volto costernato del personaggio, cospargendola di scritte altisonanti che cadono come un macigno sulla coscienza di Peter: minaccia, egomaniaco, nemico pubblico, truffatore, disturbato.

È il punto di non ritorno per il personaggio. Essere un supereroe gli ha portato solo infelicità, allontanandolo dalla vita reale e dalle sue responsabilità. Per questo non gli è più possibile essere Spider-Man ma, al contempo, gli è indispensabile esserlo. Peter Parker non può star fermo a guardare i criminali perché lui sa di poterli combattere. Soprattuto quando entra in scena per la prima volta Kingpin, deciso a conquistare la città.

In un’altra sequenza carica di pathos, Peter Parker riflette sul perché sia diventato Spider-Man mentre viene ritratto pensieroso tra la nebbia su di un molo del porto di New York. Dopo un viaggio nella propria memoria, in cui ripercorre la tragica morte di suo zio, decide di tornare a indossare il costume gettato nella spazzatura poche pagine prima.

In mezzo a questo concentrato di esasperazione si cela il sunto dell’idea che ha reso grande il personaggio – da grandi poteri derivano grandi responsabilità –, con il quale Stan Lee gioca a più non posso per restituirci un eroe che più umano non si può.
(Andrea Queirolo)

Vieni, fratello (su Daredevil #47, dicembre 1968), disegni di Gene Colan

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In visita alle truppe in Vietnam, Devil incontra Willie Lincoln, un soldato afroamericano che ha perso la vista in combattimento. Quando Lincoln gli racconta che, da civile, era un poliziotto congedato dall’arma perché accusato di aver accettato una mazzetta, Daredevil gli suggerisce di chiamare Matt Murdock una volta tornato in patria e farsi difendere da lui. Matt riesce prima a scagionare l’uomo e poi, nei panni di Daredevil, a sgominare la banda di Biggie Benson, il boss mafioso che aveva incastrato Willie.

Gene Colan accompagna i testi con vignette da cinema espressionista e sequenze d’azione viscerali, inquadrature dal basso (sconquassante il primo piano del cane di Willie che attacca i malintenzionati) e colorazioni monocromatiche.

In Vieni, fratello Lee mette da parte le bizzarrie e gli strani supercriminali che erano il sale della testata e prova a raccontare una storia con i piedi ancorati al terreno, credibile e asciuttissima. Contenendo anche la sua proverbiale ed esuberante retorica, lo sceneggiatore mette su carta un’amicizia che travalica la questione razziale e ci parla di razzismo e dello spaesamento dei reduci di guerra. L’albo esce alla fine del 1968, e il Sorridente dimostra di essere un metronomo perfetto dei propri tempi. È questo ritorno costante all’elemento umano e l’interesse per la contemporaneità a rendere grandi le sue storie.
(Andrea Fiamma)

Crisi al campus (su Amazing Spider-Man #68, gennaio 1969), disegni di John Romita

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Nel 1965, Spider-Man apparve nella lista di Esquire dedicata agli eroi degli studenti universitari, insieme a Bob Dylan, Fidel Castro, Malcolm X e John F. Kennedy. Questo, sommato alle continue richieste di interventi nei college americani, fece capire a Lee che una fetta importante di lettori era composta da studenti dell’età di Peter Parker.

Sembrò naturale allora sfruttare il college come volano narrativo. Crisi al campus è ambientata nell’università di Peter, agitata da una manifestazione studentesca a cui partecipa anche Randy, figlio di Joe Robertson, il caporedattore del Daily Bugle. Nel complesso è esposta una tavoletta di argilla su cui sarebbero iscritti preziosi segreti della Storia. Per l’occasione, l’università ha trasformato alcune aree comuni in dormitori privati dove alloggiano studiosi della tavoletta.

Gli studenti protestano la duplice vessazione: la perdita di aree comuni e l’uso di dormitori da parte di ex-studenti facoltosi, preferiti ai giovani in difficoltà economiche per i quali sarebbero pensate le strutture. Nel frattempo, deciso ad appropriarsi della tavoletta, Kingpin fa irruzione nel college. Per salvare i suoi compagni, Peter è costretto a lasciar andare lo zar del crimine, che si appropria del manufatto.

In sincrono con lettori vent’anni più giovani di lui, Lee fa piombare Spider-Man su un contesto di manifestazioni studentesche e rimostranze da parte di alcuni giovani guidati da Josh, un agguerrito attivista modellato sui leader delle Pantere Nere. L’autore sviluppa poi i temi con il suo solito ecumenismo, e Peter non fa che frenare gli animi alla ricerca di una soluzione accomodante per tutti. Con la solita copertina iconica di Romita, raffigurante un Uomo Ragno che si lancia tra gli studenti, questo episodio di Amazing Spider-Man dimostra ancora una volta l’interesse di Lee per i temi di attualità.
(Andrea Fiamma)

Parabola (su Silver Surfer: Parable #1-2, dicembre 1988-gennaio 1989), disegni di Moebius

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Prendiamo due star, facciamole fare un fumetto assieme e il successo sarà assicurato. C’è questo alla base di Parabola, una delle tarde storie Marvel scritte da Stan Lee, realizzata in un periodo in cui era già proiettato nel ruolo di promoter dell’azienda e di se stesso. La storia è ricordata per essere “il fumetto Marvel disegnato da Moebius” e spesso la si cita come “il Silver Surfer di Moebius”. Non bisogna però dimenticarsi di Stan Lee, che qui ha scritto quello che può essere definito il suo testamento fumettistico.

La storia racconta del ritorno di un affamato Galactus sulla Terra. Per tenere fede al proprio giuramento, il Divoratore di Mondi sceglie di non distruggere il pianeta, ma di presentarsi come un dio e portare gli umani all’autodistruzione. Nel mentre, un predicatore televisivo coglie l’occasione per far suo il messaggio di Galactus, autoproclamandosi profeta del nuovo dio e spingendo la popolazione a seguirne i voleri. Silver Surfer, che aveva sperato di lasciarsi alle spalle la razza umana e vivere nella miseria, non può stare a guardare ciò che accade e decide di intervenire contro Galactus.

Lee riversa nel plot alcuni dei temi a lui più cari, come l’emancipazione, la rivalsa del più debole sul più forte, la giustizia e la speranza. Il fumetto ruota anche intorno a sfumature da pamphlet, come l’ottusità del nostro sistema sociale, il potere ipnotico della televisione, l’inutilità della politica e la cecità della religione.

I suoi celebri dialoghi sono, senza alcun dubbio, sopra le righe come poche volte. Silver Surfer e Galactus parlano quasi per aforismi e frasi a effetto, ricche di roboante, ingenua ma dolce filosofia. È un Lee maturo, consapevole di quanto sia stato capace di scrivere negli anni e che qui ragiona sul mito del supereroe e sulla fragilità dell’uomo. In fin dei conti, la base su cui poggia l’intero universo Marvel che ha contribuito a creare.
(Andrea Queirolo)

Leggi anche: I supereroi che non avremmo senza Stan Lee

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