Penguin Highway, lungometraggio d’esordio di Hiroyasu Ishida dopo la direzione di due cortometraggi, arriva in Italia per soli due giorni nella stagione dedicata agli anime proposta da Dynit in collaborazione con Nexo Digital.
Strano come questo lungometraggio, per certi versi, presenti tratti in comune con il film che l’ha preceduto, Mirai di Mamoru Hosoda: entrambi ci raccontano di cosa significhi crescere e fare i conti con quegli aspetti del mondo adulto che non conosciamo e che temiamo di più. Lo fanno proponendo punti di vista differenti e a loro modo originali, figli di una visione del cinema e dell’animazione nipponica diversa ma ben racchiusa all’interno di un medesimo contesto.
Veniamo alla storia: qualcosa di strano sta succedendo nella cittadina in cui vive il piccolo Aoyama, un bimbo di quarta elementare ossessionato dagli studi, dagli esperimenti scientifici e dal seno di quella che chiama “sorellona”, una donna con cui condivide alcuni momenti nel suo tempo libero giocando a scacchi in un caffè. Improvvisamente compaiono alcuni pinguini; subito dopo Aoyama scopre un’enorme sfera liquida sospesa in aria, infine che la “sorellona” è la causa dell’apparizione dei suddetti pinguini.
Penguin Highway è l’anime che non ti aspetti: folle, scostante, schizofrenico. Vive di un continuo disequilibrio che, a conti fatti, risulta essere la sua forza maggiore. Mescolando suggestioni cinematografiche, l’interessante esordio di Ishida si pone come strumento di riflessione su una delle possibili strade che gli anime potrebbero intraprendere in questo periodo della loro storia poiché rivela come la follia di incrociare stili, generi e approcci non necessariamente porta a una visione instabile se supportata da un obiettivo chiaro e preciso.
In questo caso quell’obiettivo è il centro nevralgico del significato di un film come Penguin Highway: raccontarci di cosa significhi crescere e in particolare fare i conti con il concetto di morte. Ebbene sì, gira che ti rigira questo caleidoscopio di colori, forme, racconti confluisce proprio lì: mettere in scena il processo formativo di un bambino che nonostante la sua mente scientifica e matematica, nonostante affronti la vita con un rigore logico da far invidia a un adulto, ancora non comprende il peso e il significato del concetto di morte. E del relativo vuoto che essa comporta. Un vuoto affettivo, emozionale, fisico.
In parte figlio del cinema ghibliano (a partire dal character design) ma anche influenzato da autori più contemporanei come Mamoru Hosoda e Makoto Shinaki, Penguin Highway trova inaspettatamente in Satoshi Kon il riferimento meno ovvio ma anche più eclatante.
Penguin Highway ha i difetti classici dell’opera esordiente: è troppo lungo e ha tanta carne al fuoco. Troppa. Ma è così frizzante e sincero nel mettersi in scena da portarci a perdonargli (quasi) tutto. In particolare è la sequenza finale, un trip onirico affascinante che mescola Escher con la visionarietà magica di un Miyazaki, a elevare il film a opera di notevole interesse.
Spinto da una colonna sonora esaltante, Penguin Highway mostra il fianco in alcune sequenze in cui la fluidità animata perde freschezza. Per recuperare ci sono spesso fondali di altissima qualità, capaci di regalare suggestivi momenti di atmosfera. Ma anche alcune sequenze oniriche dimostrano l’intenzione da parte dell’autore e dello Studio Colorido di andare oltre al linguaggio convenzionale degli anime per sfruttare anche un po’ di sana voglia sperimentale.
È un film che ha il coraggio di parlare ai bambini ricordandosi che hanno un cervello, che sviluppano pensieri e soprattutto domande, senza quindi nascondersi dietro un’autocensura pacchiana e stantia. Questo lo rende complesso e non esattamente universale, ma totalmente libero nelle dinamiche di racconto e messa in scena.
Basta una piccola sequenza a rivelarne la profondità concettuale: di notte Aoyama è svegliato dalla sorella più piccola (quella vera). Sta piangendo, le chiede cosa succede. Lei ha appena realizzato che tutti devono morire, anche la loro mamma.
La fine, il vuoto, l’assenza: elementi che possono spaventare ma che nell’economia di Penguin Highway diventano l’architettura di un discorso molto più stratificato di quanto possa apparire a una prima occhiata.