Durante scorsa edizione di Lucca Comics & Games James O’Barr, il creatore de Il corvo, è stato ospite di Edizioni BD, che ha portato in Italia la raccolta definitiva de Il corvo e si è unita con IDW per proporre lo spin-off italiano del personaggio, Memento mori, realizzato da Roberto Recchioni e Werther Dell’Edera.
Durante la manifestazione, O’Barr sfoggiava magliette con inni punk rock ma la sua attitudine, durante gli incontri con i fan e i panel, era tutto tranne che dirompente. Lo abbiamo trovato pacato e riflessivo, pronto a rispondere a domande che si sarà visto porre centinaia di volte con lo stesso stupore degli esordi.
In un’intervista dicesti di essere cresciuto nella parte di Detroit in cui nemmeno Eminem oserebbe andare.
Già [ride]. E io ero un ragazzo problematico. Sono cresciuto in circostante difficili. I miei primi sette anni di vita li ho passati in un orfanotrofio. Poi sono stato adottato da una famiglia molto povera. Vivevamo in una brutta parte della città. Fu difficile.
Quando scopristi i fumetti?
Mi è sempre piaciuto disegnare e raccontare storie. Avevo otto o nove anni.
Ti ricordi il tuo primo disegno?
Il mio primo disegno? Mi ricordo il mio primo buon disegno. Era il mostro della laguna nera, mi piaceva quel vecchio film della Universal. Quello è il primo disegno che riesco a ricordarmi di aver disegnato bene. La gente diceva «Oh sì, quello è bello». Ho ancora qualche quaderno con dentro quei disegni giovanili. Sono pieni di circostanze tragiche, aerei che si schiantano, cose militari. Se un ragazzino le disegnasse oggi gli adulti chiamerebbero uno psicologo. Se li riguardo non ci trovo niente di felice in quelle pagine, per niente. Ma sono riuscito a sfruttare la cosa a mio vantaggio.
Sei stato nei marines. Come mai scegliesti di entrare nell’esercito?
Avevo bisogno di fuggire da Detroit e i marines erano quelli con l’addestramento più difficile. Volevo scappare dalla città e imparare la disciplina, avere qualcuno che mi dicesse cosa fare ogni giorno così che non dovessi pensare. Ovviamente non è così che funziona la vita. Non dico che mi sono divertito, ma di certo mi ha insegnato la disciplina. Ti alzi, ti vesti, ti presenti e fai il tuo lavoro. Ancora oggi, il mio lavoro è scrivere e disegnare. Quindi mi alzo, mi vesto, mi presento e faccio il mio lavoro.
I marines ti furono d’aiuto in altro?
Furono d’aiuto, di certo. Stavo a Berlino, durante la Guerra Fredda. Non era un posto felice. Non c’era molto da fare. Passavo il mio tempo libero disegnare e scrivere invece che esplorare la città. Fu d’aiuto. Fu d’aiuto ai miei fumetti.
Il tuo processo creativo è cambiato negli anni?
Penso sempre in termini cinematografici. Angolazioni, luci. Parte tutto dalla storia, come lo racconto al meglio? Inizio a scegliere inquadrature, luci e tempistiche, che sono molto importanti. La differenza tra quando ero giovane e adesso è che trent’anni fa se avevo una grande idea per una scena non sapevo come farla, ora se penso a qualcosa posso realizzarla senza sforzi, non è più una lotta come prima.
Pensi molto alla tavola prima di disegnarla?
Faccio dei layout molto grezzi ma non mi attengo strettamente a quei disegni. Se succede qualcosa o mi viene un’idea migliore la cambio. Per me disegnare è come per il lettore leggere. Intraprendo un viaggio che non so dove mi porterà e ogni scoperta mi elettrizza.
Tra sceneggiatura e disegno, cosa sceglieresti se fossi costretto?
Ho scritto testi per altre persone. È più faticoso, perché quando scrivo per me stesso ho già l’immagine in testa e non devo descriverla a nessuna. Non devo stare lì a dire come è fatta la stanza o che abiti indossa il personaggio. Ma è appagante vedere come contribuirà il disegnatore al risultato finale. Detto questo, non ho mai separato scrittura e disegno. Sono cose che vanno insieme. È più facile fare direttamente le cose piuttosto che spiegarle a qualcuno.
Come sai quale sarà la tua prossima idea?
Ho quaderni pieni di schizzi, idee per delle storie, scene specifiche, personaggi. Non sono mai alla ricerca di idee, ma solo di tempo per realizzarle. Molto ha a che fare con quanto sono entusiasta di lavorare su un certo spunto, altre volte si tratta di adempiere al contratto con il mio editore che pretende un nuovo fumetto. È come la casa discografica che dice ai Beatles «ci serve un nuovo disco». Non dicono di cosa dovrà parlare, con me è lo stesso, non cercano idee specifiche, ma solo le mie idee, qualunque esse siano.
Con Il corvo hai costruito un piccolo impero di licenze. Come lo gestisci?
Vorrei che lo facesse qualcuno al posto mio ma poi dovrei lasciare parte del controllo in mani altrui. Il corvo è ancora il mio bambino e non voglio affidarlo a degli estranei. E io ho un’immagine precisa di ciò che voglio. Di solito comunque mi limito a dare indicazioni di massima. Magari non piace un volto o non trovo azzeccata la scelta dei colori e chiedo che vengano aggiustati.
Il corvo è un disegno e in un disegno ogni cosa è messa lì per un motivo. Quando giri un film, ogni inquadratura può diventare una discussione sul contenuto. Nei fumetti sono da solo, a un film ci lavorano trecento persone ed è un continuo compromesso. Per questo sono rimasto coi fumetti, perché ho controllo totale sul prodotto.
E su Memento mori quanto controllo hai avuto?
Due anni fa, a Lucca, mi suggerirono di realizzare un Corvo solo per l’Italia. L’Italia è stata molto generosa con me. Vengo qui fin dagli anni Novanta e mi sono sempre trovato benissimo. Insomma, qualche tempo dopo mi mandarono qualche soggetto e qualche disegno. Mi piacquero entrambi e detti la mia benedizione. Una volta data l’approvazione li lasciai in pace a fare il loro lavoro.
Trovi diverso il pubblico italiano di adesso rispetto a vent’anni fa?
Quando venivo qui negli anni Novanta si parlava di fumetti italiani e francesi. Ora, per via dei film, Marvel e DC si sono accaparrati una grossa fetta di quell’attenzione. Mi piaceva scoprire nuovi fumetti europei che in America non arrivavano ed è triste vedere che anche qui Marvel e DC stanno prendendo il controllo della situazione.
In quel periodo eri particolarmente famoso. Quale fu il tuo approccio alla fama? E come affronti ora l’attenzione esterna?
Fu difficile e lo è ancora. Non difficile come un tempo, perché ormai sono abituato. Non voglio dire di essere timido, ma sono introverso e concentrato su quello che faccio. Posso passare giorni senza parlare, tranne per urlare al mio gatto. Poi arrivi a questi eventi e devi essere un estroverso e far finta di essere felice [ride]. È l’opposto del mestiere del fumettista, dove sei da solo per dodici ore su un tavolo. E poi arrivi qui e fai foto tutto il giorno e stringi un sacco di mani. È un baratto, queste sono le persone che mi permettono di vivere facendo ciò che amo. Quindi non puoi essere scontroso o arrabbiato. L’ultima cosa che vorrei è finire come quei vecchi attori che si lamentano di non avere privacy.
Il corvo nasce come reazione a un episodio tragico della tua vita. Sono passati quarant’anni e quel fumetto ti accompagna ancora nella carriera, ricordandoti, presumo, quei fatti. Non è diventato una specie di boomerang emotivo?
No, è passato abbastanza tempo da quegli eventi da far sembrare quella parte della mia vita un sogno o un film. È molto distante. Ma, certo, le circostanze… Sono parte di me, io non sono cambiato. Tutto quello che faccio è dark, d’atmosfera, violento o molto romantico. Perché è così che sono.
Riesci a distaccarti dai tuoi fumetti?
No, se mi sentissi estraneo ai miei lavori sarei un imbroglione o, peggio, uno annoiato. L’arte è la mia terapia. Disegno e dipingo e scrivo di cose che mi interessano. Non ho interesse a scrivere o disegnare Spider-Man o Superman, non c’è niente che mi affascini di quel mondo. È sempre molto personale.
Dicevi di non essere stato un bambino felice, crescendo immagino tu sia riuscito a trovare la felicità. Questo ha cambiato i tuoi fumetti?
Ha di certo influenzato il mio lavoro. Ho notato di recente che le cose sono cambiate. Vent’anni fa le scene felici o romantiche erano difficili da scrivere e disegnare e mi divertiva di più la violenza. Ora è il contrario: mi piace disegnare i momenti di quiete e ho sempre più difficoltà a mettere in scena la violenza. Non sono più arrabbiato come un tempo.
Vorresti realizzare storie diverse allora?
Sì, ma tutto ciò che faccio è comunque legato ai quei temi. Nessuno scambierebbe i miei lavori per quelli di qualcun altro.
Quello del fumettista per te è diventato un lavoro o provi ancora piacere nel disegnare storie?
È possibile avere un lavoro che ti dia piacere? [ride] No, mi sento molto fortunato. Amo il mio lavoro. Giro il mondo gratis perché alla gente piace vedermi disegnare. Ho avuto lavori normali per metà della mia vita e mi sento fortunato a svegliarmi la mattina e andare al tavolo da disegno. Non devo più lavorare in fabbrica o scavare fossi. E poi ci sono sempre cose da imparare, scopro sempre nuovi artisti da cui imparo. Se sei un buon artista non smetti mai di imparare.
Da chi hai imparato?
Da chiunque. Di recente ho studiato gli impressionisti. Vent’anni fa avrei guardato i loro dipinti e avrei detto «ma sembra che l’abbiano dipinto con il dentifricio». Poi li ho visti dal vivo e i colori vibravano e quello che pensavi fosse grigio in realtà era rosa e blu accostati insieme. Trovo ispirazione da illustratori dell’Ottocento e Novecento più che dai fumettisti. Scopro o riscopro artisti che da giovane avevo liquidato perché non li capivo. È la cosa più bella dell’arte, scopri un artista, poi scopri quello che l’ha ispirato e così via fino a ritrovarvi una genealogia di opere che non conoscevi.
Tu pensi in bianco e nero o a colori?
Nei fumetti preferisco il bianco e nero, perché è più atmosferico. Ma realizzo molti quadri e mi piace giocare con i colori.
Con Il corvo hai sviluppato un’estetica che parlava ai lettori di quegli anni e che si inserisce nel sistema poetico del gotico incarnato da Tim Burton, Neil Gaiman o i The Cure. Cosa è rimasto di quell’estetica?
All’epoca era una cosa underground, come il punk rock. Piccoli gruppi di persone. E ora è stato assimilato nel mainstream. Ed è più facile, per certi versi, perché la gente riconosce subito il tuo prodotto. Non glielo devi spiegare. Questo, di contro, toglie un po’ di mordente, proprio perché è mainstream. Però una bella canzone è una bella canzone a prescindere dalla sua età. Ci sono canzoni uscite cinquant’anni fa che sembrano uscite oggi.
E Il corvo è una di quelle canzoni?
Be’, è in stampa da trent’anni, devo per forza aver fatto qualcosa di giusto.