Tra le immagini che caratterizzeranno la narrazione di questi folli anni un ruolo di primissimo piano sarà sicuramente occupato dalla mesta marcia degli impiegati della Lehman Brothers per le strade di New York. Uomini e donne in impeccabili completi e tailleur che imbracciarono grosse scatole di cartone contenenti i loro averi personali raccolti sull’ormai ex luogo di lavoro. Il tutto mentre i giornalisti incaricati di seguire l’evento cercavano di farci capire cosa sarebbe successo di lì a breve.
Era il 15 settembre 2008 e la bancarotta di una delle compagnie finanziarie più importanti al mondo diventava il segnale più clamoroso di quanto sarebbe diventata enorme la Grande Recessione. Fino a quel momento, per la maggior parte di noi, la camminata dell’uomo morto era qualcosa di visto solo nei film.
Magari in uno di quelli dove di solito un colletto bianco, ormai stremato dal sottostare alle folli regole di un lavoro d’ufficio deumanizzante, dà di matto e manda tutti a fare in culo guadagnandosi il benservito da parte dei superiori. Si trattava quasi di folklore, privo di qualsiasi impatto sulla nostra vita alla periferia dell’impero. Quella volta invece fu diverso. Fu l’inizio di un terremoto che avrebbe cambiato il mondo e noi stessi.
Prima di allora discutere e informarsi sulla finanza era qualcosa da nerd o addetti ai lavori. Nessuno immaginava che di lì a poco saremmo finiti a discutere di spread, deficit e misure protezionistiche con la stessa foga con cui si parla di squadre di calcio. Anzi, con la stessa supponenza e idiota spavalderia con cui solitamente ci si improvvisa allenatori immaginari di società dal valore di centinaia di milioni di euro (veri). Molti di noi perdevano il lavoro, altri erano terrorizzati all’idea. Intere nazioni, tra cui la nostra, parevano sull’orlo del collasso. Cercare di dare una spiegazione comprensibile allo tsunami di cifre e termini incomprensibili che ci stava travolgendo era quantomeno umano.
Peccato che la faccenda fosse molto, molto, molto più complicata di quanto sembrasse, con un numero folle di variabili e agenti disposti sul tavolo da gioco. Dall’incapacità anche solo di comprendere quanto la cosa ci sia sfuggita di mano ecco la nascita di teorie iper-semplificanti e lenitive, come quelle della grandi cospirazioni o delle eminenze grigie a manovrare l’intera economia globale. In realtà basta informarsi un minimo – bastino articoli e libri Mark Fisher o Jaron Lanier, sempre molto accessibili – per rendersi conto di come l’autentico motore di tutto questo perpetuo moto ondulatorio sia qualcosa di a se stante, dove l’uomo è una variabile tutto sommato trascurabile.
L’intero sistema capitalistico viene mosso da forze impalpabili che si autoalimentano mentre le società stesse smettono di fare capo a persone fisiche per venire trattate alla stregua di entità indipendenti dotate di raziocinio. Pensare a come gran parte della nostra vita non sia neppure più in mano a persone reali è un tanto terrorizzante quanto suggestivo, di una complessità folle. Richiede competenze teoriche notevoli e altrettante capacità di applicarle al flusso di vita di intere nazioni. Logico che per la maggior parte di noi, me compreso, sia una conclusione quasi impossibile da razionalizzare. Tanto che a volte si finisce per avvertire la presenza di qualche sorta di stregoneria o forza occulta a mandare avanti la baracca.
Ed è proprio da questo presupposto che prende il via Black Monday di Jonathan Hickman e Tom Coker, una delle serie più intelligenti e d’attualità che si possano trovare sugli scaffali delle librerie in questo momento. Cosa succederebbe se dietro le inarrestabili meccaniche della finanza mondiale ci fossero davvero dei demoni? Se i signori dell’universo di Tom Wolfe non fossero un riferimento sbruffone a una linea di giocattoli anni Ottanta ma autentiche forze soprannaturali? E se certa gente avesse ragione? Gli eventi del Pizzagate sono lì a testimoniare quanto questi presupposti siano in grado di stimolare l’uomo contemporaneo, e un narratore talentuoso come Hickman non poteva certo perde l’occasione per costruirci una delle sue sceneggiature cervellotiche.
Prima ancora di addentrarci nella lettura vale la pena fermarsi a sfogliare semplicemente le pagine dei primi due volumi della serie. La prima impressione è quella di essere a metà tra una serie HBO e S. La nave di Teseo di Doug Dorst e J.J. Abrams. Pagine di documentazione e strani schemi incomprensibili si alternano a capitoli dove i personaggi non fanno che parlare in ambienti bui o illuminati da luci fredde e smorte. Un detective dal talento notevole indaga sull’omicidio del rampollo di una famiglia di ricchissimi banchieri, mentre attorno a lui forze inarrestabili continuano a far muovere gli enormi meccanismi della finanza mondiale come se lui neppure esistesse.
Coker alterna un tratteggio dei personaggi realistico e incentrato su di una recitazione da ricalco fotografico con una stilizzazione quasi metafisica degli ambienti. Si tratta di un gioco di continui contrasti. Spesso il disegnatore non si fa problemi a sfruttare tagli e tecniche prettamente televisive – ad esempio riutilizzando intere vignette ingrandite come a simulare una leggera carrellata in avanti – per poi volare altissimo nei brevi frangenti di fantasy puro.
Non capita molto spesso di leggere fumetti quasi totalmente incentrati su dialoghi dietro una scrivania e che all’improvviso – e solo per un pugno di pagine – ti fanno ritrovare in mondi terrorizzanti da videogioco di Hidetaka Miyazaki. In men che non si dica ci troviamo sospesi in un universo in bilico tra un gelido e smorto realismo – come lo sterile ufficio di qualche enorme multinazionale immerso nella semioscurità della sera – e l’incubo che si nasconde nelle intercapedini di quelle brutte pareti in cartongesso.
La cura certosina dell’estetica di Black Monday è palese e centrale nello svolgersi della storia. Tutto è ricercato e patinato, nonostante finga di giocare con retini e sporcizia applicata digitalmente. Dal layout delle copertine all’alfabeto segreto della congrega dei finanzieri, fino al design dei personaggi. Niente è lasciato al caso, e il risultato è lì a dimostrarlo con arroganza. Nell’universo in cui veniamo calati, una spietata killer pericolosamente tendente al cannibalismo viene disegnata come una specie di modella da Vogue, mentre nessuna donna riesce a dimostrare più di 20 anni.
In più di un’occasione ho provato a calcolare l’età della protagonista, unendo qualche puntino tra le didascalie disseminate lungo la narrazione, per poterla confrontare con il suo aspetto, e ogni volta non ne sono venuto a capo. Coker è troppo abile per farsi sfuggire un errore simile, e il richiamo a tutti i vari Dorian Gray della letteratura è troppo ghiotto. In questo caso aggiungiamo al tutto anche una buona dose di American Psycho e il quadro è completo.
Il risultato è una narrazione che lascia ben pochi di riferimenti abbastanza solidi per potercisi appigliare e in cui Hickman gioca con noi come il gatto col topo. Il suo trucco è semplice: non bisogna scrivere una serie che punti a trovare una soluzione semplice – seppur assurda – a un problema complesso. Molto meglio rendere la chiave di lettura ancora più complessa di quanto non lo sia già, gettandoci dall’inquietudine del sentirsi sperduti nel nostro mondo al terrore completo di non sentirlo neppure più come tale. Ed ecco quindi l’infodump a tratti quasi indecifrabile, i rimandi a eventi di cui sappiamo pochissimo, un linguaggio criptico e un andamento degli eventi che ribalta le aspettative del investigativo classico.
Nel Godzilla di Gareth Edwards (2014) assistiamo a tutta la solita sarabanda paramilitarista del cinema catastrofico statunitense, con tanto di eroe da trailer interpretato da Aaron Taylor-Johnson. Peccato che a conti fatti i soldati inviati dal governo non servano praticamente a nulla. Il conflitto al centro del lungometraggio si risolve tra forze al cui confronto i militari – con tutto il loro valore e i loro equipaggiamenti allo stato dell’arte – non sembrano che moscerini fastidiosi.
In Black Monday succede la stessa cosa: potremmo rimuovere tutto il plot poliziesco e il risultato finale non cambierebbe di una virgola. Perché stiamo parlando di entità che delle nostre leggi non sanno cosa farsene, nella realtà come nelle pagine di Hickman. Il ritmo della serie ne esce stranito. Non si capisce se non succeda nulla o se le cose stiano andando troppo veloci.
Si arriva alla fine del secondo volume e siamo indecisi se sia la conclusione di un plot circolare, destinato a replicarsi sempre uguale a se stesso, o solo il prologo di qualcosa che deve ancora arrivare. Per tutto il tempo siamo stati sballottati tra uffici, appartamenti da rivista di design e aule di università, sperando che l’eroe del caso riesca a dipanare il bandolo della matassa per noi. Una speranza legittima, ma nell’universo del lunedì nero le cose non funzionano così.
Black Monday vol. 2
di Jonathan Hickman e Tomm Coker
traduzione di Luca Fusari
Mondadori Oscar Ink, settembre 2018
Brossurato, 200 pp., colore
20,00 €