Royal City è una di quelle piccole cittadine che si possono trovare nelle province di tutto il mondo. C’è un‘enorme fabbrica a conduzione familiare, che nei tempi d’oro ha dato lavoro a una gran fetta della popolazione locale, senza preoccuparsi di prepararsi a tempi meno rosei. C’è poi una squadra sportiva dai risultati mediocri. E c’è una forte percezione che il mondo si esaurisca in quelle quattro strade. Insomma: c’è un sacco di noia. Che si parli del New Jersey o della Pianura Padana non ha importanza, perché certe cose paiono essere identiche ovunque.
Se si frequenta una buona fetta di letteratura autoriale dalla facile presa emotiva ci si rende presto conto di come la vita lontana dai grandi poli economici e culturali venga ritratta seguendo due sole chiavi. Da una parte abbiamo la vita nel piccolo paese come un ritorno a chissà quali origini felici e sincere, dove ci si conosce tutti e quando si va a letto non si chiude neppure la porta; dall’altra si osserva, invece, una sorta di limbo grigiastro e marrone in cui i rapporti umani paiono essere in balia del decadimento e della frustrazione.
Jeff Lemire, nel suo tentativo di dimostrarci di non essere solo un ottimo scrittore di tizi in costume che si menano o di androidi bambini, sceglie la seconda strada. Peccato che le cose non vadano bene come ci si aspettava, soprattutto alla luce dell’impressionante carriera del canadese dai tempi di Essex County a oggi.
Oltre al mesto paesaggio appena descritto, al centro di Royal City c’è una famiglia piagata da un grave lutto, punto di non ritorno da cui i superstiti sembrano non riuscire a smuoversi. Il pretesto per ritrovarsi tutti nella stessa stanza anni dopo quel mesto evento è il ricovero in ospedale del patriarca, che comunque pareva non passarsela troppo bene neppure quando la salute c’era.
I rapporti con la moglie erano ormai ai minimi storici, e la maggior parte del suo tempo preferiva passarla nella rimessa in compagnia della sua collezione di radio d’epoca. Anche la consorte pare non essere mai stata davvero felice, tra amarezza per la direzione che ha preso la sua vita e tradimenti con una vecchia fiamma.
Da un simile quadretto non potevano che nascere dei figli altrettanto problematici. Patrick, il primogenito, è il classico ragazzo considerato da tutti dotato ma che in realtà non riesce neppure ad accedere all’università. Dopo qualche peripezia lavorativa − assunto in fabbrica nel reparto di cui il padre è responsabile − riesce a svoltare e a campare di scrittura, ma le cose non gli vanno troppo bene ed è in crisi creativa. Tara, la secondogenita, sta cercando in ogni modo di affermarsi nel lavoro, anche se questo significa polverizzare il suo matrimonio. Il più piccolo, Richard, preferisce tagliare del tutto la testa al toro: è semplicemente un alcolizzato pieno di debiti.
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Si tratta insomma di una famiglia piccoloborghese, incastrata in un passato che non potrà mai tornare e la cui ombra contribuisce allo sgretolamento di quel poco di buono che c’era in precedenza (al netto dei disastri, quattro figli li hanno comunque fatti). Notate il sottile parallelismo con il contesto urbano in cui vivono.
Ecco, il problema di Royal City è tutto qui. Lemire si sbraccia in continuazione per far notare al lettore quanto la sua scrittura sia piena di trucchetti simili. Vuole darci grande letteratura − quella senza scemenze come superpoteri, astronavi, viaggi dimensionali e tutte le restanti frivolezze che continuano a pagargli lo stipendio − spingendo unicamente sulla pancia. Così le disgrazie si affastellano e il ritratto della famiglia Pike è così concentrato sull’urlare in faccia al lettore quanto sia disperato, da risultare quasi parodistico.
A un certo punto la figlia decide di lasciare del tutto il marito e di tornare a casa dei suoi, dove scopre il fratellino minore intento rubare le preziose radio d’epoca del padre − ricoverato in fin di vita in ospedale − per ripagare un debito presso alcuni malavitosi. Poco male, poteva sempre piovere, no?
Ed è un peccato che uno scrittore esperto come il canadese non si sia riuscito a darsi una regolata nel tratteggiare questo affresco, perché comunque il racconto è ricco di ottime intuizioni. Il fatto che ogni elemento della famiglia veda il povero Tommy, il figlio morto, come una proiezione dei propri ricordi − con tutte le alterazioni proprie del passare degli anni − è un’intuizione davvero riuscita, soprattutto perché non viene chiarita subito.
Anche la gestione della tavola è spesso notevole. Lemire non è il miglior disegnatore del mondo, ma ricorda sempre di stare lavorando a un fumetto. Così una storia che si presterebbe fin troppo facilmente a un muro di talking heads prende direzioni lisergiche e fluide. Le visioni liquide e sfumate dei protagonisti acquistano forma sulla pagine in un modo che non potrebbe esistere in altri linguaggi. A volte si rischia di cadere nel ridicolo − la parentesi quasi dickensiana del primo volume − ma nella gran parte dei casi il risultato funziona a dovere, e ci traghetta nei pensieri di quattro persone tormentate e fondamentalmente in conflitto con loro stesse.
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Rispetto alla prima uscita, il secondo volume aggiusta di parecchio il tiro, dimostrandosi più solido e limitando i voli pindarici. Si tratta di un lungo flashback negli anni Novanta della famiglia Pike − con deliziosi omaggi musicali alle copertine degli album di quegli anni − e la direzione è più quella del teen drama rispetto a quella esageratamente esistenziale dell’arco narrativo d’esordio.
I grossi drammi devono ancora arrivare e l’apporto emotivo risulta di più facile gestione. Senza contare che, attraverso l’occhio dell’adolescenza, la provincia rischia davvero di apparire quel pantano atarassico di cui si parlava prima. I quattro fratelli acquistano una concretezza in cui è immediato riconoscersi e il registro non è più così esasperatamente disastroso. Tommy è ancora vivo e da fantasma diventa il protagonista assoluto, introducendo − anche come metafora dell’angst adolescenziale − il tema della malattia.
C’è un pizzico di Nick Hornby, tanto per non allontanarsi troppo da quella decade, e un sacco di paginette a righe blu a richiamare i diari tormentati che molti noi tenevano quando l’acne cominciava a devastare il viso. La chiusura del volume pare introdurre a un arco narrativo ancora più cupo del primo, con l’arrivo dell’evento chiave di tutta la serie. Vedremo se, col tempo, Lemire avrà imparato a gestire la vita interiore dei suoi personaggi in maniera meno teatrale.
Royal City voll. 1 e 2
di Jeff Lemire
traduzione di Leonardo Favia
Bao Publishing, ottobre 2017 e agosto 2018
cartonati, 160 e 136 pp., colore
18,00 € cad.