Nel percorso del talentuoso Mamoru Hosoda, Mirai potrebbe forse apparire come un’opera minore, un passo indietro. In parte lo è, ma tutto sommato è anche un passo decisivo verso nuove direzioni di racconto, oltre che il consolidamento di un corpus autoriale tra i più sorprendenti nell’attuale panorama dell’animazione giapponese.
La storia è molto semplice da riassumere: Kun è un bambino che si ritrova a condividere spazi e affetti con la nuova arrivata, la neonata sorellina Mirai. I sentimenti che affollano la testa di Kun sono molti e spesso contrastanti. Attraverso una serie di incontri fantastici e situazioni meravigliose, Kun imparerà a crescere e ad accettare le novità che ha vissuto come un vero e proprio terremoto.
Dalla sinossi già si capisce quanto Mirai sia totalmente incentrato su una dimensione intimista, con un punto di vista unico e privilegiato: quello del piccolo Kun. Il linguaggio e il modo di raccontare determinate situazioni si posizionano su una prospettiva fortemente soggettiva: lo spettatore vive (rivive?) l’esperienza di essere un bambino con tutti i dubbi, la rabbia, la confusione, la meraviglia della scoperta. L’accettazione della sorellina Mirai è forse lo scoglio più grande che deve affrontare, ma nulla è impossibile.
Hosoda opta per un’unità di tempo e soprattutto di luogo. Se il tempo preso in considerazione sono i primi mesi (forse il primo anno) di vita della sorella, lo spazio in cui si svolge l’azione è unicamente quello della casa. Nella mente di un bambino, però, spazio e tempo sono davvero relativi.
Ecco quindi he emergono con forza i punti chiave della poetica hosodiana: i confini del tempo e dello spazio si frantumano, le apparenti ristrettezze di luogo e tempo si dissolvono sotto i colpi di un potere immaginario che solo i bambini hanno. Il tempo come variabile narrativa: proprio come ne La ragazza che saltava nel tempo. Il luogo come variabile narrativa nella sua non-solidità: proprio come in Summer Wars. La famiglia come nucleo esistenziale che agglomera uragani incontrollabili di sentimenti: proprio come in Wolf Children. Mondi coincidenti e sovrapposti: proprio come in The Boy and the Beast.
Se è vero che Mirai può apparire come una meteora lontana dai confini della filmografia di Hosoda, uno sguardo più ravvicinato a quelli che sono gli elementi chiave del film ci permette di scoprire una coerenza intellettuale degna della miglior Poetica degli Autori.
E come nelle pellicole precedenti, Mirai mette in scena un viaggio di formazione. Proprio come tutti gli eroi hosodiani, anche Kun viaggia nel tempo e nello spazio, in luoghi incredibili, nel futuro e nel passato per poi tornare al proprio presente e scoprire che tutti gli strumenti di cui aveva bisogno per fare quel salto di crescita erano proprio lì davanti e intorno a lui.
Mirai è un film a misura di bambino, ma è anche una profonda riflessione sul crescere. Il piccolo Kun è il risultato di storie e linee temporali che si sono incrociate, di esperienze, drammi, entusiasmi passati che hanno portato al presente e quindi a Kun stesso. Il protagonista fa tesoro di queste esperienze e compie ogni volta un passo verso il proprio futuro.
Certo, Mirai non è esente da difetti. Alcune scelte registiche sono povere e lontane dal miglior Hosoda, mentre l’animazione non è sempre ad alti livelli come ci aveva abituato in precedenza. Qualche critico lo ha accusato di aver optato per un approccio troppo minimalista, ma lo aveva fatto anche Miyazaki con Ponyo sulla scogliera: quando l’autore parla e guarda attraverso i bambini tutto muta, anche il modo di mettere in scena il racconto.
Con Mirai si fa sempre più concreta l’idea che il vero erede di Hayao Miyazaki non sia – come molti pensano – Makoto Shinkai, bensì Hosoda.