Dopo che per anni Yoshiharu Tsuge è stato pressoché sconosciuto al lettore italiano di fumetti − che da quasi trent’anni è tutt’altro che a digiuno di fumetto nipponico, anche d’autore − nel giro di pochi mesi è uscita una buona quantità di materiale che ha colmato una lacuna importante nella scoperta di un mangaka tra i più influenti di sempre.
Di Tsuge si è visto per primo un lavoro autobiografico, che ha fatto conoscere l’uomo e il suo travaglio artistico (L’uomo senza talento) e, mentre Canicola edizioni ha continuato a proporre racconti della vita di Tsuge con Il giovane Yoshio, Oblomov ha affrontato la produzione di Tsuge guardando prettamente ai lavori di finzione con Nejishiki, antologia che contiene anche il seminale racconto omonimo, e successivamente Fiori rossi.
Fiori rossi prende il nome da un racconto breveche in Occidente aveva fatto conoscere Tsuge all’inizio degli anni Ottanta sulle pagine della rivista Raw di Art Spiegelman e Françoise Mouly. L’antologia di Oblomov contiene anche altri racconti brevi pubblicati tra il 1966 e il 1968, a differenza dei lavori più autobiografici, che arrivarono nei decenni successivi (soprattutto L’uomo senza talento, che chiuse la carriera di Tsuge negli anni Ottanta).
Se finora si era visto uno Tsuge brutale e spietato nel raccontare la propria esperienza e il mondo intorno a lui, Fiori rossi cambia ampiamente la prospettiva, esplorando una profonda fascinazione per la natura.
Quasi ogni racconto di questa antologia è una celebrazione della natura, un breve canto di meraviglia di fronte a più manifestazioni della grandezza di ciò che c’è di più ordinario nel mondo che circonda l’uomo. Tsuge sembra invitare a evadere da una realtà asfissiante − quella del boom economico e della rinascita del Giappone del Dopoguerra − rifugiandosi, con sguardo fanciullesco e affascinato, in un passato e in luoghi lontani.
L’autore lavorava con profonda differenza rispetto a Tatsumi che, con i suoi racconti urbani e con rassegnazione raccontava la realtà dura di quei tempi senza il minimo intento di allontanarsene, ma anzi facendone una cronaca che entrava nei meandri più sporchi delle città e delle umanità. Tsuge col suo fare che anticipa quella sorta di eremitismo de L’uomo senza talento, crea racconti bucolici, che non mostrano epicità come quelli di Sampei Shirato (Kamui) né folklore come quelli di Shigeru Mizuki (NonNonBâ) o come alcuni di Susumu Katsumata (si pensi all’antologico Neve rossa).
Esempio evidente del senso di meraviglia che pervade i racconti di questa raccolta è proprio Fiori rossi, durante il quale un ragazzino scopre, con fascino e mistero, l’arrivo del ciclo mestruale a una giovane amica. E la delicatezza con cui Tsuge lo rappresenta appoggia proprio su elementi naturali. In ogni vicenda narrata, lo sguardo fanciullesco e vergine è fondamentale per l’osservazione di una realtà che mette l’uomo in una condizione di apparente inferiorità, ancora non del tutto consapevole di essere parte nemmeno abbastanza integrante di un equilibrio non tangibile.
Se nel corso degli anni il segno di Tsuge si è fatto affilato e chirurgico, spietato quando già lo era quello del fratello Tadao nel rappresentare la realtà, qui il gusto per la favola bucolica dà ai volti contorni rotondeggianti, in ambienti dettagliati e ricchi di tratti, seppur non realistici quanto quelli che è arrivato a delineare in lavori successivi.
È il costante oscillare tra fantastico e reale − un equilibrio mantenuto sempre attorno a una sottile soglia − a tingere questa serie di racconti, un po’ come a unirli è il viola tenue usato al posto del nero (un po’ come nelle vecchie riviste nipponiche). Lo stupore di fronte a fenomeni naturali o al limite del naturale per Tsuge sembra sempre finire per andare oltre il tangibile, mai nel mito ma nemmeno nel mero realismo.
Fiori rossi
di Yoshiharu Tsuge
traduzione di Juan Scassa
Oblomov Edizioni, settembre 2018
Brossurato, 252 pp., b/n
19,00 €