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Il “Disincanto” di Matt Groening è quello che prova lo spettatore

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È facile entusiasmarsi per un prodotto d’intrattenimento come Disincanto sapendo che si tratta della nuova serie animata di Matt Groening, scritta da un pool di autori presi dalle writers’ room de I Simpson e Futurama. Niente potrebbe andare storto con una miscela così.

È altrettanto facile iniziare a guardare il cartone con una certa dose di aspettative, magari restando tiepidi di fronte alle premesse della storia (una commedia fantasy che prende in giro i luoghi comune del genere) ma confidando che il suo sviluppo spazzi via ogni dubbio. Più difficile, man mano che passano i minuti e gli episodi, venire a patti con la realtà dei fatti: è andato tutto storto.

Disincanto è un fantasy umoristico che prende in giro le atmosfere azzimate de Il trono di spade e delle fiabe Disney, cercando allo stesso tempo di raccontare le vicende comico-epiche del regno di Sognolandia e della Principessa Tiabeanie, detta “Bean”, un’erede al trono riluttante e dedita all’alcool. Insofferente alle regole, come tutti gli eroi groeninghiani (Bongo, Bart, Fry) Bean sfida apertamente l’autorità, impersonata dal padre, Re Zøg – e, come i conigli di Life in Hell, sfoggia incisivi di tutto rispetto.

A differenza delle altre due serie di Groening – I Simpson e Futurama, ovviamente – Disincanto ha ambizioni alte, in parte obbligate dal modello Netflix. Non si accontenta di aprire e chiudere il proprio discorso nel giro di una puntata, inanellando tante storie autoconclusive quanti sono gli episodi di una stagione, ma lo tiene aperto sperando di guadagnare inerzia e poter scivolare morbidamente nell’orizzontalità del racconto epico. Il risultato è però una continuity molto blanda che ragiona ancora a compartimenti stagni e non sviluppa nulla di significativo.

disenchantment disincanto matt groening

A sviluppare la serie con Groening, Josh Weinstein («creatore tanto quanto me dello show» ha detto Groening). Weinstein e il partner lavorativo Bill Oakley, che di Disincanto è uno degli autori, sono stati due dei più brillanti sceneggiatori de I Simpson. Primi esterni, insieme a Conan O’Brien, innestati nel gruppo di scrittura originale de I Simpson, sono diventati showrunner della serie nelle stagioni 6 e 7. La loro gestione si ricorda per l’attenzione dedicata alla famiglia come nucleo fitto di relazioni e scontri; i loro episodi una sequela di momenti emotivi e drammatici capaci di spingere i personaggi oltre i luoghi abituali.

Durante le stagioni dei due autori, Bart e Lisa acquistano un’intelligenza emotiva e una sensibilità ignorata dagli altri caposceneggiatori (Bart si vende l’anima, Marge non essere orgogliosa, Un mare di amici, La guerra segreta di Lisa Simpson), arrivando a tramutarsi in quasi adolescenti.

L’interesse di Weinstein e Oakley stava infatti nei personaggi giovani, non più bambini ma ancora in procinto di diventare adulti, di cui Springfield era sprovvista. Per questo lasceranno I Simpson e creeranno il cartone Mission Hill, un esperimento dai colori fluo che non riuscì a intercettare il pubblico dei vari Daria e Beavis and Butt-head, per poi collaborare in maniera saltuaria a Futurama.

mission hill
I protagonisti di “Mission Hill”

Mission Hill è la storia di Andy French, un ventenne aspirante fumettista che si barcamena tra una serie di lavori insoddisfacenti nella speranza di realizzare il suo sogno, e copriva quel cono d’ombra lasciato dai Simpson, ossia il mondo di adolescenti e ventenni che Bart e Lisa potevano, con molte forzature, rappresentare in minima parte.

Il cast corale di giovani artistoidi, creativi pazzi e geni autoproclamatosi rifletteva il retroterra e le conoscenze vicine agli autori. Per la prima volta, uno show animato con molti elementi autobiografici che parlava al pubblico invece che del pubblico.

Secondo Oakley, Mission Hill sarebbe diventata la parabola di Matt Groening e Andy avrebbe emulato le gesta del papà de I Simpson, conoscendo la fama, il successo e tutto ciò che ne seguiva. Nelle intenzioni degli sceneggiatori, le dinamiche e le relazioni avrebbero dovuto scavallare il perimetro dell’autoanalisi e coinvolgere gli spettatori, ma ciò avvenne soltanto anni dopo, quando il cartone venne riscoperto da un piccolo gruppo di appassionati («non credo che lo conoscano più di 5000 persone» disse Oakley a Polygon).

Torna utile parlare di Mission Hill perché in Disincanto si concretizzano parte delle idee nate in Mission Hill, con il benestare (chissà quanto consapevole) di Groening stesso. Bean è infatti una ventenne dedita alle sbevazzate nelle peggiori locande del regno, all’assunzione di sostante allucinogene, che gira con i suoi due nuovi compari: l’elfo Elfo, scappato dalla sua terra perché incapace di sopportare l’atteggiamento happy-go-lucky e le canzoni zuccherosi dei suoi simili, e Luci, un demone nichilista disegnato come un’ombra bidimensionale (l’unica idea visivamente fresca dello show) i cui scopi non sono del tutto chiari.

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L’altro nome di peso nella stanza degli autori di Disincanto è quello David X. Cohen, il braccio destro di Groening su Futurama e showrunner della serie sci-fi. Come in Futurama, si è scelto di fondare lo show su un’infinità di spunti ed elementi del genere di riferimento (la fantascienza da una parte, il fantasy dall’altra). Diversamente da Futurama, però, ci si è fermati lì, senza mescolarli o elaborarci sopra, sperando che accumulare elementi familiari sarebbe stato per creare qualcosa di nuovo.

Elfo è uno svogliato ricalco di Olaf, il beniamino del disneyano Frozen, da cui mutua lo spirito inconsapevole verso il mondo. È più pacato e meno entusiasta, ma il suo doppiatore originale, Nat Faxon, carica nella voce tutta la sciocca innocenza del pupazzo di neve Disney arrivando a un paio di momenti che definire “influenzati” sarebbe un generoso eufemismo.

A volte i recuperi sono autoriferiti: ci sono almeno tre battute e un design prelevati di peso da Futurama (il popolo della matrigna di Bean, uguale agli abitanti di Trisol) e tornano diversi elementi cari a Groening (Elfo, della stessa risma dei piccoli elfi felici tanto amati da Maggie ne I Simpson, o quelli schiavizzati da Babbo Natale robot in Futurama).

Di Futurama si è preso a modello anche il ribaltamento delle situazioni (lì c’era un robot depresso, un nonno di sé stesso e un Babbo Natale che portava morte e distruzione invece che regali, qui l’elfo che vuole essere triste, il demone custode invece dell’angelo custode) e si è tentato di tradurre lo spaesamento di Fry e il suo malcontento nell’insofferenza di Bean alla vita di corte, con esiti infelici.

Fry era un ragazzo talmente insoddisfatto del suo presente da trovare la sua dimensione ideale soltanto in un tempo altro, mentre Bean sembra più una ragazza annoiata dal proprio ambiente ma a proprio agio e bisognosa soltanto di qualche occasionale trasgressione, risultante in altrettanti incidenti che sono poi la miccia d’accensione di ogni episodio (in una puntata, la giovane si dimostra perfetta ambasciatrice nei confronti di un popolo attento alle buone maniere, ma poi manda tutto a rotoli ubriacandosi prima del suo discorso di commiato).

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Futurama funzionava perché prendeva in giro delle cose ma ci credeva anche, credeva nella fantascienza che spernacchiava. Qui gli autori non credono nel fantasy. Si vede dai dettagli: lo spazio che dedicano alla costruzione della sottotrama riguardante il ruolo di Luci e il modo in cui buttano in vacca le scene dei cattivi. Bean, Elfo e Lumi sono personaggi che si fermano a una riga di descrizione e il mondo che li circonda mostra uno sforzo di world building molto generico.

Forse è presto per trarre conclusioni, ma da quello che ci è dato vedere, i ragionamenti dietro alla serie non sono stati in grado di particolare profondità. In una commedia, poi, se i personaggi sono poco interessanti e gli intrecci deboli, c’è sempre la zona cesarini della risata. Purtroppo in Disincanto la comicità è poca e spompatissima, troppo silenzio riempie il tempo tra una battuta (che vorrebbe essere) divertente e l’altra.

In tutto questo, Netflix recita la parte di quei network che a fine anni Novanta corteggiarono Weinstein e Oakley – o chiunque altro associato a Groening – sperando di ottenere «un loro Simpson personale». Il Simpson di Netflix è però una serie che disattende tutte le aspettative e fa della noia la sua unica cifra stilistica.

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