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Donny Cates è un bravo ragazzo

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Tra i tanti compiti di un buon editor c’è sicuramente anche quello dello scouting. Scovare i migliori talenti ancora in potenza, farli crescere e legarli alla propria casa editrice prima che ci arrivino gli altri. Si tratta di una strategia a lungo termine, fatta di rischi e di lavori a perdere, ma in grado di portare alla propria azienda molti più vantaggi rispetto al puntare sui soliti nomi.

Un esordiente costa sicuramente meno di un contratto in esclusiva per un decano dell’industria, lo si può spingere sotto ai riflettori come la “next big thing”, si ha più controllo su quello che scrive e la curiosità dei lettori per un nome nuovo – che improvvisamente si trova ovunque – può essere un ottimo propellente per le vendite.

In un periodo in cui Marvel Comics pare parecchio confusa, risulta strano che qualcuno abbia avuto la lucidità di mettere sotto contratto Donny Cates. Un ragazzotto di provincia capace di far vendere più di 200.000 copie al primo numero del suo rilancio di Venom. Un’impresa non da poco, se ci considera che si sta parlando di un personaggio tra i più divisivi di casa Marvel. Amatissimo dai lettori ma a conti fatti orfano di autentici picchi qualitativi – tranne forse la miniserie Protettore letale del 1993 – e che di tanto in tanto si prova a rilanciare con qualche strano artificio narrativo.

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Donny Cates è pronto a conquistare l’universo, con ogni mezzo possibile (foto di David Brendan Hall)

Da buon (quasi) esordiente allo sbaraglio Donny Cates non si tira indietro e gioca seguendo la tradizione, mettendo in piedi uno spettacolone anni Novanta che mischia enormi mostri alati, cospirazionismo, gusto horror e un sacco di altri ingredienti sbagliati. Detta così pare di essere tornati al Punitore angelico di Thomas E. Sniegoski e Christopher Golden, ma i risultati di vendita hanno indicato invece un risultato che più diverso non avrebbe potuto essere.

Dopo una mini su Thanos e la gestione del Dr. Strange, si tratta del terzo centro di fila per il nuovo Golden Boy della Casa delle Idee. Non male per uno che, parole sue, «all’inizio del 2017 ero uno scrittore del quale non importava niente a nessuno, poi è uscito God Country e improvvisamente a giugno avevo un contratto in esclusiva con la Marvel, una cosa che avevo desiderato per tutta la mia vita».

Il punto di svolta della carriera di Donny Cates è appunto God Country, serie in sei numeri uscita per Image Comics dove trovano spazio tutte le ossessioni del giovane autore. A livello più superficiale c’è il solito potpourri di ingredienti fantasy pescati quasi a caso da anni di letture pregresse, mentre se si scava più in profondità troviamo i veri ingredienti dello straordinario successo di questo minuscolo titolo: la famiglia, la responsabilità, la forza di affrontare le tragedie della vita e il Texas.

Il tutto prende il via da una situazione tanto drammatica quanto comune: una famiglia logorata dalle attenzioni richieste dal vecchio nonno colpito dall’Alzheimer. Chiunque ci sia passato sa bene che, nonostante tutta la buona volontà, si tratta di una situazione in grado di mettere alle corde chiunque. L’anziano si dimostra intrattabile e l’integrità della famiglia del figlio viene seriamente messa alla prova. Tutto questo fino a quando il patriarca entra in possesso di una leggendaria spada parlante in grado di curarlo e di restituirgli la sanità mentale. Di contro dovrà combattere una battaglia cosmica con antiche entità semidivine desiderose di riprendersi la lama.

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La scelta da fare è solo una: accettare di perdere ancora una volta i ricordi di una vita e tornarsene ai vecchi problemi o rischiare di morire per quello a cui si tiene veramente? Ed è a questo punto che entra in ballo il Texas, amatissima terra d’origine dello scrittore. «Come and take it» (ovvero «venite a prendervela») urla il vecchio coriaceo alle gigantesche entità giunte a riprendersi la spada. Non si tratta solo di una frase particolarmente a effetto, ma di uno dei motti della rivoluzione texana del 1831. «Non vorrei mai lasciare il Texas, è la sede del mio POTERE» ammetteva Donny Cates in un’intervista, e non saremo certo noi a metterlo in dubbio.

A livello narrativo i sei numeri di God Country si leggono in un soffio e non riservano grandi sorprese (anche il design della spada protagonista pare copiato dal videogame Transistor), ma risulta evidente come Donny Cates voglia raccontare altro rispetto a una storiella di gladiatori giganti e vecchi cazzuti. «Il tema dominante della serie è l’idea di questa piccola famiglia in Texas che si occupa di cose al di fuori del loro controllo» ha raccontato lo scrittore. «Che si tratti di una malattia che non possono controllare, una tempesta o persino di enormi dei alla Kirby, è tutta un’estensione metaforica di quello stesso concetto di base. Avrà più senso quando i lettori cominceranno a seguirlo, ma tutto inizia e finisce con la famiglia. È la loro storia.»

Non a caso gli eventi che l’hanno portato a scrivere e a proporre il pitch della serie alla Image sono legati più alla vita reale rispetto alla passione per l’escapismo più leggero. In particolare si tratta di un grave ricovero in ospedale, durante il quale l’autore avrebbe rischiato di perdere la vita, e la quasi contemporanea nascita della figlia del fratello. «Unite queste cose… affrontare la mia mortalità e l’arrivo di questa nuova vita nella mia famiglia… God Country è ciò che viene fuori» è stata la sintesi di Donny Cates.

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La carica emozionale della sceneggiatura emerge con forza negli ultimi numeri, e sono in molti ad apprezzarla. Dopo anni di tentativi, centinaia di pagine scritte, lunghe giornate da stagista presso le case editrici per cui tanto avrebbe voluto scrivere, finalmente è arrivato il momento di Donny Cates. La serie – e tutto il merchandising collegato – vende benissimo, ed ecco arrivare le proposte dalle grandi major e i successi mainstream.

Eppure non è sempre andata così. Il primo lavoro importante di Donny Cates è Ghost Fleet, serie in 12 parti uscita originariamente per Dark Horse, sospesa al numero 8 per scarse vendite e solo di recente ripubblicata in volume dalla Image. Ad accompagnare lo scrittore in questa avventura c’è il talentuoso Daniel Warren Johnson, anche lui al primo incarico di peso.

La serie è il solito pastone derivativo fatto di azione sfrenata e richiami agli anni Ottanta – soprattutto al cinema di John Carpenter – ma che sul finale finisce ancora una volta a parlare di argomenti più intimi. «La serie inizia come un bizzarro blockbuster d’azione da grindhouse ma proseguendo diventa una storia molto emozionale sull’andare avanti, sul lasciar andare, sul perdono. Sono io che esorcizzo alcuni dei miei demoni» racconta a Bleeding Cool.

Quasi in contemporanea – siamo sempre nel 2014 – arriva Buzzkill, strana serie su un supereroe i cui poteri derivano dall’assunzione di qualsiasi tipo di sostanza che crei dipendenza. Dalla nicotina all’alcool, a ogni vizio corrisponde una super-abilità diversa. Si tratta di uno spunto abbastanza gratuito, da fumetto edgy anni Novanta, eppure il nostro riesce comunque a farlo suo. Dopo un inizio abbastanza tradizionale, dove è lo sviluppo dell’idea del pitch a farla da padrone, ecco riemergere le sue personali ossessioni. Il senso di responsabilità per chi ci è accanto, l’ombra della figura paterna, la volontà di andare oltre dopo aver pagato i nostri debiti con il passato. Al centro di tutto, ancora una volta, la famiglia.

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In uno dei suoi lavori più recenti, Redneck, si parla di una famiglia di vampiri e della loro vita ai margini di una qualche piccola cittadina del Texas. Rispetto a quello che avrebbe fatto qualunque altro sceneggiatore, il centro focale del titolo verte su creature mostruose che si comportano come tali, ma anche sui loro sforzi per non comportarsi da brutali macchine di morte. Si tratta di esseri potentissimi che potrebbero spazzare letteralmente via le comunità umane a cui si appoggiano, ma che nel corso degli anni hanno sviluppato una serie di strategie per contenere i loro istinti più bestiali. A opporsi a tutto questo rimane il nonno, decrepito patriarca della stirpe, prigioniero di un passato fatto di violenza e razzismo.

A dispetto di uno spunto che in molti vedevano come una sorta di incrocio tra Southern Bastards di Jason Aaron e la serie televisiva True Blood, anche in questo caso Donny Cates riesce a rendere il tutto coerente al suo percorso di autore deciso a mettere molto di stesso in ogni fumetto che consegna all’editore. «Chiunque abbia letto la mia lettera sul primo numero sa che Redneck parla del mio sangue. Della mia famiglia. Mio padre ha avuto un’infanzia molto violenta e ha provato a rompere quel ciclo quando ha avuto me e mio fratello. Ecco di cosa parla Redneck. Si tratta di una famiglia con il male nel sangue… che ha scelto di non essere più composta da mostri.»

Con Babyteeth, pubblicata dalla neonata Aftershock è la stessa cosa. Si tratta di un fumetto nato dopo estenuanti rifiuti da parte della casa editrice, proposte dopo proposte bocciate senza pietà da Joe Pruett che hanno portato a un’idea all’apparenza del tutto gratuita e buttata sul piatto solo in virtù della sua volontà di essere originale a ogni costo: perché non facciamo un fumetto su una ragazzina che a sedici anni rimane incinta dell’Anticristo? Poi dentro ci infiliamo qualche cospirazione, personaggi tosti, strane creature a fare da contorno e il gioco è fatto.

Donny Cates è nato negli anni Ottanta e ha passato l’adolescenza sui fumetti della bolla degli anni Novanta, quando tutto doveva essere sempre oscuro e dalle pretestuose velleità dark. Se in copertina di questo Babyteeth ci fosse stato il marchio Top Cow o Awesome Comics nessuno ci avrebbe trovato nulla di strano.

Babyteeth saldapress fumetto donny cates

Ma anche in questo non si tratta che di un mero pretesto per arrivare dove Donny va sempre a parare: il suo essere fondamentalmente un bravo ragazzo. Così il nucleo familiare attorno alla protagonista si fa fortezza, e il baricentro della serie si sposta da horror adolescenziale a ennesima parabola sull’amore e sull’affetto. Il luogo comune vorrebbe che siano proprio le radici geografiche dell’autore a spingerlo in questa direzione.

A ogni intervista finisce a parlare del Texas, della sua famiglia, delle origini. Non ho idea di come possano differire i punti di vista sul mondo di scrittori nati nel nord-est della Ivy League rispetto a quelli dell’entroterra più sanguigno, ma sono quasi certo che qualche differenza la si possa trovare. Donny Cates sembra voler rinforzare a ogni costo l’idea del cowboy con poche idee ma chiare e ben piantate a terra, a dispetto di come stia cambiando il mondo.

Qualunque suo fumetto prendiate si va sempre a battere sulle nostre debolezze e su come si possa arginarle grazie all’amore e all’empatia di chi ci sta accanto. Il suo Thanos è diviso, da una parte ha rinunciato all’amore perdendo ogni spinta, dall’altra ne risulta ossessionato e non riesce a concepire la solitudine. I risultati dell’incontro di tali polarizzazioni saranno devastanti. Lo Stephen Strange di Donny Cates è un folle disposto a tutto pur di toccare ancora con mano il potere che deriva dall’essere il Mago Supremo. I toni saranno anche da commedia, e un sacco di svolte narrative paiono buttare tutto in gazzarra, ma a conti fatti si parla di dipendenza, di isolamento e dei disastri che possono derivare dalle scelte sbagliate.

Nella visione del mondo di Cates, se mancano quegli ideali che ritroviamo alla base delle sue sceneggiature da autore indipendente, la direzione delle storie volgerà sempre alla tragedia. In un modo o nell’altro ci si ritrova sempre a un passo dal baratro invece di sfuggirne. Magari le sue storie a volte la prendono alla larga, ma quando i fili del racconto vanno a serrarsi si finisce sempre a concentrarsi su quello a cui tiene davvero. E in questo vediamo la più grande differenza tra i lavori di cui è creatore al 100% e quelli su commissione. Anche in quelli più derivativi – tipo Star Trek – parliamo sempre di fumetti ben scritti, ma i picchi emotivi a cui riesce ad arrivare quando può parlare di ciò che vuole sono ben lontani.

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Detto questo devo ammettere di non essere comunque riuscito a diventare un grande fan di Donny Cates. Come già scritto, i suoi lavori hanno tutto al posto giusto e le idee su cui si basano sono spesso molto d’impatto, ma questo non basta a non definire la sua scrittura come troppo semplice e i riferimenti eccessivamente scontati. Eppure sono felicissimo del successo straordinario che lo sta travolgendo. Dopo anni di cinismo esasperato e di distacco da ogni forma di sentimento, finalmente abbiamo uno scrittore di comics che non si vergogna a prendere con decisione le distanze da questa tendenza.

Quando lessi per la prima volta La strada di Cormac McCarthy rimasi stupefatto dalla quantità di critiche che si lamentavano del lieto fine – sul Corriere della Sera del 4 settembre 2009, parlando della trasposizione cinematografica, Mereghetti si sbilanciava addirittura definendolo «un irritante lieto fine (che per altro era la cosa più debole del libro)» – anche se si trattava solo di una fiammella di speranza in un mare di disperazione. Per tutta la lunghezza del libro il povero bambino protagonista lotta con la fame, il freddo, le barbarie e l’assoluta desolazione in un mondo che non offre praticamente nulla. In un contesto simile il padre ha la forza di insegnargli a non perdere mai la sua umanità.

Mentre il resto dei sopravvissuti vivono come bruti, i due protagonisti non perdono occasione per lavarsi o per darsi una rassettata. Eppure tutto gli rema contro. Perdono le loro provviste, si ammalano, alla fine il piccolo rimane solo. Il tutto narrato con la prosa di uno scrittore che saprebbe rendere arcigno e ruvido anche un bigliettino di auguri per il nipotino seienne.

Che problemi avete se alla fine di questi anni di disperazione finalmente le cose potrebbero mettersi leggermente meglio? Anche La terra dei figli di Gipi si concludeva con un gesto di affetto, una semplice carezza che sconvolgeva uno dei ragazzi protagonisti e ci rincuorava un minimo sul futuro dell’umanità. E stiamo parlando di due libri durissimi, di quelli che chiudere nel peggiore dei modi possibili sarebbe stato molto più facile e ruffiano.

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Donny Cates prende queste intuizioni e le porta allo stremo. Non ha vergogna di porsi come uno scrittore vagamente moraleggiante, quasi paternalista. Nei suoi fumetti ci si deve comportare bene, da uomini retti, altrimenti le cose finiscono male. Sembra una piccola cosa, ma vedere come nel 2018 uno scrittore riesca a raggiungere il successo infilando questo semplice concetto in praticamente ogni fumetto che scrive non mi pare una cosa da poco. Quanto questa cosa sia realistica o meno non ha importanza, almeno lui ci crede davvero. Per una volta il cinismo non riesce a prendere il sopravvento.

Possiamo anche non condividere questa visione del mondo, cosa assolutamente legittima, ma almeno si tratta di una via di fuga tangibile da quel disincanto che pare ci impedisca di dare un qualsiasi peso a ogni narrazione a cui andiamo incontro. «Se non prendiamo nulla sul serio, finiremo per credere che niente è degno di essere preso in questo modo, e dunque non crederemo mai in nient’altro al di fuori della nostra autoreferenzialità» scriveva Giovanni Bitetto.

Le basi di partenza di Donny Cates saranno ben piantate nella cultura pop meno raffinata e dai lui non potremmo mai aspettarci chissà quale architettura narrativa, ma almeno sapremo sempre il perché abbia preso determinate scelte.

Personalmente preferirò sempre scrittori che nei loro libri prediligono dare più importanza a tonnellate di cultura e a ragionamenti cervellotici alla Jonathan Hickman, ma questo non mi impedisce di capire quanto sia importante il successo di un ragazzo del profondo Texas che non si vergogna a dire che nelle pagine dei suoi di scritti, anche in quelli più cazzoni, «c’è il suo cuore».

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