Nell’articolo Frank Sinatra Has a Cold, uscito su Esquire nel 1966, Gay Talese fornì uno dei primi esempi di new journalism raccontando una grande figura della musica. Talese avrebbe dovuto scrivere un profilo di Sinatra, che in quel periodo era riluttante a farsi intervistare a causa delle accuse di amicizie mafiose e delle notizie riguardo la relazione con la giovanissima Mia Farrow.
Scavallando le convenzioni di stile, lo scrittore ritrasse Sinatra in absentia senza il supporto di una conversazione diretta e mischiando narrativa in terza persona alla cronaca. Il pezzo si apre con la constatazione di come il cantante fosse in grado di plasmare l’umore di quelli intorno a lui: un raffreddore che ha lasciato il crooner senza voce instilla il panico tra i suoi accoliti, perché «Sinatra con il raffreddore è come Picasso senza la pittura o una Ferrari senza la benzina – solo peggio».
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Per quanto ci riguarda, il raffreddore di Bill Watterson dura da più di vent’anni. Data la sua avversione per le sortite pubbliche – etichettata ora come timidezza ora come mania da recluso – il creatore di Calvin e Hobbes non può che essere affrontato da distante, cercando di ricostruirlo tra le dichiarazioni e le fotografie sgranate, negli spiragli di informazioni trapelate durante gli anni del lungo silenzio.
Trovare il suo indirizzo è facile, il suo recapito anche, ma prendere un aereo per Cleveland Heights, Ohio e bussare alla sua porta o comporre le cifre del numero di telefono non vi farà ottenere che cordiali rifiuti, ritrosie silenziose o sguardi spersi su chi sia William Boyd “Bill” Watterson II, perché magari in quella casa ci abita qualcun altro (qualcuno dice che si sia trasferito in un sobborgo di Cleveland per fuggire ai fan).
Potete perfino chiedere ai passanti (biondi e dagli occhi azzurri, Cleveland Heights ne è insolitamente piena), ma riconoscono quelli venuti da fuori e sospettano dei forestieri. Il barista al Rick’s Café o il gestore del Popcorn Shop, una gelateria con le pensiline rossoblu che Calvin si divertiva a distruggere in un disegno ritraente la cittadina, si limiteranno a indicare le immagini di Calvin e Hobbes appese alle pareti. E se il proprietario di un locale ti indica un disegno a pastello di Calvin che corre fuori da un negozio, forse c’è un sottotesto da recepire. Cercherete le raccolte autografate da Watterson al Fireside Book Shop, una di quelle piccole librerie che odorano di profumi costosi, colla vinilica e tabacco da pipa, ma il fumettista ha smesso di firmarle nel 2000, dopo aver scoperto che venivano comprate e rivendute dagli speculatori.
Ad alcuni andrà meglio. A Jake Rossen di Mental Floss era riuscito ciò in cui perfino il premio Pulitzer Gene Weingarten aveva fallito, quando nel 2005 aveva tentato di arruffianarselo portando in dono ai genitori di Watterson una prima edizione di Barnaby e lasciando detto che lo avrebbe aspettato in un hotel per tutta la giornata. La risposta, da parte dell’editore di Watterson, era arrivata la mattina dopo ed era stata negativa (pare però che si sia tenuto Barbany). Ora non sarebbe più possibile fare leva sui genitori: il padre è morto e la madre, che vive in una casa di riposo, è difficile da contattare.
Rossen invece aveva convinto il fumettista a dialogare via e-mail nell’ottobre 2013. Nessuno, nemmeno il caporedattore di Rossen, comprese i motivi che avevano portato Watterson ad accettare questo o quell’altro invito. La beneficenza e la conoscenza personale di solito sono un buon movente. Il prestigio no di certo. Ha preferito lo sconosciuto Rossen su Weingarten o il museo locale del fumetto sul festival di Angoulême, a cui Watterson non si scomodò di presenziare quando gli conferirono il premio alla carriera nel 2014 (il quarto americano a ottenerlo dopo Will Eisner, Robert Crumb e Art Spiegelman).
Quando collaborò con Stephan Pastis su Perle ai porci, pretese di comunicare soltanto via e-mail. Il racconto di Pastis mostra quanto Watterson sia protettivo fino al patologico: «Gli proposi di sentirci al telefono ma declinò. Arrivai alla triste realizzazione che non voleva che io avessi il suo numero». Talvolta, nemmeno essere amico di questo J.D. Salinger dei balloons serve a qualcosa: gran parte degli amici che Neville Martin intervista nel libro Looking for Calvin and Hobbes «non lo sentono da un po’» o non ricevono risposta alle loro telefonate. Tanti ci hanno provato, e di quei tanti, pochi sono riusciti a lambirlo, Bill Watterson.
Bisogno di controllo
Del riservatissimo papà di Calvin e Hobbes oggi sappiamo che ha un po’ di artrite, sta studiando i maestri dell’arte classica e moderna (ammira Tiziano, Caravaggio, Egon Schiele, Lucian Frued) e sfoggia il pizzetto. Piccole banalità triviali sfuggite al controllo di un fumettista che, raggiunto il picco artistico, ha mollato tutto per andare a dipingere paesaggi dell’Ohio con il padre.
Difficile credere che, come Salinger, nome a cui è stato spesso accostato per la comune riottosità verso il mondo esterno, abbia continuato a scrivere, alimentando quello che era innanzitutto un bisogno personale, insaziabile, tremendo. Non ci saranno casseforti piene di fumetti inediti, olii e acquerelli di panorami montuosi. Secondo una fonte di Scene l’autore dava fuoco alle tele appena concluse, perché gli era stato detto che i primi cinquecento tentativi servono solo per fare pratica.
Watterson, dopo la fine di Calvin e Hobbes nel 1995, non ha voluto aggiungere nulla al discorso fumettistico. «Ho pensato a dei graphic novel, ma sembrano essere lenti a svelarsi. Mi sa che non sono quel tipo di scrittore che inventa storie lunghe». Se non a disegnare, dunque, Watterson ha passato gli ultimi vent’anni e spicci a fare cosa, di preciso?
Di nuovo come Salinger, che non pubblicò più nulla per paura che il controllo che aveva sulla pagina scritta non si traducesse in un equivalente guinzaglio sulla percezione che i lettori avevano dell’opera, Watterson ha spento i sonar come un sottomarino stanco nel momento in cui quell’eccessivo bisogno di controllo ha sopraffatto la gioia di fare fumetti. Ha voluto lasciar andare, invece che perdere, nascondendosi in quello spazio nebuloso e cangiante che è la memoria. In un’intervista la chiama «sindrome della striscia del martedì». Il lunedì, dice, è facile sforzarsi e far uscire qualcosa di interessante ma il lettore se l’è già dimenticato, e il martedì sarà lì ad aspettare cosa hai in serbo per lui senza darti il credito che pensi di avere. È colpire la palla e battere un fuoricampo ogni giorno, il difficile.
Oppure si imbocca un’altra strada, quella che dipinge Watterson come un umano troppo umano che ha assaggiato la (modesta, nel grande schema delle cose; enorme, per la professione di fumettista) porzione di fama quotidiana e non ha saputo metabolizzarla. «Calvin e Hobbes ha creato un livello di attenzione e aspettative che non ho saputo come gestire», ha ammesso a Mental Floss. E allora un giro di frase basta a ribaltare il senso di un esilio compiuto più per debolezza che per alterità.
Ci siamo innamorati di Watterson attraverso la lente distorta di Calvin e Hobbes. Siccome era una striscia divertente, allora il suo autore sarebbe stato uno spasso di persona. «Pensavamo di conoscere Bill Watterson, o di poter essere in grado di farlo» dice Lucy Caswell, curatrice del Billy Ireland Cartoon Library & Museum. «E questo è il vero problema».
Un rapporto in particolare può far luce sul carattere di Watterson, quello con l’editor Lee Salem, ex-boss della Universal Press Syndicate. Salem fu editor lungimirante, che si allontanò dal modello standardizzato delle strisce una-gag-al-giorno, deprecando la pessima scrittura e cercando voci uniche e personali. Watterson si fidava del suo giudizio e non questionò mai i suoi suggerimenti. «Bisognava abituarsi al suo tipico riserbo del New England» disse al Washington Post. «Nei primi anni, mi risparmiavo una settimana di tempo facendogli leggere le bozze quando era nei paraggi per lavoro. Passava in rassegna un mese di materiale in cinque minuti e sembrava leggesse degli obituari tale era la gioia che emanava. Potete immaginare come fosse l’esperienza di negoziare un contratto con lui».
I due vennero ai ferri corti quando il successo del fumetto innescò affari collaterali. Fin da subito, chiunque avrebbe voluto commercializzare Calvin e Hobbes. Nel documentario Dear Mr. Watterson Salem ricordava: «Ci telefonavano perché volevano produrre un film tratto dalla striscia. Steven Spielberg, Disney, George Lucas. La lista era lunga». Per anni, gli editori fecero pressioni su Watterson affinché accettasse un programma di licenze limitato. Avrebbero escluso i prodotti più offensivi, purché autorizzasse il resto dei progetti. Di prassi, i fumettisti cedono i diritti delle loro opere alle syndicate e queste hanno il diritto legale di procedere, con o senza l’approvazione dell’autore, ma la Universal preferì cercare la collaborazione di Watterson.
Tutto quello che riuscirono a scucirgli furono due calendari, una maglietta prodotta in occasione di una retrospettiva del MoMa e il libro per la didattica Teaching with Calvin and Hobbes. Per Watterson arte e commercio erano due entità inconciliabili. Il successo quasi lo schifava. Messo di fronte alla popolarità della sua striscia disse: «ho un dono per canalizzare gusti pedestri. In un certo senso, è quasi deprimente». Come faceva un’opera che compariva sulle confezioni degli Happy Meal ad avere una mostra al Louvre? Trovare un accordo pareva impossibile: a Watterson non importava di guadagnare più soldi e alla syndicate non interessava mantenere l’integrità artistica a lui tanto cara. «Questa sarebbe stata la mia unica possibilità di controllare il merchandising. L’idea di barattare i miei principi mi offendeva, così rifiutai ogni compromesso». Nessuno dei due aveva una leva negoziale con cui condurre le trattative e, al quinto anno di vita della striscia, il dibattito si era imbruttito al punto che Watterson si preparò a lasciare il consorzio.
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Il contratto firmato dall’autore prevedeva che, in caso di un suo abbandono, la syndicate avrebbe potuto rimpiazzarlo con altri artisti. Watterson non poteva impedire che qualcun altro proseguisse la striscia, le uniche cose che poteva fare erano «arringhe piene di passioni in cui argomentavo che un’opera d’arte dovesse riflettere i pensieri del proprio creatore» rivelò a Mental Floss. «Ma il contratto rendeva questa nozione irrilevante. Fu un periodo triste e grigio. La disperazione può far fare a una persona cose folli».
Non un mestiere per tutti
Da quest’ultima constatazione, sfumata sul finale della risposta, emergono i contorni di una situazione non felicissima che tirò fuori il peggio di Watterson e che lo lasciò emotivamente concavo, portandolo prima a due pause sabbatiche e poi al ritiro definitivo. «Il mio disgusto, l’essere messo con le spalle al muro e il mio sconforto mi hanno fatto perdere la convinzione che avrei passato il resto della mia vita a disegnare fumetti». Le due lunghe vacanze attirarono le ire dei colleghi, che si vedevano subissati dalle scadenze. «Non le ho mai pretese né richieste», scrisse Watterson in Dieci anni di Calvin e Hobbes, «alcuni autori riescono a raggiungere i propri standard qualitativi ed essere sul campo da golf per mezzogiorno, ma non vale per tutti». Lo stress delle consegne fu un altro fattore chiave nel suo abbandono. Lavorava di settimana in settimana, in una lotta costante contro le scadenze, disegnando le strisce a pochi giorni dalla loro pubblicazione. Vedendolo nel panico, la moglie Melissa iniziò a programmare una rigida scaletta che gli permise di accumulare materiale. Finché non fece un incidente in bici e si ruppe una costola e un dito. «Arrivai a un punto della mia vita in cui non mi permettevo che accadesse nulla di inaspettato».
«La relazione, a volte rancorosa, tra me e Bill era pubblica e lui chiarì fin da subito le sue ragioni, pensava stessimo chiedendo troppo a Calvin e Hobbes in termini di presenza sul mercato» ricorda Salem. «La nostra posizione era che, ehi, gestiamo un’azienda e questo è quello per cui hai firmato. Alla fine cedemmo. Noi e i banchieri ancora piangiamo, ma almeno il rapporto con Bill tornò a essere amichevole».
Allo scadere del contratto, la Universal accettò le condizioni di Watterson, che strappò un accordo per cui avrebbe detenuto i diritti dei personaggi. Non avrebbe concesso alcuna licenza, nemmeno la più coerente con il marchio, come poteva essere un pupazzo di Hobbes. «Quando accetti la commercializzazione» spiega Pastis nel documentario Dear Mr. Watterson, «ti ritrovi a interagire con una marea di persone, il designer, il capo del designer, quelli delle vendite, e improvvisamente nella tua vita sono entrate sette persone che prima non esistevano e con cui non vuoi avere niente a che fare. Invece che passeggiare nella foresta, come immagino facesse, Bill avrebbe dovuto rispondere a sei telefonate che prima non avrebbe preso. Si tratta di perdita del controllo».
Da un autore estremamente spaventato per ogni singola decisione di world-building non ci sarebbe potuti aspettare altro. «Ricordo il nervosismo delle prime scelte riguardo Calvin» confessa in The Art of Richard Thompson. «Non volevo prendere in considerazione opzioni che mi avrebbero incastrato in seguito. Sa leggere? Prende lezioni di piano? Anche cose superficiali come il suo aspetto. Vedi strisce andare avanti per anni e i personaggi iniziano a andare fuori moda, così fanno l’inevitabile storia in cui il personaggio sceglie un nuovo taglio di capelli per risultare contemporaneo».
Tra le righe e le parole delle poche interviste pare che Watterson fosse segretamente attratto da un’unica forma di licenza, l’adattamento in cartone animato. Al Philadelphia Inquirer nel 1987 disse che «l’animazione sembra una delle poche aree in cui potrei comunicare quello che sto cercando di dire sulla carta». Salvo poi ritrattare tutto, citando l’impossibilità del controllo totale sul prodotto. «Vorrei avere così tanto controllo creativo che m’impunterei per il massimo della qualità e realizzarlo sarebbe proibitivo».
«Ho sempre cercato di animare la striscia con le espressioni, la prospettiva o qualche sorta di esagerazione». E anche Eric Goldberg, l’animatore dietro al Genio di Aladdin, nel suo manuale Character Animation Crash Course! scrive che una delle fonti d’ispirazione maggiori per chi vuole cimentarsi nell’arte dell’animazione sono le pose di Calvin e Hobbes. Sono disegni «pronti per essere animati», scrive Goldberg. Si vocifera che, durante la lavorazione su Aladdin, Goldberg avesse realizzato un test d’animazione baloccandosi con la speranza di un adattamento della striscia targato Disney.
«Calvin e Hobbes ha la sensibilità di un animatore» conferma Brad Bird nel libro Looking for Calvin and Hobbes. «Una delle cose che ti insegnano nella recitazione è che, quando ti presenti in scena, la scena non inizia quando ti presenti sul palco, ma è già iniziata, viene da qualche posto ed esperienze che hanno portato a quel momento. Cosa stavi facendo dieci minuti prima di quell’entrata? E un’ora prima? Tutto ha un effetto. Watterson trovava sempre un grande momento di mezzo che comunicava la presenza del corpo».
Tazze o peluche di Hobbes avrebbero ricevuto il suo “no” categorico («se metti trenta pupazzi di Hobbes su uno scaffale in un supermercato, non stiamo più parlando del mio personaggio ma di un ninnolo troppo costoso»), ma sui cartoni si riservò quantomeno il beneficio del dubbio: «Non ho ancora deciso se vorrò mai vedere Calvin e Hobbes animati. L’idea di sentire la voce di Calvin mi spaventa», diceva nel 1989 al Comics Journal. È ovvio che se una macchina produttiva che richiede centinaia di piccole decisioni al giorno si ferma perché l’autore ha paura di che voce potrebbe avere il protagonista, il progetto non andrà lontano. «Non ho alcun interesse nel vedere Calvin e Hobbes animati», avrebbe detto nel 2013 a Mental Floss, ripetendo le stesse parole di ventiquattr’anni prima. Evidentemente, lungo il cammino, aveva fatto la sua scelta.
Origine di una striscia
Erano responsabilità che non interessavano, a lui che aveva desiderato soltanto fare fumetti dalla più tenera età. Incoraggiato dai genitori, una casalinga e un avvocato specializzato in brevetti, Watterson era cresciuto idolatrando Peanuts e Pogo. I suoi disegni avevano iniziato ad apparire nel Tiger Times, il giornalino scolastico di Chagrin Falls, nello Zenith, l’annuario del 1976 di cui Watterson disegnò la copertina e gli interni (come tutti gli oggetti relativi al fumettista, una copia dello Zenith vale tra i sette e i quindicimila dollari) e sul giornale del Kenyon College, dove Watterson studiò Scienze politiche. Non si trattenne nemmeno dall’affrescare la Creazione di Adamo michelangiolesca sul soffitto del proprio dormitorio.
Al college, Watterson alternò gli insegnamenti di filosofia politica alle lezioni di disegno, ma prese l’impegno di non seguire più di un corso artistico per semestre, pur di non deviare dal percorso di studi che i genitori gli stavano pagando. Il suo professore di disegno e incisione, Martin Garhart, aveva già insegnato a Jim Borgman, che Watterson ammirava. Imparò il disegno ma dovette documentarsi da autodidatta sulla pittura.
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Il 18 giugno 1980 il Cincinnati Post pubblicò una vignetta che ironizzava su un fatto accaduto due giorni prima. Le linee telefoniche della Cincinnati Bell si spensero per tre ore a causa di un aggiornamento dei sistemi informatici. Anche se il crollo afflisse solo il 2% dell’utenza, quei 25.000 telefoni erano collegati a quartieri d’affari, rendendo la notizia più grave di quanto fosse in realtà. Fu il primo, vero, lavoro pubblicato di Watterson. L’esperienza come vignettista politico al Cincinnati Post lo mortificò: erano lavori grezzi e per ogni opera pubblicata i suoi editor ne avevano scartate almeno tre. «Un grosso giornale di Cincinnati gli offrì immediatamente un lavoro come vignettista ma nel giro di pochi mesi il caporedattore tornò dal sanatorio e Watterson venne licenziato» scrisse il Nostro in una breve autobiografia deprecativa.
Deciso a lavorare come cartoonist, dopo una serie di porte chiuse in faccia, trovò un riscontro positivo nella United Feature. Lì, Watterson maturò come autore grazie ai suggerimenti della editor Sarah Gillespie, la quale consigliò il giovane di concentrarsi su uno dei personaggi secondari di una delle sue proposte, un bambino di nome Marvin con una tigre di pezza che prende vita. Nacque la prima iterazione di Calvin e Hobbes, simile a quella che sarebbe stata pubblicata sui quotidiani ma priva del fascino che la contraddistingue: Calvin è un boyscout grassoccio con gli occhi coperti come un bobtail, Hobbes ha la testa squadrata ed è il fulcro della striscia.
Inoltre, la United poneva un veto. Avrebbero accettato Calvin e Hobbes se l’autore avesse inserito un terzo protagonista, Robotman. La syndicate aveva da poco acquistato i diritti per un generico personaggio robotico di cui aveva già dei piani per produrre merchandising. Avevano solo bisogno di una piattaforma su cui lanciarlo. Watterson rifiutò (fu poi Jim Meddick a prendersi Robotman e inserirlo nella striscia Monty). «Accettare una visione altrui avrebbe significato compromettere la mia individualità a favore di una corporazione arraffasoldi» disse Watterson nel 1990 durante il discorso ai laureati del Kenyon College. «Il mio scopo ultimo sarebbe diventato vendermi, non esprimermi». Alla fine ricevette un ‘sì’ dalla Universal Press Syndicate. Fu il punto di arrivo dopo anni di sacrifici e buchi nell’acqua, di lavori tediosi (come realizzare pubblicità per pompe di benzina in un sottoscala) o troppo grandi per lui.
Sintomi di grandezza
Calvin e Hobbes nasce fatto e finito. Tutti i personaggi principali di Calvin e Hobbes debuttano nelle prime tre settimane di vita della striscia. Sono, tra l’altro, pochissimi, per un mezzo che solitamente cerca appigli ovunque per variare il proprio andamento ciclico – con il passare degli anni ne avrebbe probabilmente avuto bisogno di nuovi. Eppure il mondo di Calvin sembra enorme, grazie alle sue fantasticherie. «Mi chiedevo già all’epoca quante volte avrei potuto disegnare dinosauri o Spaceman senza annoiare nessuno, io per primo. Per quanto grande sia il mondo che un fumettista crea, le sue limitazioni diventano evidenti dopo un po’ di tempo. Ovviamente, la mia soluzione è stata fare i bagagli e fuggire dalla porta sul retro».
«George Herriman e Windsor McCay ci hanno dato qualcosa di meglio di semplici battute», disse alla fine degli anni Ottanta, riassumendo in poche righe la sua poetica. «All’epoca, il divertimento stava nel viaggio. La destinazione di ogni striscia era la stessa, ma ogni giorno si percorreva una strada diversa. Oggi, pretendiamo che la striscia sia finita prima possibile, “dimmi solo la battuta, per favore”. Meno vignette e parole e disegni ci sono, meglio è». Abituati a macchine sforna-battute, si restava spiazzati dai finali di certe strisce, che terminavano con Calvin e Hobbes intenti a godersi il tramonto. Non c’era la punchline, non c’era la gag, c’era solo un momento che i personaggi invitavano a godersi con loro. Calvin e Hobbes esonda immaginazione e meraviglia, nelle continue fantasticherie di Calvin, nei suoi voli pindarici che lo portano a essere un esploratore dello spazio (Spaceman Spiff), un supereroe (Stupendoman), un detective hard-boiled o uno scultore di macabri pupazzi di neve.
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Watterson aveva una mano leggerissima, parlava di temi che aveva a cuore (la differenza tra arte bassa e alta, la filosofia, l’ecologismo, il sistema scolastico) con dialoghi semplici ed evitando le ovvietà, era contemporaneo senza affrontare di petto il presente – l’universo di Calvin è fuori dal tempo, staccato dalla tecnologia o dai periodi storici, bloccato in un eterno sobborgo americano da copertina del Saturday Evening Post.
Tanto i personaggi quanto l’autore presentavano visioni non scontate del mondo: i genitori di Calvin non rappresentano le classiche figure parentali, hanno un atteggiamento sardonico verso di lui, lo stesso vale per la babysitter, molto poco accondiscendente verso il bambino, e la maestra, la signora Vermoni, una vecchia impasticcata che non vede l’ora della pensione. Il bullismo, l’infanzia, le insicurezze e il senso di smarrimento provocati dalla crescita, il rapporto padre-figlio erano argomenti messi su carta dribblando le convenzioni.
In una sequenza di storie che lo porterà a inventare il Calvinball, il protagonista cerca di entrare nella squadra di baseball e viene preso in giro o schernito dai suoi compagni, da suo padre e perfino dall’allenatore. Watterson estremizza alcune delle situazioni per amore di battuta, non rinunciando però a mostrare l’effetto di tali scherzi sulla psiche del bambino che, alla fine della narrazione, riflette sulla sua incapacità di adeguarsi alle norme sociali.
L’autore offre una lettura peculiare tanto dei personaggi quanto delle istituzioni. Il giudizio che dà della scuola, per esempio, è a tratti sconfortante. Nella striscia Calvin finiva sistematicamente dal preside, per aver svolto i compiti assegnati in maniera creativa, per non averli svolti affatto o per aver dirottato la sua attenzione verso cose più interessanti dell’ennesima lezione di storia. Nelle strisce il processo di apprendimento è noioso e sterile, la scuola una catena di montaggio intellettuale dove ogni individualità è livellata con cura e ogni aspettativa è prontamente disillusa. L’unica cosa da imparare era come imbrogliare il sistema stesso. Per il fumettista le fantasie escapiste – quelle di Stupendo Man o di Spaceman Spiff, in cui la signora Vermoni era rappresentata come un viscido alieno dittatoriale – non erano nient’altro che autodifesa verso i danni della pubblica istruzione. Erano anzi la cura all’angustia e alla staticità percepita da Calvin, che nei suoi viaggi mentali era rappresentato in orizzonti universali, in movimento perpetuo da un’avventura spaziale all’altra. L’autore questionava l’utilità di una struttura così rigida e si domandava se esistesse un beneficio reale o se questo fosse soltanto un modo per conformare i giovani all’idea che gli adulti avevano di loro. Scrivere in maniera sincera e onesta, diceva al Plain Dealer, e che sia divertente da guardare sono le uniche osservazioni che Watterson si è permesso di fare sul proprio lavoro.
Dove semmai si può riscontrare un’evoluzione è nel disegno. Un po’ perché Watterson prende le misure (come si disegnano i capelli a punta di Calvin da prospettive diverse? Come corre un personaggio disegnato senza ginocchia?) e un po’ perché, tornato dal periodo sabbatico del 1991, sente l’esigenza di espandere i propri orizzonti. Le domenicali diventano il suo terreno di gioco preferito. Le vignette extralarge della domenica stavano diventando più delle semplici strisce gonfiate. Nel corso del Novecento si erano involute, Krazy Kat risultava più avanguardista di strisce appena nate, nessuno osava con arditismi grafici, nessuno voleva rischiare di vedere i propri disegni stampati in piccolo e sgranati, nessuno voleva contraddire le richieste dei giornali, che chiedevano vignette facili da rimontare per poter gestire alla bisogna gli ingombri di impaginazione. «Per un editore, lo spazio è una questione di soldi, ma per un fumettista, lo spazio è tempo. Lo spazio detta l’andamento e il ritmo di una striscia».
Lo spazio aggiuntivo offerto dalla domenica non poteva essere sprecato. Se una gag poteva essere raccontata in tre o quattro vignette, doveva essere raccontata in tre o quattro vignette. Una domenicale era tale perché il suo contenuto esondava i confini settimanali, rendendosi occasione speciale. Ed è lo spazio che Watterson manipola di continuo, ciò che definisce la striscia. Nei suoi sogni ad occhi aperti, Calvin è un gigantesco tirannosauro che mette a ferro e fuoco la città o uno scalatore di scivoli che toccano il cielo. Alcune testate, di fronte a domenicali impossibili da spezzare, smisero di pubblicarle, ma ciò che gli importava era la libertà di poter disegnare quelle immagini come meglio credeva. La perdita di qualche lettore sarebbe stata un danno collaterale che era disposto ad accettare.
A fine corsa, Calvin e Hobbes rappresentava il Watterson al suo meglio. Aveva assimilato le lezioni grafiche di Jim Borgman e Pat Oliphant e quelle narrative di George Herriman e Winsor McCay. La violenza con cui Ralph Steadman sparava l’inchiostro sulla pagina («È come disegnare con un coltello») si legava alla linea sexy di Walt Kelly, il cui pennello tratteggiava amabili rigonfiamenti attorno alle curve. Calvin e Hobbes da figure perimetrate dall’inchiostro diventano essenza, segni minimali ma dalla forza impattante. Più ci si avvicina più le forme si slegano, i tratti si sciolgono e quel personaggio così pieno di personalità si sgretola e si ricompone senza sosta a seconda della distanza a cui lo si guarda.
Al giro dei suoi sessant’anni, l’eco di Bill Watterson risuona ancora nell’immaginario popolare, nonostante abbia tentato con mezzo di limitare la propria presenza e quella della sua opera. Il bisogno dei lettori di Calvin e Hobbes li ha portati a produrre merchandise contraffatto (dalle magliette al motore di ricerca dedicato), il loro amore ha generato innumerevoli omaggi, ogni nuovo fenomeno pop viene prontamente remixato con i protagonisti della striscia, a testimonianza della vitalità impressionante di un fumetto terminato da tempo e alimentato soltanto dal basso. Non aveva tenuto conto della forza autorigenerante di Calvin e Hobbes e di quanto scrivere in maniera onesta e sincera avrebbe funzionato.
«Se all’improvviso dovessero evacuare la Terra e potessi salvare le dieci persone migliori del pianeta, Watterson sarebbe tra quelli» scrive Brad Bird in Looking for Calvin and Hobbes. «C’è un punto in cui smetti di classificare le persone, puoi solo dire che sono i migliori. Posso dire che Mozart è meglio dei Beatles? No. Posso solo dire che entrambi hanno superato le nuvole e si sono avvicinati al Sole. Sono entrambi in quella lista di cose necessarie. Watterson è necessario».