di Gianni Brunoro*
All’ospedale di Treviso – la città dove si era trasferito da qualche tempo, anche per avere vicino il figlio Filippo (oggi insigne medico, famoso esperto di “nutrigenomica”) – ci ha lasciato Alberto Ongaro, alla fine di una debilitante malattia e inseparabilmente assistito dalla moglie Donatella. Con lui, lo scorso 23 marzo 2018, il fumetto italiano – benché nel settore egli non fosse più in servizio attivo da qualche anno – ha perso uno dei suoi soggettisti-sceneggiatori di maggiore originalità. Il suo è comunque un caso abbastanza a parte, perché erano anche altri, i settori della comunicazione che lascia ora più poveri.
In effetti, negli scorsi anni Sessanta/Settanta egli era stato uno dei più brillanti reporter mondiali e dagli anni Settanta, e praticamente fino a oggi, era stato un romanziere dai tratti assolutamente originali, grazie alle sue caratteristiche non ascrivibili ad alcun modello. Vale a dire: si tratta di tre direzioni nelle quali egli ha esercitato il suo dono naturale più spontaneo, saper raccontare; e non faceva differenza se egli lo adottasse nella narrazione fumettistica o giornalistica o romanzesca. In metafora, era come un giocatore che avesse a disposizione tre differenti tavoli, ai quali poteva giocare le sue fiches con eguale abilità.
Naturalmente, dal nostro specifico punto di vista il primo tavolo, il fumetto, è quello di interesse più immediato e diretto, ma sarebbe troppo superficiale non metterlo in stretta relazione con gli altri due. Specie perché fu lui stesso a non tenere mai i settori separati nel corso della propria vita professionale, così intensamente vissuta. Del resto, lo ha riconosciuto lui stesso, affermando in una intervista:
«Ho visitato quasi tutto il visitabile, anche le zone impervie del mondo. Sono stato diversi anni in Argentina con il mio amico Hugo Pratt. Ho fatto il giornalista per L’Europeo: molti reportage e un lungo periodo da corrispondente a Londra. Ho scritto fumetti, libri e vinto premi, come il Campiello, ho conosciuto persone migliori di me e peggiori. Ho frequentato in uguale misura il mondo di carta e il mondo vero».
Una migliore sintesi non si potrebbe dare.
Il primo tavolo: di qua e di là dal mare
Alberto Ongaro, nato a Venezia il 22 agosto 1925 da una famiglia della media borghesia agiata, aveva frequentato poi i normali corsi scolastici, arrivando a iscriversi a Lettere e Filosofia all’Università di Padova. Un titolo universitario poi mai conseguito perché, grazie a un’attività antifascista condotta insieme al cugino Mario Faustinelli, insieme a lui fu imprigionato nel novembre del 1943 dagli occupanti tedeschi, che li accusarono di essere membri della Resistenza.
Avventura fortunatamente finita bene (grazie anche all’intervento del patriarca di Venezia), ma in quel carcere era nata dalle chiacchiere fra loro due, che erano stati fanatici del settimanale L’Avventuroso, l’idea di fare, a guerra finita, una rivista di fumetti.
È quanto puntualmente avvenne. Una volta conosciuti Hugo Pratt, Ivo Pavone, Giorgio Bellavitis e Dino Battaglia, misero insieme quel periodico L’Asso di Picche il quale, benché irregolare nelle uscite, era eccellente nella qualità. Fu adocchiato dal lungo occhio di Cesare Civita, al tempo fortunato editore argentino, il quale li acquistò “di peso” facendoli emigrare a Buenos Aires.
Per Ongaro, approdato a Buenos Aires il 7 aprile 1951, furono sette anni oltre oceano: e fu un periodo di fluente e soprattutto libera creatività, ciò che non sarebbe stato allora possibile in Italia. A parte la ripresa dell’Asso di Picche, e la creazione di Legione Straniera e di El cacique blanco – pubblicati per la prima volta in Europa grazie all’Anafi, con la quale Ongaro fu sempre signorilmente disponibile – i titoli furono comunque numerosi: solo per citarne alcuni, ecco El Ejército de la Locura, Los Juguetes Diabólicos, Mark Cabot, EI Implacable, Drake el aventurero, La Bruja del Mar…
Basterebbero solo questi titoli a rendere Ongaro un grande fumettista, ma in realtà egli non abbandonò mai questa attività. Tanto che, a parte altre cose, collaborò negli anni Settanta con il settimanale Il Giornalino e poi, approdato alla Bonelli (fu grande amico di Sergio), scrisse fra il 1986 e il 1994 circa 25 episodi di Mister No e fra il 1992 e il 1998 una sessantina di storie di Nick Raider.
Il secondo tavolo: sotto ogni latitudine conosciuta
Già durante il periodo argentino, avendo instaurato un ottimo rapporto con Civita, editore della Abril, Ongaro iniziò l’attività di giornalista, collaborando a Buenos Aires al Corriere degli Italiani. Ma continuò poi dall’Italia (dove era tornato nel 1957) per il servizio esteri dell’agenzia ANSA, e lì fu notato da quello che allora era un grande settimanale: L’Europeo, per il quale fu inviato speciale e corrispondente da Londra.
Fu in quel periodo che raggiunse vertici giornalistici invidiabili, con servizi venduti in tutto il mondo. Il fatto fondamentale è che egli era attratto da tutti gli aspetti dell’insolito: per esempio inchieste antropologiche, indagini realistiche sul piano etnografico e sociale, incontri e interviste con varie celebrità. Reportage ricordando i quali il giornalista Mauro Suttora, in occasione del numero auto-commemorativo di congedo di L’Europeo nel 1995 scrisse in un articolo intitolato L’avventura e il piacere di raccontare:
«Nessuno ha mai compilato una classifica, ma probabilmente Alberto Ongaro è stato, negli anni Sessanta e Settanta, il giornalista italiano che ha viaggiato di più nel mondo. E più a lungo: raramente i suoi itinerari duravano meno di un mese. Sempre in compagnia di un fotografo dell’Europeo: Gianfranco Moroldo, Stefano Archetti, Ferdinando Scianna».
Per chi voglia rendersi conto, l’attualità, la straordinarietà, la validità ancora odierna dei suoi scritti si possono riscontrare nel volume che ne raccoglie alcuni, La terra degli stregoni, edito da Supernova 1996 e che in quell’anno gli valse il Premio Jack London. Proprio per quei valori narrativi che caratterizzano creativamente pezzi giornalistici.
Il tavolo vincente: nel segno dell’intrigante avventura
Risulta dunque grazie a questi pur sintetici cenni, che narrare è sempre stato il piacere e il dono naturale di Ongaro. Per cui, non appena gli è stato possibile, è tornato a Venezia, nella sua casa al Lido, ha semi-abbandonato le altre attività (che pure ha mantenuto, beninteso: come lo sceneggiatore cinematografico e l’autore teatrale), e si è dato dunque a tempo pieno a questa sua più autentica passione, ossia un lavoro letterario che si è risolto in una carriera di grande prestigio (per dire: è l’unico sceneggiatore di fumetti ad aver vinto un importante premio letterario, quale il Super Campiello nel 1986, con La partita, da cui poi anche l’omonimo film). E dall’inizio del Duemila si è arricchita fino a oggi di titoli che rispecchiano trame compatte, fantasiose, insolite.
Esordì nel 1965 con un quasi sperimentale Il complice, tuttavia un appassionato di fumetti non deve commettere il peccato di ignorare Un romanzo d’avventura (1970, protagonista un certo Hugo Pratt…); ed è bello assaporare per esempio La taverna del Doge Loredan (1980, considerato da molti il suo migliore romanzo), e poi Il segreto dei Ségonzac, 2000; La strategia del caso (2003, mio ammiratissimo, per tecnica narrativa…); La versione spagnola, 2007 e La maschera di Antenore, 2009; oltre al trascinante Athos, 2014.
Ma non si finirebbe mai di elencare questi suoi capolavori, caratterizzati – come mi è capitato più volte di scrivere – da una scrittura insolitamente elegante. Non a caso, un critico raffinato come Antonio D’Orrico, suo grande estimatore, ha scritto di lui: «Della grandezza romanzesca di Ongaro parlo da anni, è la nostra unica sentinella al confine più impervio. […] Ongaro ha qualcosa dei re di una volta: nel suo inchiostro scorre sangue blu». Che è una elegante metafora, quale si addice allo stile del nostro amico Alberto Ongaro.
Questo articolo è originariamente apparso su Fumetto n. 106, pubblicato da ANAFI.