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“Cowboy Bebop”: sabotare il post-moderno dall’interno

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Sono le 21:00 e pochi minuti del 21 ottobre 1999. Come ogni giorno, da buoni adolescenti, sintonizziamo il nostro televisore su MTV aspettandoci la solita serata a base di gaudenti veejay, trasferte di Fabio Volo in qualche capitale europea e serie troppo sui generis per le reti generaliste. Ancora non sospettiamo che in quell’occasione saremmo andati in contro a qualcosa di completamente diverso: la prima Anime Night della televisione italiana, lanciata in via del tutto sperimentale dall’emittente musicale in collaborazione con Dynamic Italia. Senza darci il tempo di capire cosa stesse succedendo veniamo subito immersi in una drammatica sequenza in bianco e nero che lentamente finisce per includere anche del colore. Rosso, naturalmente.

Qualcuno spara, altri muoiono, una rosa finisce in una pozzanghera. Un gran casino, ma c’è comunque il tempo per una sigaretta. Poi, dal nulla, un rapido fraseggio di ottoni accompagna uno sfarfallio di scritte in rapido movimento. Le font utilizzate sono sporche e piuttosto rovinate, l’idea che ci arriva è ruvida. Quasi punk. Il mood generale cambia di colpo. Un giro di basso vira le atmosfere in qualcosa di più simile a una versione ultrapop di Soul Bass.

Abbiamo un tizio misterioso che fuma, la camminata di una femme fatale, pistole che sparano a ritmo di musica. Ma anche astronavi e complesse tecnologie, via via a scorrere sempre più veloci fino alla chiusura con assolo di sax e foto di gruppo dei protagonisti. Non me ne vogliano gli amanti degli anime, ma qui siamo su di un altro livello rispetto alle consuete nenie j-pop dai toni zuccherini che di solito aprono le serie animate nipponiche. La sigla di Cowboy Bebop metteva subito in chiaro che quella di Shinichirō Watanabe era un’opera del tutto differente, in grado di lasciare un solco destinato a durare nel tempo. Non male per essere il suo primo lavoro da regista in solitaria.

Cowboy Bebop esordisce in Giappone il 3 aprile 1998, vent’anni fa. Per quello che può valere, a oggi su IMDb è ancora al ventottesimo posto tra le migliori serie, comprese quelle non di animazione, di tutti i tempi. Vale la pena ricordare come solo nel 2015 negli Stati Uniti siano andate in onda qualcosa come 1.500 produzioni televisive. Secondo IGN «la sua vera eredità è quella di aver introdotto un’intera generazione agli anime, in particolare gli spettatori più adulti, e in un modo che assurdità progettate per vendere merchandise come Pokemon o Dragon Ball Z non avrebbero mai potuto fare».

Chiedete a qualunque giornalista o critico di stilare una sua classifica delle sue serie animate preferite e ritroverete sicuramente Cowboy Bebop nelle prime cinque. Netflix ne ha pubblicizzato con orgoglio l’arrivo nel suo catalogo, mentre l’annuncio di una serie live action prodotta negli Stati Uniti ha mandato in crisi schiere di fan. Nonostante gli anni pare che le avventure di Spike Spiegel e compagnia non riescano a invecchiare di un giorno. E non si tratta solo del livello altissimo dell’animazione, o della regia piena di sorprese. O, ancora, della colonna sonora stratosferica. E neppure del design generale della serie, che tiene benissimo il passare del tempo (personaggi femminili a parte, tanto da apparire dieci anni più vecchi rispetto a tutto il resto). Il punto è parecchio più in profondità.

Qualche parola per introdurre la serie a chi ne è del tutto digiuno. Anno 2071, spostarsi per l’intero sistema solare non è più un problema. L’unico pianeta inabitabile è la Terra, flagellato da una tempesta di meteoriti cinquant’anni prima per via di un esperimento finito nel peggiore dei modi. Ora la popolazione umana si divide tra Marte, Venere, Giove e grossi asteroidi. La situazione non è delle più semplici e la massiccia diffusione di criminalità e corruzione non fa certo nulla per rendere le cose più facili. L’Inter Solar System Police pensa quindi bene di istituire un sistema di taglie, con la speranza che che dei liberi professionisti possano arrivare dove le istituzioni non riescono.

cowboy bebop personaggi

Fra i tremila bounty hunter registrati troviamo proprio l’improbabile equipaggio della sgangherata Bebop. L’ex-sicario Spike, l’ex-investigatore Jet, la ragazza senza passato Faye, l’incomprensibile Ed e l’ex-cavia da laboratorio Ein. Tanto per farvi capire come la loro vita non sia stata del tutto rose e fiori. Cinque outsider totali descritti con una profondità e una sensibilità davvero toccanti nonostante il loro universo narrativo non sia altro che un enorme pastiche di generi e richiami pop. Un giocattolone in cui è facile perdersi a giocare alla ricerca del riferimento o della citazione. Perfino il loro design richiama questa patologia tipicamente post-moderna. Dura non accorgersi infatti di come almeno tre di loro non siano che palesi omaggi a Lupin III.

Nonostante questi continui agganci a un immaginario pop ipercodificato già dal primo episodio si capisce come in realtà non si tratti di una serie di fantascienza come tutte le altre. Una volta atterrati nella colonia umana che ospita la puntata ci si accorge che di fantascientifico c’è ben poco. Strade polverose, vecchi al bar, malavitosi vestiti con completi anni Ottanta. Perfino le tecnologie descritte con abbondante perizia di particolari hanno una grossa base analogica. Il mezzo volante usato dal protagonista nei tragitti più corti pare più una grossa moto con un’appariscente carena che un’invenzione di chissà quale futuro favoloso. Non è un caso che la regia indugi sul piccolo gesto quotidiano di sfilarla da un vano della Bebop, con le ali chiuse come se si trattasse di una sedia pieghevole.

In questo futuro non si arriva a pilotare il robottone di turno attraverso chissà quali complessi dedali di tunnel e ascensori, probabilmente si accederebbe alla cabina di comando con una banale scaletta. Eppure si vive dentro enormi cupole distribuite per tutto il sistema solare, come se fosse la cosa più tranquilla del mondo. Ed è proprio questo andamento a due velocità a essere alla base di tutta la serie e al suo successo. Da una parte abbiamo l’aspetto fantastico e speculativo, ma dall’altra tutto è tangibile e deteriorabile. Con i piedi ben piantati a terra. Si parla di un futuro dove puoi vagare per il sistema solare, ma Spike e il suo equipaggio devono prima di tutto farsi i conti in tasca per riuscire a fare due pasti al giorno.

Sempre nella prima puntata c’è un altro piccolo particolare che mi ha sempre colpito. Abbiamo detto che la vicenda prende piede sotto una calotta trasparente, eppure non si vede mai il cielo. Molto più realisticamente sulla superficie lucida vediamo proiettato quello che c’è sul terreno, come se si trattasse di un enorme specchio. Se il limite alle nostre ambizioni è il cielo, allora siamo messi davvero male. Non c’è via di fuga al nostro passato se non a un prezzo altissimo. Molto meglio dimenticarlo, come se non fosse mai successo nulla. Dopotutto a casa – sulla Terra – non potremo mai tornarci. Un dialogo tra Spike e Valentine nell’ultima puntata è chiarissimo al merito. La bella cacciatrice di taglie, reduce dalla desolante scoperta di cosa rimanga della sua vita precedente, cerca di non far commettere lo stesso errore al socio:

– Una volta mi dicesti che il passato non era poi così importante… Belle parole per uno che non riesce a liberarsene!
– Guardami gli occhi: il destro è artificiale, quello vero l’ho perso in un incidente. Da allora con l’occhio sinistro registro il presente, mentre con il destro ricordo il passato; mi ha insegnato che non sempre ciò che è visibile corrisponde alla realtà.
– Si può sapere che ti prende? Tu che non hai mai parlato di te stesso ti metti a fare certi discorsi proprio adesso?
– Volevo continuare a vivere un sogno dal quale non svegliarmi mai. Ma poi all’improvviso mi sono svegliato.
– Io… ho riacquistato la memoria. Ma… non ho trovato niente… non una casa dove riposare… nessuno ad aspettarmi. Ormai l’unica casa che ho è questa! Spike, non andare. Perché? Perché vuoi andare, se sai che morirai?!
– Io non vado a morire. Ma solo a provare a me stesso se sono realmente vivo oppure no.

Il senso di Cowboy Bebop è tutto lì. Da una parte abbiamo l’anima più pop e colorata di Shinichirō Watanabe, quella che non può far a meno di affastellare citazioni su citazioni. In grado di portare avanti il giochino di basare ogni puntata su di un genere musicale con la precisa volontà di spingerlo all’estremo. Quello che ti gira il frammento noir rispettando tutti gli stilemi estetici di quel cinema per poi passare allo spaghetti western in chiave blaxpoitation appena gli capita l’occasione. Se deve mettere in scena un confronto tra Spike e il suo rivale Vicious l’ambientazione sarà per forza di cose una chiesa, in puro stile John Woo. Con i corvi al posto delle colombe, ma il succo è quello. Da questo punto di vista Cowboy Bebop è il frutto perfetto dei suoi anni.

Nel 1998 si era in piena sbornia pulp e il post-moderno ipercitazionista la faceva da padrone. In un paio di stagioni erano usciti Dal tramonto all’alba e Jackie Brown, mentre mancava pochissimo alla via europea aperta da Lock & Stock. Eravamo tutti i commessi di qualche videoteca immaginaria. Però c’è una grossa differenza tra quei titoli e la serie di Watanabe. Nel video David Foster Wallace – The Problem with Irony, lo youtuber Will Schoder ci parla, partendo dalle celebri parole del grande autore di Infinite Jest, della differenza tra serie televisive come Arrested Development e quelle più tangenti al modello di Modern Family o alla versione statunitense di The Office.

Lo scarto sta tutto nel fatto che le seconde «hanno un cuore. Hanno personaggi da redimere, sinceramente desiderosi di trovare un senso e di instaurare legami umani». Alla stessa maniera i personaggi di Cowboy Bebop non sono semplici pupazzetti da buttare nel solito frullatore pop. Prima della fine del ventiseiesimo episodio sarà impossibile non provare affetto per loro e trovare comprensibile la loro fatale ossessione per il passato.

cowboy bebop

La ciurma del Bebop non è troppo diversa dalla tecnologia obsoleta che la circonda. Pare che il meglio ormai sia un lontano ricordo e non ci si riesce ad allontanare un istante da questa idea. Dopotutto, come scriveva Mark Fisher nel suo Realismo capitalista, la cifra principale del post-moderno è l’incapacità di produrre ricordi nuovi. Peccato che in ogni singola occasione in cui si riesca a raggiungere il tanto agognato passato remoto non si possa non rimanerne delusi. Spesso facendosi parecchio male. Ne rimane un gruppo di persone sole che cercano di volersi bene tra di loro, nonostante non ne abbiano nessun reale motivo. Si tratta del solito tema della famiglia male assortita, quella che va al di là dei legami di sangue. Ne abbiamo visti o letti decine di questi nuclei affettivi, eppure sono convinto che il trovare qualcosa di banale o scontato in questa cosa sia davvero difficile.

Pensiamo a un fumetto lontanissimo da Cowboy Bebop come l’Hitman di Garth Ennis, frutto degli stessi anni e dello stesso identico ambiente culturale. Si parlava di un gruppo di sgangherati sicari e delle loro disavventure per le strade meno battute di Gotham City. Anche in quel caso il citazionismo era spintissimo e in più lo sceneggiatore irlandese era in grande spolvero, capace di mettere in fila volgarità e violenza come nessuno all’epoca riusciva a fare (va detto che lui stesso non si è più avvicinato a quei livelli). I primi numeri parevano una sanguigna presa in giro dell’universo DC eppure, numero dopo numero, si arrivava al cuore di Tommy Monaghan e compagnia. I legami che li univano andavano al di là delle pose da duro, dei “cazzo” sparati a mitraglia e dei richiami a Sam Peckinpah e al cinema di Hong Kong.

Il post-modernismo era solo un bel pacchetto divertente, ma al centro di tutto c’erano – ancora una volta – relazioni tra esseri umani. Anche questa serie, proprio come Cowboy Bebop, si chiudeva in maniera incontrovertibile. Meglio uccidere i personaggi e sciogliere del tutto il gruppo piuttosto che trascinarlo come una grottesca parodia.

Non è un caso se ricordate con maggior affetto i battibecchi tra Tommy e Natt rispetto alle interminabili chiacchiere da romanzetto harmony tra i protagonisti del più grande successo di Ennis, Jesse Custer e Tulip di Preacher. Da una parte i legami tra personaggi erano concreti, quasi palpabili e le cose potevano mettersi davvero male. Dall’altra erano ammantati dalla patina plasticosa del post-moderno. Dove ogni amore è impregnato di vero romanticismo e nulla può andare per il verso sbagliato fino in fondo. Non proprio il modo migliore che conosca per generare empatia con i propri lettori.

Se dopo vent’anni dalla sua prima messa in onda Cowboy Bebop riesce ad avere ancora un impatto di estrema freschezza su chi lo vede per la prima volta è proprio per quanta attenzione Watanabe riuscì a mettere nel cesellare i suoi protagonisti e il magnifico gruppo che ne derivava. Un risultato non da poco per un autore che pare essere imprigionato a vita nell’etichetta di “quello stiloso”, sia che si tratti del post-noir di Cowboy Bebop, dell’hip-hop di Samurai Champloo o delle follie da b-movie di Space Dandy.

E in effetti in nessuno dei suoi lavori successivi è riuscito più a ricreare una simile alchimia – per non parlare di quelli su commissione per promuovere qualche blockbuster statunitense –, con l’autore che si è limitato sempre più a interpretare il ruolo assegnatogli. Grandiose musiche fuori contesto, sceneggiature ammiccanti e senso del design enorme, il tutto destinato a girare sempre più a vuoto. Un motivo in più per celebrare quei memorabili 26 episodi che cercarono di farci capire come, oltre all’ironia e ai continui richiami a qualcosa che già conosciamo, per raccontare grandi storie c’è bisogno di altro.

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