HomeMondi POPAnimazione30 anni di "Akira", il capolavoro animato di Katsuhiro Ōtomo

30 anni di “Akira”, il capolavoro animato di Katsuhiro Ōtomo

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Akira  – il film animato di Katsuhiro Ōtomo del 1988 – compie trent’anni. Trent’anni in cui ha continuato a influenzare tutta l’animazione giapponese e non, ma anche un certo tipo di cinema. C’è chi ha paragonato Akira a una sorta di Big Bang nelle dinamiche Occidente-Oriente che contraddistinguevano gli anime fino a quel momento. Per esempio, nel volume Animazione – Una storia globale di Gianalberto Bendazzi (Utet, 2017), Marco Pellitteri ha sottolineato come il film abbia sancito un nuovo boom dell’animazione nipponica nei mercati esteri, divenendo quindi una sorta di frattura nei flussi che contraddistinguevano il mercato fino ad allora.

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Non vogliamo esagerare né ragionare per iperboli, ma è indubbio come Akira di Katsuhiro Ōtomo sia stato un titolo fondamentale e imprescindibile, tanto che i suoi effetti si sentono ancora oggi. Akira è un film animato tratto dall’omonimo manga scritto e disegnato sempre da Ōtomo. Prima di questo lavoro, l’autore si era già fatto un nome nel fumetto, grazie a titoli come Fireball e Domu (entrambi veri e propri prodromi di Akira) o alle numerose storie brevi che abbiamo letto nella raccolta Memorie (Kappa Edizioni).

All’inizio degli anni Ottanta, Ōtomo cominciò a lavorare nell’ambito dell’animazione giapponese, collaborando fin da subito con Rintarō su Harmageddon – La guerra contro Genma (1983), ma il successo del manga Akira lo portò a riversare le sue energie in un progetto titanico: la trasposizione animata della sua opera a fumetti più importante, nonostante fosse ancora in corso.

Uno sguardo all’indietro

Nella Tokyo del 2019 la società è al collasso. Bande di ragazzini in moto sono in guerra tra di loro, il governo è in una situazione di instabilità assoluta e le strade non sono per nulla sicure. Un giovane motociclista di nome Tetsuo rimane coinvolto in un incidente stradale con un bambino che pare invecchiato. L’esercito preleva fisicamente Tetsuo e comincia a sperimentare sul suo corpo e sulla sua psiche, utilizzando i dati di un precedente programma segreto sulla psicocinesi che ha portato alla trasformazione di Akira, un bambino che proprio a causa di questi esperimenti ha ottenuto un potere inimmaginabile. Quando l’esercito perde il controllo anche su Tetsuo, il caos si scatena, e a cercare di arginarlo è il miglior amico dello stesso Tetsuo, Kaneda.

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Akira è Ōtomo all’ennesima potenza, è la summa del suo essere autore, del suo essere mangaka, del suo essere sceneggiatore e regista. Da un punto meramente storico, Akira è l’incrocio obbligato e più equilibrato fra l’animazione nipponica e la fascinazione per il cinema e la narrativa occidentale. Le suggestioni sono prettamente cinematografiche e Blade Runner, di qualche anno precedente, è il riferimento obbligato e nemmeno troppo celato. Che Ōtomo fosse affascinato dalla cultura occidentale era evidente fin dalle sue prime prove in veste di fumettista, quando, innamorato di Moebius, firmava storie brevi che lo omaggiassero. Questo è l’impianto di base, a cui vanno aggiunti un’oscura visione dell’uomo, suggestioni apocalittiche, inserti nostalgici e riflessioni politiche.

Akira rappresentò una netta frattura con quanto fatto nell’animazione giapponese fino a quel momento. Il suo autore portò avanti un concetto di messa in scena virtuosa ed epica – ma al tempo stesso intimista – e rinunciò a un character design che richiamasse quello tipico degli anime, optando invece per un realismo dei volti e dei corpi che esasperava la componente decadente della sua storia. Non c’erano capelli colorati (fatta eccezione per i punk), erano esclusi gli occhioni, i seni abbondanti, i corpi scultorei. Tutto, in Akira, era tremendamente umano, anche e soprattutto i sentimenti, fossero essi di odio, gelosia, rabbia o bisogno di riscatto in un mondo che relegava le persone ai margini.

Poi c’era l’impianto politico-sociale, che è una componente fissa nella poetica otomiana. Già nell’episodio Interrompete i lavori! (Koji chushi meirei), contenuto nell’omnibus di rara bellezza Manie Manie – I racconti del labirinto (Manie Manie Meikyû monogatari, 1987), Ōtomo ci raccontava di una società fondata sul lavoro e su una dedizione distorta e malata, mascherata però da favola fantascientifica. Anche nei suoi lavori successivi in veste di regista o di sceneggiatore questa sua venatura politica emergeva con forza. Si pensi a Metropolis (diretto da Rintarō) o all’episodio Cannon Fodder contenuto in Memories (Memorīzu, 1995).

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In Akira, Ōtomo riprendeva il suo pensiero sugli assolutismi e su ogni forma di estremismo (religioso, politico, militare), cercando di metterlo a confronto con le dinamiche dell’esistenza stessa, dove, secondo l’autore, albergavano i veri elementi politici da cui trarre ispirazione. In pratica la domanda fondamentale di Akira era: di fronte al caos assoluto, all’abbandono delle istituzioni, all’anarchia delle emozioni, di fronte a una deriva morale e a una generale insensibilità verso il prossimo, verso i bisognosi, verso i reietti, come ci si può comportare?

La risposta di Ōtomo stava nella dialettica rappresentata dai due protagonisti, amici fraterni sin dall’infanzia. Entrambi orfani, entrambi abbandonati, si sono ritrovati ad affrontare il male e la durezza del mondo senza aiuti. Ma il modo in cui, in seguito, si pongono nei confronti della vita è diametralmente opposto. A fronte di un potere infinito, Tetsuo desidera la vendetta e la distruzione totale; al contrario Kaneda è per una civiltà costruita sull’amore e sulla fratellanza (e questo concetto emerge con più forza nel finale del fumetto). Questa presa di posizione nei confronti di una contingenza estremizzata come quella proposta in Akira è, nell’economia dell’opera di Ōtomo, l’atto politico per eccellenza.

Tra Kaneda e Tetsuo c’è, naturalmente, Akira. Un personaggio invisibile, che riecheggia costantemente nella storia senza mai apparire (salvo fugacemente nel finale). Eppure Akira è il deus ex machina che azzera tutto e permette all’umanità di ricominciare daccapo. L’esplosione finale generata da Akira è il riflesso dell’atomica di Hiroshima e Nagasaki e di tutto quello che ne è conseguito (un parallelo che ho sottolineato nel mio volume La bomba e l’onda, Bietti Edizioni, 2013). È lo stesso Ōtomo a dichiararlo, quando dice: «Dentro di me Akira significa dopoguerra» (da una dichiarazione presente nel booklet del bluray distribuito da Dynit).

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Una vetta dell’animazione

Akira rappresenta una vetta in termini tecnici e, dal punto di vista meramente produttivo, un punto di inizio e di fine. Ci sono titoli, nella storia dell’animazione giapponese, che hanno contribuito a costruire un percorso: La leggenda del serpente bianco (Hakujaden, 1958) primo film animato a colori mai prodotto in Giappone; La grande avventura del principe Valiant (Taiyō no ōji – Horusu no daiboken, 1968), opera diretta da Isao Takahata destinata a influenzare (per messa in scena, qualità delle animazioni, libertà creativa e temi trattati) tutto il cinema animato a venire; Le ali di Honneamise (Ōritsu uchūgun – Oneamisu no tsubasa, 1987) di Hiroyuki Yamaga, opera mastodontica e fallimentare prodotta dallo Studio Gainax.

Akira è senz’ombra di dubbio nell’elenco dei film rivoluzionari. Lo è perché la qualità tecnica, ottenuta grazie a un budget mai visto fino a quel momento (un miliardo di yen) e al numero di professionisti coinvolti (solo gli animatori sono 1.300), è impressionante ancora oggi, ma anche per l’ossessivo perfezionismo di Ōtomo, che lo accosta a un altro grande dell’animazione, Hayao Miyazaki.

Dopo la visione della versione definitiva Ōtomo era disperato, convinto che la qualità del film fosse discendente a partire dalla metà del film, come ha raccontato lui stesso in un’intervista su Forbes. Ma bisogna fare un distinguo. Akira ha una doppia anima: quella tecnica e quella prettamente narrativa. Partiamo dalla prima: ci sono film prodotti oggi che sfruttano l’aiuto di inserti computerizzati (e soprattutto della colorazione digitale, ormai di prassi) che non si avvicinano nemmeno minimamente alla fluidità e all’attenzione per i dettagli di Akira.

A esaltarne la qualità c’è una regia di indubbio valore, capace di intersecare sequenze adrenaliniche (l’inseguimento all’inizio fra le bande rivali), momenti epici (lo scontro finale fra Tetsuo e Kaneda) e lampi intrisi di emotività (tutto il finale). La strabiliante qualità tecnica è dovuta al numero di disegni e di animatori coinvolti. E probabilmente questo è stato l’elemento che ha trasformato Akira in un cult anche in Occidente.

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Passando al lato narrativo, è impossibile non sottolinearne alcuni limiti. Credo che il motivo risieda nel fatto che Ōtomo si sia ritrovato a lavorare sulla sceneggiatura di una sua storia che, in forma cartacea, era ancora in divenire. Ma anche nel fatto che abbia voluto fare un film definitivo, inserendoci tutto, anche troppo. Akira, così, perde alcuni pezzi nel corso della storia e la struttura narrativa ne risente un po’. Non mi riferisco al tanto criticato finale, che invece mi ha sempre affascinato nel suo essere sospeso e aperto a importanti interpretazioni, quanto ad alcuni passaggi che paiono un po’ sbrigativi.

A colmare queste lacune, oltre al comparto tecnico, c’è anche la coraggiosa scelta di una colonna sonora inedita e sfrontata, di una gamma cromatica in grado di esaltare le tonalità oscure di una Tokyo futuristica mai vista in quel modo, di personaggi perfettamente caratterizzati e infine di tutta quella componente mistica che amplia il portato concettuale della pellicola.

Se è vero che Akira non può essere considerato un capolavoro in senso lato, è sicuramente vero che il gigantismo con cui si è posto agli occhi del mondo ci ha obbligati ad aprirli definitivamente e a considerare in modo del tutto inedito un’animazione che fino a quel momento non era ancora stata compresa realmente. E questa è una verità che si percepisce ancora oggi, a trent’anni di distanza, in quasi tutto quello che il mercato degli anime produce oggi. Non è cosa di poco conto.

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