Calabria, fine anni Ottanta. Sullo sfondo della periferia degradata di Crotone assistiamo all’evoluzione del giovane protagonista. Figlio unico di Vincenzo Filosa è diviso in cinque capitoli. I primi tre (“Corri”, “Salta”, “Vola”) raccontano la sua infanzia all’ombra di un padre assente e mitizzato; gli ultimi due (“Accasciati”, “Muori”) la fase della ribellione adolescenziale, nei confronti di tutto e in primo luogo della propria famiglia.
A due anni da Viaggio a Tokyo, Filosa torna a proporre una storia infedelmente autobiografica realizzata, ancora una volta, attraverso un’esplicita mimesi grafica, narrativa e, in fin dei conti, ideologica, con lo stile del gekiga. Sulle motivazioni di questa estrema vicinanza stilistica ai dettami – non scritti – di quel movimento controculturale e di quel “genere”, avevo già avuto modo di parlare a proposito recensendo Viaggio a Tokyo, dunque non aggiungerò nulla ora.
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Su questo aspetto mi limito qui a sottolineare gli elementi di continuità più superficiali con il suo primo libro, quelli che saltano immediatamente all’occhio: la fruizione ribaltata rispetto ai canoni occidentali; gli omaggi, sia espliciti che più o meno sotterranei, nei confronti degli autori amati; la recitazione, spesso esasperata, dei suoi “attori”; il passaggio da uno stile sintetico a uno maggiormente dettagliato, soprattutto nel gioco fra personaggi e sfondi (con i secondi che spesso rubano il ruolo da protagonista ai primi); svariati riferimenti alla cultura nipponica e, soprattutto, a come questa abbia colonizzato l’immaginario di più di una generazione, arrivando a penetrare anche nei quartieri periferici di una provincia disagiata del sud Italia.
Crotone e non più Tokyo, dunque. Il quotidiano, il noto, il familiare, che sostituisce la percezione in parte alienata di un paese straniero. Il qui che prende il posto dell’altrove. Eppure, nell’opera di Filosa questi confini, queste contrapposizioni perdono immediatamente di senso.
Il cambio di ambientazione sembra essere la differenza più importante fra i due libri, eppure questo spostamento non è neanche immediatamente avvertibile. Nel prologo di Viaggio a Tokyo sono necessarie due didascalie per informarci che è avvenuto un salto spazio-temporale, dalla capitale giapponese (1968) alla cittadina calabra (2006). Niente, nella qualità del segno, nella resa grafica dei personaggi o degli edifici rende evidente – se non all’occhio attento dell’appassionato di manga – il cambiamento.
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Qualcosa di simile accade in Figlio unico. È un robot che stranamente parla tedesco ad accoglierci nel racconto. Tutti gli altri elementi – il bambino, sua madre, gli interni della casa in cui vivono – sono assolutamente per noi intercambiabili con quelli di un racconto di Tadao Tsuge. Anche il padre, che entra in casa vestito da uomo d’affari, con completo, cravatta e borsalino nero, rimanda immediatamente ad alcuni protagonisti di Yoshihiro Tatsumi, ma anche di un membro della Yakuza di uno dei film del primo periodo di Shōhei Imamura. Questa ambiguità viene mantenuta da Filosa per tutto il corso del libro, anche quando, ben presto, ci accorgiamo di non essere nella periferia di una metropoli nipponica. Spesso è persino sottolineata, non è possibile dire quanto ironicamente.
Per esempio, quando i genitori del protagonista discutono animosamente sul futuro di un figlio troppo chiuso nel proprio mondo famigliare e immaginativo, lo fanno sotto una serie di maschere giapponesi che interpretano e sintetizzano i loro contrapposti sentimenti, come in una ritualizzazione teatrale. Questa stessa sequenza, infine, culmina in una splash page che, per la prima volta – e con enorme impatto visivo, considerata la natura estremamente claustrofobica delle tavole precedenti – ci mostra l’esterno della casa teatro dell’azione.
Nella citata splash page vediamo un gruppo di brutti condomini che diradano verso un appezzamento di terra incolto e mal tenuto, il quale confina con un bosco. Ancora una volta ci chiediamo… dove siamo? In quale dei tanti, anonimi, sobborghi metropolitani del mondo è ambientata questa storia? La riflessione su questa democratizzazione dal basso delle periferie, ci offre un ulteriore elemento di riflessione circa la sua adesione, quasi monastica, ai dettami in larga parte non scritti del gekiga.
L’amore evidente che Filosa nutre verso questa corrente non si esaurisce, come già detto, nello sterile omaggio o nella citazione ma diventa – probabilmente più nell’atto pratico del raccontare tramite immagini che nel quotidiano – un modo di osservare il mondo e di interpretare il proprio stesso ruolo. L’analisi dell’autore è chiara: in un mondo globalizzato – ma forse la globalizzazione qui è un tema davvero poco centrale – le differenze sono prettamente estetiche, mai sostanziali.
Ciò è vero soprattutto se il nostro sguardo si sofferma sugli angoli, sui vicoli, sulle periferie. E se tutto è uguale, se la periferia come metafora democratizza trasversalmente esperienze estetiche, architettoniche e personali da una parte all’altra del mondo, che necessità c’è di utilizzare ogni volta linguaggi, stilemi nuovi? Filosa ha abbracciato il gekiga, reinterpretandolo a suo modo, certo, come ideale strumento di analisi del reale, e se così ben si adatta al proprio vissuto, perché cercare di rinnovarlo quel tanto che servirebbe a renderlo irriconoscibile?
D’altro canto l’autore, probabilmente, ritrova in questo stile una chiave per raccontare il proprio, evidente, senso di inadeguatezza. Spaesamento melanconico e nevrotico che, appunto, condivide con alcuni dei suoi autori feticcio, in particolare con i fratelli Tsuge. Questa continuità grafica fra un luogo e l’altro, fra la città dell’infanzia e dell’adolescenza e la Tokyo in cui continua a non sentirsi perfettamente centrato, come se in fondo non si fosse mai spostato, rafforza questa perenne sensazione di fuga immobile. Sensazione perfettamente riassunta da una frase pronunciata dal protagonista in Viaggio a Tokyo:
Ho organizzato il viaggio con sei mesi di anticipo… Poi non ci ho più pensato fino a pochi giorni prima della partenza. Non ho preparato niente, non ho fatto programmi… Quando sono atterrato, non sapevo neanche dove andare. Ero solo felice di trovarmi altrove.
Questo “altrove”, però, non basta a Filosa per ritrovarsi nuovo, rinato. Anzi. Il suo è sempre un viaggio circolare. La mimesi con il gekiga non assume quindi il senso dell’appropriazione della forza divina (rappresentata dagli autori feticcio di Filosa) in un’operazione di cannibalizzazione e imitazione, ma piuttosto presenta i tratti di un rituale teso a stabilire una connessione fra sensibilità distanti (nello spazio e nel tempo) allo scopo di interpretare il mondo.
Naturalmente a questo dittico autobiografico o semi-autobiografico manca un tassello, quello che in mancanza di ulteriori e futuri sviluppi potremmo chiamare un finale. Quello che vede Filosa autore ormai affermato, curatore di collane per importanti case editrici e traduttore. Quel tassello – non raccontato – potrebbe, se non ribaltare, almeno mitigare la paludosità esistenziale che contraddistingue i suoi primi due libri. Però non è questa la sede per mischiare fiction e non fiction. Soprattutto se non si vuole correre il pericolo che la prima tracimi nella seconda.
Torniamo quindi a Figlio unico. Abbiamo parlato di questo libro come di una (semi) autobiografia straniata. E straniante, si potrebbe aggiungere. Gli elementi fantastici, che Filosa mantiene in un’ambiguità fra simbolismo, soggettività e magia, hanno un peso fondamentale. I “poteri” del giovane protagonista, la confusione simbolica fra i piani del reale e della trasfigurazione dell’immaginario (in particolar modo videoludico) a volte assurgono a metafora. Altre volte, intenzionalmente, rimangono ambigui, restituendo un mélange a tratti affascinante a tratti irrisolto.
All’irresolutezza e calcolata elusività di alcune scelte narrative di Filosa, spesso dalla carica metaforica e simbolica un po’ scontate (la scoperta dei poteri del protagonista), supplisce il magnifico tratto. Dove nella narrazione quotidiana Filosa si conferma maestro della sintesi e del segno necessario – non uno di più – nelle sequenze che qui, semplificando, chiameremo immaginifiche e oniriche, invece si rivela invece capace di creare universi grafici dettagliatissimi e articolati. Equilibrati nella composizione, e impreziositi da una pletora di dettagli, al punto da correre il rischio di “gettare fuori” di forza il lettore dal racconto.
Una vittoria e una sconfitta al tempo stesso, come se queste sequenze costituissero dei luoghi a sé stanti nella narrazione. Gioiellini compositivi che finiscono per stonare, sebbene l’intenzione contrappuntistica resta evidente. Si apprezzano quindi di più i volti espressivi ripresi nel tormentoso dramma quotidiano dell’esistere, gli scorci e, soprattutto, gli inconsapevolmente simbolici scheletri, gli incompiuti architettonici (e non) che costellano il libro offrendo un severo, muto e irreversibile giudizio.
Figlio unico è, in ultima analisi, un lavoro riuscito, affascinante che forse segna un piccolo passo indietro rispetto alla brutale schiettezza “cronachistica” – traslata anche sul piano del tratto – del libro precedente di Filosa. Eppure la lucidità che accompagna la narrazione, il segno quasi sempre necessario e (quasi mai) compiaciuto, i paesaggi urbani geograficamente e ritrattisticamente puntuali ma, al tempo stesso, astratti e atemporali, ne fanno dimenticare i pur lievi difetti: qualche passaggio di eccessivo e un po’ scontato lirismo, la ricerca del bel tratto, una certa discontinuità fra citazione necessaria e omaggio superfluo, momenti narrativi più confusi che evocativi. Nonostante questo Figlio unico trasmette una autentica sensazione di necessità, quasi una brutale urgenza, che fa del rimpianto per la scarna architettura grafico-narrativa di Viaggio a Tokyo un legittimo scotto da pagare.
Figlio unico
di Vincenzo Filosa
Canicola Edizioni, dicembre 2017
Brossurato, 200 pp in b/n
€18,00