Quant’è brutto essere adolescenti. Non si fatica a pensarlo davanti a due personaggi disturbati come Alyssa e James, che campano portandosi appresso traumi giganteschi. A lui undici anni prima è morta la madre, davanti ai suoi occhi. E diventa un bambino strano, privo di senso dell’umorismo, silenzioso, dedito al massacro di animaletti innocenti. A lei non è morto nessuno, ma il padre se n’è andato e la madre si è risposata con uno stronzo, e ci ha fatto due gemelli. Cosa che la porta a coltivare rabbia e maleducazione, più una montagna di insicurezze nascoste dietro spavalderia e sfacciataggine. Prende di mira lui, strano abbastanza da piacerle. E per i due comincia un’avventura on the road, un viaggio di formazione sotto forma di palpitante tragicommedia pulp, forse un po’ d’altri tempi.
The End of the F***ing World è la serie prodotta dal canale britannico Channel 4 (distribuita nel resto del mondo da Netflix) basata sull’omonimo libro a fumetti (QUI la nostra recensione), e questa prima stagione, uscita in blocco il 5 gennaio dopo un passaggio in sordina sulle tv inglesi lo scorso autunno, si divora tutta in un paio di ore e mezza, come un normale film.
Otto episodi fulminanti per entrare nelle vite di Alyssa e James e ricordarsi un po’ quanto era stressante essere adolescenti, quante cose apocalittiche si pensavano, quanto ci si annoiava. Sulle prime i due non stanno simpatici. La serie inizia presentandoli in tutta la loro sgradevolezza, con lui che ammazza gatti e lei che spacca il cellulare davanti alle compagne di classe. Tutto bene, ma diteci qualcosa che non sappiamo. Superate l’impasse della rabbia giovanile fine a se stessa, chi guarda probabilmente ha parecchi anni più di voi, e della teenage angst non ne può più.
Ed ecco che andando avanti i due ci dicono davvero qualcosa in più, se non con le parole con i fatti, e anche con le loro faccette pallide tremendamente inglesi. Quella di lui, ventiduenne nella vita reale, si era già vista in uno degli episodi della terza stagione di Black Mirror (Shut Up And Dance, quello del ragazzo ricattato dall’hacker), mentre lei, che incredibilmente ha ben venticinque anni, solo in qualche episodio di Penny Dreadful e in qualche ruolo secondario al cinema.
Quella parlata strascicata, quelle espressioni tra il disperato e il menefreghista, quel carico di fragilità malcelata, rivelano una tenerezza e un candore di fondo già appannaggio di film memorabili. A cominciare da True Romance, il cult di Tony Scott che molti potrebbero citare a memoria.
James e Alyssa ricordano tanto Clarence e Alabama, i protagonisti del film, se non nei dialoghi tarantiniani, sicuramente per come si presentano a un certo punto (lui con la camicia hawaiana, lei con i capelli biondi) e poi nel loro essere una coppia di scoppiati, visceralmente legati il giorno dopo essersi conosciuti, pronti a salvarsi l’un l’altra, in fuga verso un mondo migliore. Quale sia e dove sia non è dato saperlo (oddio, in True Romance era Cancún), ma il punto non è quello, non lo è mai stato. Lo scopo non è la meta ma il viaggio, giusto?
I ragazzini nel loro viaggio si mettono in guai sempre più grossi, macchiandosi di reati sempre più gravi, mossi solo dalla loro incoscienza. Senza scomodare il facile paragone con Bonnie e Clyde, quanto ricordano Thelma e Louise, due complici non innamorate ma disperate, che per andare verso una vita migliore ne fanno una peggio dell’altra, fino all’inevitabile capolinea? Se lì il nemico erano gli uomini, i maschi, qui sono gli adulti, tutti.
Come le due donne, i ragazzini sono braccati dalla polizia, nello specifico una poliziotta buona (molto simile nel comportamento all’ispettore del film di Ridley Scott, interpretato da Harvey Keitel) e una meno buona, a cui interessa solo consegnarli alla giustizia (da segnalare la storia parallela tra le due, che riserva risvolti interessanti).
Leggi anche: Nello studio di Charles Forsman
The End of the F***ing World, la serie, esaurisce in questa prima stagione le vicende narrate nel fumetto e potrebbe anche concludersi qui (nulla si sa di un eventuale seguito). Si inserisce perfettamente nel filone criminali-innamorati-in-fuga, che sa molto di anni Novanta ma che non è mai defunto (anzi, è stato di recente rispolverato con successo da quel geniaccio di Edgar Wright, britannico anche lui, con il suo pazzesco Baby Driver), ma lo fa alla maniera inglese, con un umorismo nero pungente.
Non è un capolavoro d’innovazione, ma è girato bene, recitato bene, ha una colonna sonora strepitosa (di Graham Coxon dei Blur) e ci fa affezionare a dei protagonisti decisamente poco simpatici. Soprattutto, ribalta con abilità il senso di già visto che si percepisce all’inizio, e riesce nella mirabile impresa di non farci ripensare all’adolescenza solo con il sollievo di averla superata.