Non è molto comune vedere sul grande schermo un film tratto da un fumetto. A meno che, beninteso, non si tratti di una storia con mutanti, extraterrestri volanti, creature con superpoteri, eroi in calzamaglia. Nel caso di cui andiamo a parlare adesso, però, i travestimenti non ci sono, o meglio: sono quelli che appartengono a personaggi consegnati al mito, anche se con una connotazione decisamente non positiva.
Nel 2016 in Francia Dargaud ha pubblicato La Mort de Staline, scritto da Fabien Nury e disegnato da Thierry Robin (in Italia tradotto da Mondadori Comics). I due autori francesi avevano da tempo in mente di lavorare sulla distopia sovietica e sui suoi protagonisti, segnatamente il grande dittatore/piccolo padre, probabilmente il singolo più terribile essere che il buio della mente umana sia stato in grado di partorire, con buona pace di Adolf Hitler.
La premessa della storia che i due fumettisti raccontano è l’annuncio della morte di Stalin, dato l’8 marzo del 1953. Un annuncio che sconvolse il mondo e che fu, nella microstoria delle stanze del Cremlino, l’inizio di una tremenda, tragica, grottesca e spietata lotta per il potere fra i suoi seguaci, culminato con la morte di Beria, forse il più bestiale tra gli uomini attorno al piccolo padre Stalin, secondo solo a lui per ferocia e malvagità.
Ma sarebbe troppo facile e troppo veloce liquidare Stalin e la sua corte come un insieme di esseri malvagi: c’era e c’è stato molto di più. L’emorragia cerebrale che stroncò la vita di Josef Stalin la notte del 2 marzo, a cui fecero seguito giorni di colpevole immobilismo tra il panico per la scomparsa del signore assoluto delle Repubbliche socialiste sovietiche e la pulsione di vederlo davvero morto, è un racconto che i due autori hanno trasformato, comprimendo tempi storici e dilatandone quelli soggettivi, lavorando di intuizione accanto al materiale estremamente dettagliato a cui hanno attinto, spostando fatti, semplificando dinamiche, evidenziando passaggi, dando voce a sospetti e dubbi storici inquietanti.
Assieme all’uscita del fumetto c’è stata anche la preparazione del film, un progetto separato che da noi è stato intitolato Morto Stalin se ne fa un altro per la regia dell’attore scozzese di chiare origini italiane Amando Iannucci. Questi, nato nel 1963, è a cavallo della generazione di Nury (classe 1976) e Robin (classe 1958) e ne interpreta fedelmente le idee e le intese.
L’esercizio di trasporre un fumetto in film è una dimostrazione di quanto i due linguaggi, quello delle nuvole e quello del grande schermo, siano solo apparentemente simili. In realtà c’è molto di più: Iannucci ha costruito una storia che sembra molto fedele all’originale del fumetto, ma in realtà se ne è sostanzialmente distaccato grazie a una scelta di registri molto acuta, con attori assolutamente all’altezza (Steve Buscemi è in gran spolvero) e una lenta ma costante accumulazione di particolari e di scelte di sceneggiatura che ridisegnano intimamente il racconto.
È, se vogliamo, un esercizio di certosina rielaborazione di una storia che è già una rielaborazione di quella “vera”. In gioco, infatti, non c’è tanto il bisogno filologico di ricostruire l’esattezza storica dei fatti, come tendono a fare i libri-fiume del genere storico-biografico statunitense. Anche perché la storia è in realtà un racconto quasi sempre falso di eventi quasi sempre senza importanza, come ricorda lo studioso francese esperto di scosse del blocco sovietico, Jean-Jacques Marie. Il quale, nella postfazione del volume, puntualizza: «Il fumetto è dunque giustificato quando si prende delle libertà con la Storia. Procede a ricomporla, così da rivelarne l’essenza più profonda. L’importante, ai suoi occhi, non è la precisione dei fatti quanto l’autenticità della visione». Come dargli torto?
La stessa operazione viene portata avanti da Iannuzzi, che rielabora in seconda battuta aggiungendo piani di lettura inquietanti: suoni, musiche, rumori, una fotografia eccezionale, colorata, in contrasto con l’immagine grigia della nomenklatura sovietica. E un gioco fine, preciso, terribile, nel mostrare la violenza e l’orrore del regime sovietico degli anni cinquanta, gli anni delle “purghe staliniane” somministrate soprattutto (ma non solo) dal suo fidato carnefice Beria.
Un gioco basato sul contrasto fra l’orrore e la violenza del tempo con lo spirito cazzaro e leggero di quel pugno di uomini che, attorno a Stalin, come una muta di cani da caccia, hanno fatto la rivoluzione, la guerra ai nazisti, la sottomissione di interi popoli, stragi omicidi e ruberie senza fine. Spirito cazzaro, retto perfettamente da dialoghi brillanti e potenti, da una rappresentazione del potere come leggerezza, orrore, abisso nel quale rischiare di precipitare a ogni attimo.
Il film rapisce quanto se non più del fumetto, ma semplicemente perché coinvolge con più sensi, attrae e ipnotizza, trascina in un mondo perduto che oggi abbiamo completamente dimenticato. Nessuno dei tre autori coinvolti nel progetto era nato ai tempi di Stalin e solo gli echi più remoti sono giunti da quel periodo che, lentamente, fino alla disgregazione tra il 1991 e il 1992, ha visto la fine dell’Unione Sovietica e la nascita di un nuovo ordine mondiale.
Il tono del racconto strizza l’occhio anche all’attualità, al dream-team attorno presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Non c’è nessun riferimento, ovviamente, ma come non pensare a quel gruppo di uomini spietati e contemporaneamente tanto facili e semplici da leggere (astuti, intelligenti, ma tutti d’un pezzo, legati a una generazione profondamente diversa dalle attuali) e non rivedere per contrasto i volti e le storie di chi ha portato Trump alla Casa Bianca?
In conclusione, non saprei cosa consigliare. Leggere il fumetto certamente, ma ancora di più vedere il film. Consiglio forse prima il fumetto e poi il film, ma non è necessario seguire quest’ordine. Alla fine, sono belli entrambi.