Frank Quitely è la meraviglia. Per quanto ci si possa sforzare di trovare altri modi per definire la sua arte, dubito ci si potrebbe discostare troppo da questa semplice idea. Basta provare a sfogliare uno dei titoli su cui lo scozzese si è ritrovato a lavorare per rendersi conto di come le sue tavole sappiano sfruttare il fatto stesso di essere parte di un fumetto per trasportarci in una dimensione che non potrebbe esistere in un altro linguaggio.
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Che si tratti di Superman, di bizzarri giustizieri in mutande leopardate o di animali da compagnia trasformati in armi letali, il respiro epico e l’enormità della sua immaginazione finiscono sempre per colpirti in pieno volto. Eppure non è sempre stato così. Perché prima di raggiungere un tale livello di consapevolezza Frank Quitely non era che un illustratore dall’enorme talento. Senza dubbio bravissimo a comporre una tavola dal punto di vista grafico, ma troppo incurante delle meccaniche della narrazione per arrivare a fare davvero la differenza.
Per fortuna le cose con il tempo sono cambiate, e se ora possiamo parlarne in termini tanto lusinghieri è proprio perché la sua poetica ha trovato nel corso degli anni un enzima formidabile nelle vignette e nei balloon. Compresi appieno – grazie anche allo scambio con un mentore e partner come Grant Morrison – e sfruttati al limite delle loro potenzialità. Non male per uno che, per sua stessa ammissione, di fumetti non ne ha mai letti molti – uscita antipatica come poche, ammettiamolo, ma gli dobbiamo tutti troppo per non perdonargliela – e che in tutta la carriera non è mai riuscito a rispettare una singola deadline.
Zuppa elettrica e strisce bizzarre
Frank Quitely (il cui vero nome è Vincent Deighan) nacque a Glasgow nel 1968. Mentre studiava arte si manteneva disegnando poster e volantini per night club, murales e ritratti di animali domestici. Nel frattempo si unì al collettivo underground dietro a Electric Soup – una rivista antologica distribuita praticamente solo in Scozia – dove entrò in contatto con il fumetto. Tanto per non passare per uno qualunque, cominciò subito a mietere successi. The Greens, rilettura amara della celebre striscia del Sunday Post The Broons, ebbe presa immediata sui lettori della sua città natale e dei dintorni.
Verrebbe da odiarlo per la facilità con cui è divenuto un fumettista di professione, ma se non fosse stato per quel successo così inaspettato probabilmente non saremo a raccontare questa storia. E poi c’è poco da meravigliarsi: nonostante si trattasse della sua prima esperienza – e le pecche date dall’inesperienza erano evidenti – il risultato era già notevole. Sopratutto se ci si sofferma sull’aspetto grafico. Le anatomie hanno sempre qualcosa di artificioso, il tratto è esageratamente plastico e le vignette riescono al contempo a essere pienissime e minimali. Una serie di caratteristiche che il Nostro ha portato per sempre con sé, andando nel tempo a limarne gli aspetti umoristici per indirizzarle verso la sua poetica visionaria.
A detta dell’autore, la striscia originale rimane a oggi una delle sue basi più importanti, andando a influenzarne profondamente il modo di comporre la vignetta. «C’era sempre molta roba che succedeva sullo sfondo. Una vecchia nuda che ascoltava o qualcuno con un’espressione glaciale. Questo mi è sempre piaciuto molto» ha raccontato il disegnatore al Sunday Post.
Un amore per il particolare che è sempre stato evidente nei suoi libri, anche se spesso la dura realtà delle produzione industriale si è fatta sentire. In occasione degli ultimi numeri di All-Star Superman ci scherzava sopra: «Negli ultimi tre numeri mi piacerebbe vedere Superman nello spazio, in una distesa di neve o in un deserto. Ovunque non ci sia bisogno di dover disegnare uno sfondo. Ma non dubito che Grant [Morrison] lo porterà in un maledetto negozio d’antiquariato o qualcosa del genere».
Ma questi sono problemi che sono arrivati dopo. All’epoca Quitely cominciava a vedere i primi guadagni derivanti dalla sua occupazione a tempo pieno di fumettista, ed era il momento di passare al livello successivo. L’eleganza delle matite unita a contenuti spesso rudi, se non addirittura crudeli, bastò a David Bishop – editor del Judge Dredd Megazine – per commissionargli qualche pagina da pubblicare sulla rivistsa. Arrivarono così Missionary Man e Shimura, storie con protagonisti rispettivamente un predicatore in un mondo post-atomico e un giustiziere di una futuristica Tokyo battezzata Hondo City. Il tratto di Quitely si arricchì, divenne più profondo e ricco di particolari. Eppure non perse un grammo della sua spazialità e della sua chiarezza.
Il carattere europeo rimane preponderante, ma il tutto incomincia a farsi più bombastico. Pensate a un Moebius meno poetico e con più muscoli. Le sue tavole sono di una chiarezza e di una pulizia vertiginose, i particolari sono ricchissimi, ma la sensazione è di estrema leggerezza. I tratti sono chirurgici, i neri quasi assenti. Tutto è molto estetizzante, sospeso, cristallino. Così leccato e perfetto che Dan Raspler – editor DC – finì per definire il suo storytelling con due sole parole: «Molto noioso».
«Quando ho cominciato non ne sapevo molto di narrazione perché non avevo mai avuto un’educazione formale nell’ambito dei fumetti. Ho finito per procedere a intuito, ponendomi come obbiettivo principale quello di essere chiaro e interessante», raccontava Quitely qualche tempo fa. «Sai, non pensavo davvero in termini di flusso narrativo, era solo questione di rendere le cose chiare e migliori possibile. Gradualmente, con il passare degli anni, mi sono interessato sempre di più allo storytelling».
Alla ribalta assieme a Grant Morrison
Quale miglior modo per affinare le proprie capacità narrative se non dando vita a un sodalizio con uno dei narratori più cervellotici della storia del fumetto, per di più proprio sulle pagine di uno dei suoi lavori più criptici e complessi? Pubblicato oltretutto non da qualche minuscola etichetta underground, ma da una delle due grandi major dell’industria statunitense? Stiamo parlando di Flex Mentallo, ovvero il supereroe americano secondo Grant Morrison. Un’estenuante cavalcata in quattro atti – dalla Golden Age al post-realismo – stipata ben oltre il limite massimo di simbolismi, richiami, giochetti metatestuali e un sacco di altre seghe mentali che fanno di tutto per rendere il fumetto in questione il più pesante possibile. Se ne può parlare bene quanto si vuole, ma c’è un perché se per molti anni l’unica edizione disponibile a livello mondiale è stata quella targata Magic Press.
L’errore principale di Morrison è stato quello di non capire a chi passava i suoi testi. Quitely era palesemente ancora in prova, cercava di asciugare il suo tratto per renderlo il più americano possibile, ma era altrettanto chiaro come non gli fosse concesso nulla. Se il Comics Journal arrivò a definire i picchi di immaginazione che avrebbero dovuto rendere questa miniserie il non-plus-ultra della visionarietà come «spesso ipotetici, troppo rari e fuori contesto» significava che qualcosa non era andato come doveva. Il fumetto è fatto così, non puoi prescindere dal coinvolgere chiunque ci stia lavorando. Cercare di stupire solo con le parole magari è anche possibile, sopratutto sei ti chiami Morrison, ma per arrivare davvero al punto bisogna sfruttare anche le immagini. Magari evitando di incastrare intuizioni come l’uomo origami in una microvignetta di pochi centimetri quadrati.
Comunque sia poco male, ormai Frank aveva entrambi i piedi ben saldi dentro DC Comics. Seguirono così altri one-shot di livello sempre più elevato, fino alla definitiva maturazione di JLA: Terra 2, dove il nostro riuscì finalmente a padroneggiare il linguaggio super-eroistico come se ci fosse nato in mezzo.
Avete presente quando ve ne tornate a casa dopo aver visto al cinema l’ennesimo Marvel-movie e, nonostante si sia trattato di un paio d’ore decisamente dignitose, vi manca comunque qualcosa per essere davvero soddisfatti? Ecco, Frank Quitely quel qualcosa l’ha capito perfettamente e l’ha sparso in ogni pagina di JLA: Terra 2.
La trama è di una banalità sconcertante: la Justice League viene a contatto con il Lex Luthor di una Terra alternativa, dove tutto è la copia al negativo rispetto al nostro mondo. Quindi i buoni sono i cattivi e viceversa. I nostri – che sono buonissimi – decidono di intervenire, con tutto ciò che ne deriva. L’idea non era certo delle più brillanti, ma Morrison salvò la baracca nel modo più semplice possibile: tirandosi indietro, limitando i testi al minimo, scrivendo una storia lineare. Ovvero lasciando spazio al disegnatore scozzese e dandogli la possibilità di dare la sua personale rilettura del super-uomo statunitense.
Tutto è chiaro già alla prima splash-page, con Superman, Wonder Woman e Martian Manhunter impegnati a salvare i passeggeri di un volo fuori controllo. Non si tratta di pagliacci in tutina di spandex, ma di divinità. Sono enormi, scultorei, inattaccabili.
Tutto contribuisce a questa impressione: l’inquadratura, i tagli di luce, l’interpretazione apollinea delle anatomie. In una sola vignetta abbiamo ben chiaro che si tratta di esseri superiori in tutto e per tutto. E così è per ogni aspetto della battaglia contro i loro doppelganger. Dalle scene da kolossal al design degli ambienti, tutto è un gradino più in la di quanto ci si aspetterebbe. La scrivania di Luthor è un enorme sezione di sequoia gigante piazzata in uno sconfinato ufficio vuoto, le tecnologie sono immense e – grazie all’alternarsi tra sezioni completamente lisce e aperture ultraparticolareggite sui meccanismi interni – sembrano davvero provenire dal futuro. Tutto così, fino all’ultima pagina.
Finalmente, la narrazione si caricava di trasporto emotivo riuscendo a trasmettere qualcosa. Si giocava sporco (primissimi piani o particolari dei volti, ombre teatrali, splash page tutte improntate su aperture drammatiche) rispetto alla gelida perfezione formale dei primi lavori, ma in qualche modo bisognava pur spingere il lettore ad arrivare in fondo a quelle 90 pagine di sceneggiatura tutt’altro che brillante.
Quitely fece proprio il concetto di supereroe e lo elevò al cubo, proprio come Warren Ellis e Bryan Hitch stavano facendo su The Authority. Serie che, guarda caso, stava in quel preciso momento per essere passata al terzo scozzese della nostra storia. Senza dubbio il meno talentuoso dei tre, ma di sicuro il più furbo: Mark Millar.
Frank Quitely and I just finished a midnight podcast with @thirdeyecomics in our pyjamas. pic attached… pic.twitter.com/GMIyQmRHys
— Mark Millar (@mrmarkmillar) 8 aprile 2015
Millar non ha mai neppure fatto finta di accontentarsi di disegnatori di seconda fascia per le sue sceneggiature. Sa bene come funziona e capisce che, nonostante non siano più gli anni Novanta, tavole di livello garantiscono quasi sempre ottime vendite e visibilità. Anche per questo sarebbe arrivato, da lì a qualche anno, a costruire tutti i suoi lavori in chiave quasi esclusivamente visiva, basandosi su one-liner d’impatto e grandi trovate coreografiche (sia che si trattasse di violenza o di esagerazioni alla Michael Bay).
Spostare gli equilibri
Trovandosi al volante della serie di supereroi più grossa del momento, Millar non poteva che scegliere il giovane disegnatore di Terra 2, forse l’unico in grado di spostare più in alto l’asticella della grandeur rispetto a quanto fatto fino a quel momento. Peccato che Millar all’epoca avesse tutto da dimostrare, decidendo così di prendersi tutto il palcoscenico per sé. Dalla gestione cinematica di Warren Ellis si passò a tavole frammentate in numerose vignette, con dialoghi infilati ovunque e solo qualche cessione alla poetica di Quitely.
Il gusto del disegnatore faceva capolino solo in una doppia splash in cui il Carrier precipitava – in puro stile Moebius –, in qualche scena desertica e nella gestione dello splatter (e negli inevitabili mascelloni, naturalmente). La run era buona ma non raggiunse i picchi precedenti, e il disegnatore riuscì a stare al passo solo per sette numeri. Bazzecole rispetto a certi stakanovisti del tavolo da disegno, ma più che sufficienti per mettere il suo nome bello grosso sulla copertina dei trade papaerback. Un segno, tra le altre cose, di come la sua fama stesse crescendo a vista d’occhio, nonostante i ritardi, i lavori centellinati e un gusto non certo allineato alla gran parte dell’industria statunitense.
Il suo non era un tratto facile da gestire, non poteva essere utilizzato come un banale tappabuchi o un mero visualizzatore della sceneggiatura. Quando Quitely poteva muoversi come meglio credeva, l’azione incessante tipica dei comic book si sospendeva, come se il tempo si fosse cristallizzato. Bisognava prenderlo per mano, lusingarlo con soluzioni scritte ad hoc e lasciargli il giusto spazio. Ci voleva insomma qualcuno che ne sapesse tenere le redini e che lo conoscesse bene. Qualcuno come il sodale di lunga data Grant Morrison, in quel periodo contattato da Marvel Comics per rilanciare gli X-Men.
Ripensare gli X-Men
Mettiamo subito le cose in chiaro: la gestione di Morrison e Quitely degli X-Men era da sola un motivo più che sufficiente per incominciare a leggere fumetti e dedicargli gran parte del vostro tempo libero.
Lo si capiva fin dalla copertina del primo numero, con quel restyling clamoroso della squadra. Sei figure misteriose, eppure immediatamente riconoscibili, avanzavano verso il lettore immerse per buona parte nell’ombra. Non vedevamo i loro lineamenti, ma ci bastava l’andamento deciso, i pugni stretti e le nuove divise per capire che da lì in avanti si sarebbe cominciato a fare sul serio.
Basta tutine ridicole o tristi ammennicoli da tizi tosti post-esplosione Image Comics. I buoni ormai si vestivano con giubbetti che diventavano il loro steso logo, mentre la celebre X compariva anche sui guanti. Come se si trattasse di una durissima band straight-edge (conoscendo le abitudini lisergiche dello sceneggiatore dubito che lo scopo fosse quello, ma tant’è). Erano icone, non banali vigilanti. E quella che gli si parava davanti sarebbe stata una delle cavalcate più folli della loro storia editoriale.
La simbiosi tra i due autori era totale e fu evidente nel risultato. Quando a mettere su carta le idee e l’iper-stratificazione di Morrison c’è Quitely tutto diventa chiaro ed esplicito. Le geometrie nascoste in tavole ultradettagliate, il gusto per il gigantismo, la capacità di gestire i vuoti. Sono tutti ingredienti che in quel caso venivano messe al servizio della narrazione. A questo uniamo la capacità di rendere memorabile ogni personaggio, di sfuggire alla malattia della normalizzazione tipica dei nostri tempi per rendere ancora una volta i super-esseri… be’, super.
Naturalmente per gestire tutto questo occorreva tempo, elemento di cui l’industria statunitense dell’intrattenimento è notoriamente a secco. Quitely rimase ancora una volta indietro e cedette il posto a una serie di disegnatori più o meno validi, che non riuscirono mai a raggiungere quel livello di sinergia con i testi necessario a portare degnamente a termine un ciclo narrativo che avrebbe potuto essere qualcosa di inarrivabile.
Curioso come di tutta la gestione venga sempre portato a esempio di eccellenza il famigerato numero muto, in realtà un chiaro giochino morrisoniano all’interno di una triste trovata editoriale battezzata “Silent Month“. In realtà il vero picco della serie stava nel character design dei protagonisti. Ogni volto, ogni anatomia, ogni anomalia parlava dei personaggi meglio di quanto potessero fare muri di testo e spiegoni orchitici. I soli disegni rendevano gli attori in scena immediatamente leggibili e ce li imprimevano direttamente nei nostri ricordi. Frank Quitely era ormai un narratore con ben pochi pari.
Storie in 3D e animali assassini
Dopo aver impiegato anni a incanalare la sua poetica nello storytelling tipico del fumetto a stelle e strisce la premiata coppia Quitely e Morrion pensò bene che fosse il momento di far fare al tutto un gigantesco passo in avanti, e arrivò così a We3. Pensate ad Asterios Polyp di David Mazzuchelli, ma con tre tenere bestioline trasformate in macchine per uccidere al posto di un architetto frustrato. Con meno introspezione e con una vagonata di violenza in più. Scherzi a parte, anche in questo caso la trama è solo un pretesto per ragionare sul linguaggio e per poterlo smontare pezzo per pezzo, mettendone a nudo le meccaniche e sfruttandone i limiti interni per mettere su carta l’impossibile. E in questo caso si parla di movimento.
Nel raccontare la fuga di Bandit, Tinker e Pirate – rispettivamente un cane, un gatto e un coniglio resi dall’esercito armi senzienti – tutto doveva essere improntato al dinamismo e alla velocità. Sebbene tutta la miniserie fosse piena di soluzioni stimolanti – il balloon vuoto a cerchiare un giornale sullo sfondo per far capire che si sta parlando di quello senza usare una singola parola, i video della sorveglianza che vanno a comporre la griglia della pagina – sono due le soluzioni che elevano questo minuscolo racconto di fantascienza a qualcosa di davvero importante: la frammentazione della pagina in decine di microvignette disordinate e sovrapposte a indicare la simultaneità degli eventi e la celebre splash page a carrellata circolare. In questo caso le vignette assumono una disposizione nello spazio a tre dimensioni, come se fossero diapositive infilate in uno di quei proiettori a carosello. Davanti ai nostri occhi il movimento pare spostarsi fisicamente da sinistra verso destra, con una fluidità che mai si sarebbe raggiunta limitandosi a soluzioni tradizionali.
Con questo lavoro, di cui si vocifera da anni una trasposizione cinematografica ad opera di James Gunn (anche se noi facciamo tutti il tifo per Neil Blomkamp o Chris Cunningham), Quitely raggiunse «il suo punto più alto», parola di Grant Morrison, «e la speranza di poter aprire la possibilità di sfruttare il layout della pagina anche in profondità invece di limitarsi alla superficie. Si tratta di uno stile d’arte più influenzato dai videogiochi che dai film noir».
Il futuro insomma è la contaminazione, l’avanguardia, la frammentazione del linguaggio? La strada sembrava quella, ma da lì a poco ci saremmo tutti rimangiati le parole. Perché con All Star Superman – sempre firmato in coppia con Morrison – saremmo tornati a innamorarci del classicismo più esasperato, sebbene rivisto attraverso gli occhi di un disegnatore ormai in grado di gestire ogni forma di narrazione.
Alle origini di Superman
Nei primi anni del 2000, come ci ricorda il New Yorker, l’aria che tirava era ben diversa da quella di oggi. C’erano ottimismo e speranza, culminati con un discorso del 2008 di Obama che si chiudeva con un glorioso «Sì, possiamo guarire questa nazione. Sì, possiamo riparare questo mondo. Sì, possiamo». Morrison capì al volo, come sempre, in che direzione si stesse muovendo il mercato e mise su carta la sua idea di Superman. Un fumetto luminoso – nonostante l’idea alla base della malattia incurabile dell’Uomo d’Acciaio – e pieno di idee in grado di farti saltare la testa e dal linguaggio iperclassico. Tanto per capirci, in quelle pagine Superman era davvero l’essere più buono del mondo e numero dopo numero doveva solo affrontare imprese sempre più folli. Senza mega-eventi catastrofici, riletture sociali, riflessioni metatestuali o robe così.
L’andamento della serie era davvero quanto di più tranquillo si potesse chiedere: le vignette erano dinamiche come sempre, ma le transizioni dolci e armoniose. Ogni forma di giochetto di layout venne eliminato, a esclusione di un paio di pagine dalla griglia sbilenca. Le splash page venivano utilizzate nella maniera più basica, giusto a fare da accento alle scene più drammatiche.
Mi rendo conto che detta così pare trattarsi della cosa più noiosa al mondo, ma in realtà tutto questo dispiegamento di talento cristallino finisce per conquistare chiunque. La serie vinse tre Eisner Award, tre Eagle Award e due Harvey Awards. E, sopratutto, vendette benissimo. Eppure la cosa più importante fu il suo impatto sull’industria, che dimostrò a tutti come non servissero per forza di cose gimmick linguistici e propensione all’ambiguità per raggiungere il successo commerciale.
In questo senso, la grafica del primo numero è una di quelle destinate a rimanere negli annali. Sotto la testata progettata da Chip Kidd, un Kal-El dallo sguardo compassionevole si rivolge direttamente a noi. Siede – tenendosi le ginocchia – su un banco di nuvole, mentre all’orizzonte sorge il sole. Sotto di noi la vita a Metropolis procede come se nulla fosse. Niente muscoli guizzanti o mantelli frustati dal vento. Niente pose plastiche o lotte o scene apocalittiche. La copertina trasmette serenità e speranza, oltre a fornirci in una sola immagine una perfetta descrizione del personaggio.
Anche negli interni, che miracolosamente Quitely riuscì a disegnare per tutti i 12 numeri della serie, la situazione non cambiava. Dopo anni di oscurità, cinismo e voglia di destrutturare ogni mito possibile e immaginabile, tornare a qualcosa di così quadrato e privo di coni d’ombra fu un’autentica boccata d’aria. Gli autori riuscirono in quella che sembrava un impresa impossibile grazie alla loro capacità di portare tutta la vicenda un gradino più in la.
Così scoprimmo l’esistenza del Bizzarro di Bizzarro, Zibarro. Conoscemmo il Superman di migliaia di anni del futuro. Scoprimmo che nello zoo privato della Fortezza della Solitudine c’è un cucciolo di divoratore di soli, nutrito con piccoli corpi celesti forgiati con un’incudine cosmica. Il tutto messo su carta con un tratto chiaro ed elegante, oltre che un gusto per la composizione straordinario. All Star Superman è, in parole poverissime, bello. Da leggere e da vedere.
Graffiare, ma con stile: da Batman a Jupiter’s Legacy
Dopo l’Uomo d’Acciaio fu tempo di mettersi al lavoro sull’altra grande icona di casa DC: Batman, in quel momento nella fase centrale della lunghissima gestione di Morrison. Anche in quel caso si trattava di un ritorno alle origini, seppur riviste in una maniera che nessuno si sarebbe mai aspettato. Nessuna voglia di realismo, di “grim & gritty” o di cupezza urbana. Pensate piuttosto all’Uomo Pipistrello di Adam West, camp e psicotronico fino al paradosso, diretto da David Lynch. Il che significava un sacco di criminali buffi ma che facevano davvero paura, eccessi di ogni tipo e nessun timore a sfiorare il ridicolo. Quitely disegnò solo tre numeri, ma furono quelli dove debuttò il nuovo Batman.
Rispetto alle prove precedenti il tratto si fece più graffiante e le tavole tesero maggiormente al barocco, ma questo non influì su una narrazione ormai priva di sbavature. La splash page in apertura del secondo numero – con Dick Grayson, nel suo nuovo costume, accasciato sulle scale della bat-caverna, mentre a terra si vede il distintivo di Robin, evidentemente scagliato con rabbia – racconta più di mille parole. Peccato che l’esperienza del disegnatore a Gotham City si sarebbe fermata da lì a poco. Per nostra fortuna la saga tessuta dallo scrittore era ben lungi dall’essere conclusa, garantendoci per altri quattro anni una generosa dose di follia e macchinazioni narrative.
Talking comics with Frank Quitely! #Millarworld https://t.co/11hmWytFSm pic.twitter.com/EfiuH0TmDa
— Brechin High School (@BrechinHigh1) 31 agosto 2017
Le stagioni seguenti passarono abbastanza tranquille, con Quitely impegnato più che altro nella realizzazione di copertine. Forse l’unico ambito dove riusciva a non arrivare in ritardo. Nel frattempo cominciò a lavorare al suo grosso progetto seguente, co-creato con un redivivo Mark Millar.
Nel 2013 debuttò nelle fumetterie statunitensi il primo numero di Jupiter’s Legacy, ennesima rilettura revisionista del mito del supereroe, ma con più velleità sociologiche e metaforoni che mai. In realtà la serie – di cui Quitely riuscì miracolosamente a disegnare tutti e dieci i numeri – era buona, seppure non brillasse di originalità in nessuna maniera.
Millar era ormai una macchina da scrittura e riusciva a ordire sceneggiature in tempi rapidissimi, spesso basandosi completamente sul lato visuale della narrazione. E in effetti era un periodo in cui collaborava con Goran Parlov, Sean Gordon Murphy, Stuart Immonen e molti altri disegnatori che avrebbero reso grandioso perfino un fumetto scritto da me.
Con Jupiter Legacy funzionò allo stesso modo. Quitely sfoderò tutta la sua eleganza e diede alle stampe una serie formalmente perfetta, dove tutto quello per cui era famoso raggiunse l’apice della patinatura. C’era la narrazione fluidissima e priva di stacchi secchi, il tempo che si sospendeva, le esplosioni di particolari che andavano a dare ritmo alla linea chiara. Tutto quello che aveva reso celebre e amato lo scozzese veniva tirato a lucido, senza però buttare nel piatto qualche ingrediente troppo complesso. Lo stesso autore lo definiva come «Il Signore degli Anelli o Guerre Stellari per i supereroi», a rimarcarne lo spirito da blockbuster puro e duro.
Raccontare l’irraccontabile a fumetti, come solo Frank Quitely
Per le elucubrazioni autoriali ci sarebbe stata l’occasione di recuperare, e con gli interessi, nel 2014. Data in cui ha visto la luce l’attesa pubblicazione di Pax Americana, parte del complesso progetto The Multiversity ordito dal solito Morrison. Sul progetto in sé si è scritto moltissimo, e come ogni volta c’è chi l’ha trovato geniale e chi invece gratuito e ridondante.
Ennesima rilettura del supereroe statunitense – quante volte è già venuta fuori questa tematica all’interno di questo articolo? –, questa volta amplificata al cubo aggiungendoci universi paralleli, meta-riferimenti come se non ci fosse un domani, le solite compenetrazioni realtà-fantasia da sempre care allo scrittore scozzese, e un sacco di simbolismi e significati nascosti ad arricchire ulteriormente il banco.
Proprio il contrario di tutto quello che aveva reso All Star Superman un titolo irrinunciabile. Tra gli otto albi previsti per questo megaevento editoriale il più atteso era, manco a dirlo, Pax Americana, sia per l’ennesima collaborazione tra i due colossi del fumetto, sia per il fatto di essere ambientato nello stesso universo di Watchmen (o quasi, ma il succo è quello).
Sulla qualità della scrittura dell’albo c’è poco da dire: la complessità della sceneggiatura è vertiginosa, il livello è quello che ci si aspettava e una bella fetta del fandom ha avuto di che discutere per un bel po’ di tempo. Frank Quitely, aiutato dal fatto che si trattasse di un one-shot neppure troppo corposo, pareva essersi preso tutto il tempo possibile per consegnarci le tavole più follemente ricche e sperimentali della sua carriera.
Nonostante fosse chiaro che certe soluzioni arrivassero direttamente da indicazioni di script (il numero di vignette per pagina, i layout concatenati, la frammentazione estrema, le soluzioni spaventosamente vicine al kitsch come il ponte che si specchia nel fiume a metafora della narrazione circolare), i particolari nei particolari, la gestione del ritmo e la recitazione erano tutta farina del disegnatore, qui tornato al furore sperimentale di We3, seppur privo della furia videoludica di cui era impregnato quel lavoro.
Tornava l’amore per la violenza estetizzata, la resa visuale del tempo sospeso e della contemporaneità, l’accumulo di un numero di minuscoli tratti al cui confronto un maniacale come Geof Darrow pare un minimalista da minicomic.
Per quanto non ami particolarmente il volume in sé, il lavoro di Frank Quitely è stato monumentale. Probabilmente senza di lui non sarebbe stato possibile dare forma alle parole di Morrison: troppa roba da gestire in troppo poco spazio. Non oso immaginare quante prove di layout e composizione si siano dovute fare per arrivare un tale equilibrio miracoloso. Alla stessa maniera inchiostrazione e colorazione erano calibrati al micron per evitare ogni forma di confusione. Il risultato è uno degli albi più ricchi e dettagliati di sempre, ma chiaro e luminoso in ogni sua vignetta. Senza dimenticarsi di narrare, che si tratti di una storia dal montaggio frammentato o del semplice movimento di un corpo durante un combattimento furibondo.
Sembra una cosa di importanza secondaria, ma sfogliare le pagine di Frank Quitely è sempre un piacere. Non si è mai intimoriti, non si soffre di claustrofobia, lo sguardo viene carezzato dalla sua grazia e si è disposti a sopportare le peggiori seghe mentali di Morrison pur di non tornare alla realtà. Penso che basti questo per capirne la grandezza.